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VII.
Cinque minuti dopo il drappello guadava silenziosamente il fiumicello, che era scarsissimo d’acqua, e si radunava sulla riva opposta che era priva d’alberi.
Una vasta pianura, interrotta solo da qualche gruppetto di palme e di pombi, si estendeva al di là, spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie di torricella che pareva un osservatorio.
Cominciando appena appena allora a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente fosse, ma il pilota ed il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere dove si trovavano.
— Il kampong di Pangutaran! — avevano esclamato ad una voce.
— E coi dayachi intorno — aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. — Che il grosso delle loro forze sia giunto prima di noi?
Infatti numerosi fuochi, disposti in forma di semicerchio, ardevano dinanzi alla fattoria, come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.
Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.
— Eccoci in un bell’impiccio — mormorava Yanez. — Sarebbe una imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e d’altronde sarebbe una follia aspettare l’alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.
— Signore — disse il pilota in quel momento, — che cosa decidete?
— Credi che siano molti gli assedianti?
— A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?
Yanez lo guardò con diffidenza.
— Sospettate di me, è vero? — disse il malese, sorridendo. — Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri, che sono malesi al pari di me, anzichè con quei selvaggi.
— Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?
— Non comparirà prima che passi mezz’ora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.
— Dammi dunque una prova della tua fedeltà — disse Yanez.
— L’avrete, signore.
Il malese si fece dare un parang, fece un gesto d’addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero, che gli assedianti non avevano ancora distrutta.
Yanez, coll’orologio alla mano, contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa. Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.
— Ebbene? — chiese Yanez, muovendogli incontro.
— Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più d’un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.
— Hanno armi da fuoco?
— Sì, signore.
— Bah! Sappiamo come se ne servono.
Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.
— Date dentro a corpo perduto — disse loro. — Le Tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.
— Quando ce l’ordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez — rispose il più vecchio. — Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.
— Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d’assalto.
Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo agli zenzeri, che erano abbastanza alti per coprirli.
Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.
La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano ad ottanta passi dagli assedianti.
I dayachi, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno ai falò.
Trecento metri più oltre s’alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di teck, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lila, se non ai mirim, e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d’assalto ad uomini quasi nudi e privi soprattutto di scarpe.
Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bengalow indiani, s’alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.
— Tangusa — disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria — dove si trova il passaggio?
— Di fronte a noi, signore.
— Non cadremo in mezzo alle spine?
— Vi guido io.
— Siete pronti? — chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.
— Pronti tutti, capitano.
— Caricate al grido di «Viva Mompracem!», onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!
I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribile Tigri della Malesia: nè artiglierie, nè fucili, nè armi bianche.
Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayachi che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d’assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:
— Viva Mompracem!
I tagliatori di teste, sorpresi da quell’improvviso assalto, che erano ben lungi dall’aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicchè l’animoso drappello potè gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.
Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:
— Fermi! Sono amici! Aprite la porta!
— Ohè, amico Tremal-Naik! — gridò Yanez con voce giuliva. — Non abbiamo affatto bisogno di piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayachi.
— Yanez! — esclamò l’indiano, con una vera esplosione di gioia.
— Chi credevi che fosse dunque?
— Alzate la saracinesca! Lesti! I dayachi tornano alla riscossa!
Una enorme tavola di legno di teck, pesante come se fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le Tigri di Mompracem, col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda ed un violentissimo fuoco di fucileria.
Un uomo di statura piuttosto alta, un po’ attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po’ abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese.
Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati, i quali hanno ormai rinunciato al doote e alla dubgah per il costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.
— Qui, sul mio petto, amico Yanez! — aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. — È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili Tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?
— Muore di salute.
— E la tua Surama?
— Mi ama sempre intensamente. E Darma dov’è, che non la vedo?
— La tigre, o mia figlia?
— L’una e l’altra, giacchè mi scordavo della tua brava bestia.
— Mia figlia dorme in questo momento; e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.
— Come! Il maharatto non è qui? — esclamò Yanez.
— Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi e guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest’ora, se è riuscito a sfuggire ai dayachi, si è imbarcato per Mompracem.
— Lo ritroveremo più tardi.
— Vieni, amico — disse Tremal-Naik. — Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa’ gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle Tigri di Mompracem.
S’avviò verso il bengalow che s’alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne, ed introdusse l’amico in una stanza a pianterreno che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all’intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Sivah o di Visnù.
— Un buon bicchiere di bram, innanzi tutto — disse l’indiano, riempiendo due bicchieri con quell’eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. — Arresta il sudore.
— Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d’un fiato. Non sono più giovane, amico mio — disse Yanez, vuotando poi d’un fiato il bicchiere. — Ed ora spiegami questo mistero.
— Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto?
— Con la Marianna e dopo aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta.
— Dove l’hai lasciata?
— All’embarcadero.
— È numeroso l’equipaggio?
— Ha forze uguali alle mie.
Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto.
— Sono uomini capaci di difendere il mio veliero — disse Yanez, che se n’era accorto.
— Sono molti i dayachi, più di quanti credevo e soprattutto ben armati e anche bene esercitati.
— Dal «pellegrino»?
— Sì, Yanez.
— L’avrai veduto, tu, quel briccone?
— Io? Mai!
— Non sai nemmeno tu chi è? — chiese Yanez al colmo dello stupore.
— No — rispose Tremal-Naik. — Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita.
— E lui si è guardato bene dall’obbedire?
— Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa, unitamente a quella di mia figlia.
— Tanta audacia ha avuto quel miserabile! — esclamò Yanez, indignato. — Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayaco? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi.
— Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell’uomo non è un dayaco — rispose l’indiano.
— Chi è dunque?
— Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano.
— Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto.
— Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto perfino un sospetto.
— Quale?
— È così assurdo che rideresti se te lo dicessi — disse Tremal-Naik.
— Gettalo fuori.
— Che potesse essere qualche thug.
Yanez, invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l’indiano s’aspettava, era diventato lievemente pallido.
— Sei ben certo, Tremal-Naik — disse poi con voce grave, — che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli Strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Rajmangal o dagli Inglesi, nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura?
— E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo trascorsi undici anni?
— Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l’odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stato la causa della loro fine.
Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per scacciare via qualche visione, poi disse:
— No, è impossibile, è assurdo. I Thug, ammesso che ve ne siano ancora nell’India, non avrebbero atteso tanto. Quel «pellegrino» deve essere qualche furfante che cerca d’imporsi ai dayachi per fondarsi qualche sultania, e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayachi, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d’altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug.
— Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie?
— Le hanno saccheggiate e poi arse.
— Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem.
— Volevo tentare di colonizzare queste coste ed incivilire questi barbari.
— Ed hai fatto un buco nell’acqua — disse Yanez, ridendo.
— Purtroppo.
— E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo?
— Ti chiedo solo ventiquattr’ore — rispose Tremal-Naik — per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave.
— E correremo al più presto verso Mompracem — disse Yanez. — La nostra presenza è necessaria laggiù.
Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l’indiano ne fu colpito.
— C’è qualche cosa in aria? — chiese.
— Ma... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia.
— E quali?
— Che gl’Inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po’ di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell’isola li addebitano a noi, quantunque da molti anni i nostri prahos dormano sulle loro ancore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del Leopardo inglese.
— E anche la sua ingratitudine — disse l’indiano. — Ecco come vorrebbero compensarci d’aver liberato l’India dalla setta dei Thug. E Sandokan cederebbe?
— Lui! Ah, quell’uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l’Inghilterra e di...
Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase.
— Hai udito? — esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione.
— Sì, il cannone tuona verso il sud.
— I dayachi attaccano la Marianna!
— Seguimi sull’osservatorio, Yanez — disse Tremal-Naik. — Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.