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XIII.
Ai bagliori dell’incendio, che rischiaravano tutta la pianura, il maharatto aveva scorta una colonna di dayachi che s’avanzava a passo di corsa lungo il margine della foresta, cercando di accostarsi inosservata. Doveva essere l’ultima riserva del «pellegrino» che muoveva alla caccia dei fuggiaschi.
Qualcuno doveva averli veduti attraversare la pianura ed aveva dato l’allarme prima che scomparissero sotto i boschi.
Yanez e Tremal-Naik con un solo sguardo si persuasero che non era il caso d’impegnare una lotta, anche se il grosso dei nemici si trovava, almeno per parecchie ore, nell’impossibilità di prendere le armi.
— Sono almeno un centinaio e per la maggior parte armati di fucili! — aveva esclamato il portoghese. — Raccomandiamoci alle nostre gambe e carichiamo i feriti più gravi sui cavalli. A terra, Tremal-Naik, e anche tu, Kammamuri; e tu, Sambigliong, forma un drappello che protegga la ritirata.
Sei feriti furono fatti salire sui tre cavalli rimasti liberi, il settimo su quello montato da Darma; ed il drappello si slanciò di corsa sotto la foresta, fuggendo verso ponente.
Sambigliong, con otto uomini scelti fra i più lesti ed i più robusti, si era messo alla retroguardia, per rallentare, con qualche scarica, lo slancio degli inseguitori.
Avevano il vantaggio di qualche chilometro e si studiavano di mantenerlo, facendo sforzi disperati per non rimanere indietro.
Quella corsa sfrenata sotto le gigantesche piante durò una buona ora, poi Yanez e Tremal-Naik, avendo trovato una macchia foltissima, comandarono la fermata onde non sfiatare completamente i loro compagni.
Quel luogo si prestava anche opportunamente per una valida difesa nel caso che i dayachi fossero riusciti a scoprirli, essendo la macchia formata da durion dal tronco enorme che potevano benissimo proteggerli.
Ogni rumore era cessato. Non udivano più le grida degli inseguitori lanciati sulle loro tracce. Si erano fermati, non osando inoltrarsi sotto la foresta o s’avanzavano a passi da lupo per sorprenderli?
— Aspettiamoli qui — aveva detto Yanez. — Se hanno smarrite le nostre tracce le ritroveranno infallantemente e preferisco fucilarli fra questi colossi, piuttosto che ci piombino addosso in un altro luogo più scoperto. Se possiamo infliggere loro un’altra lezione, quelle mignatte ci lasceranno tranquilli fino a che non sarà passata l’ebrezza agli altri. È terribile una sbornia di bram, vero, Tremal-Naik?
— Dura almeno ventiquattr’ore — rispose l’indiano.
— Con un simile vantaggio giungeremo sulle rive del mare prima di loro.
— Purchè non scendano il Kabatuan con delle piroghe. Ecco il pericolo.
— È più breve la via del fiume?
— Di molto, Yanez.
— Bah! Se ci assalgono in mare, ci difenderemo. Tutto dipende dall’avere un paio di prahos.
— Ne troveremo, signor Yanez — disse Kammamuri. — Nel villaggio ove ne ho noleggiato uno per recarmi a Mompracem, ne ho veduti parecchi. Non avranno difficoltà, quei pescatori, a vendercene un paio.
Attesero più di un’ora entro la macchia, aspettando invano l’arrivo dei dayachi. Certi che avessero smarrite le loro tracce o che fossero tornati verso i loro accampamenti, decisero, dopo breve consiglio, di riprendere la marcia.
Collocarono la fanciulla ed i feriti nel centro della colonna e si addentrarono risolutamente nell’immensa foresta che Kammamuri asseriva estendersi quasi senza interruzione fino sulle rive del mare.
Tutta la notte proseguirono la marcia, sempre col timore di vedersi raggiungere dai tagliatori di teste; e allo spuntare del sole improvvisarono un accampamento sulla riva d’un fiumicello che doveva essere qualche affluente del Kabatuan.
Le loro apprensioni andavano a poco a poco calmandosi e cominciavano a sperare di poter raggiungere il mare senza altri combattimenti e d’imbarcarsi per Mompracem.
Ed infatti anche quel giorno passò tranquillo. Della colonna lanciata sulle loro tracce, più nessuna nuova.
Per altri tre giorni continuarono ad inoltrarsi attraverso quella interminabile foresta, abitata solamente da qualche tranquillo tapiro e da qualche banda di babirussa; e verso il tramonto del quinto salivano i primi contrafforti dei Monti Cristallo, la gran catena costiera che si prolunga dal nord al sud a breve distanza dalle sponde occidentali dell’immensa isola.
Nonostante la foltezza dei boschi, l’incontro di non poche pantere nere e di mias o orangutang (uomini del bosco), anche quella traversata fu compiuta senza gravi pericoli.
Nel pomeriggio del sesto giorno, dopo d’aver avvistato il mare dalle più alte giogaie della catena, scendevano in una valle strettissima, che doveva condurli alla costa.
Marciavano da quattro ore, nel più profondo silenzio, in fila indiana, tanto era stretto il passaggio ed ingombro di massi enormi, quando delle grida lontane li fermarono di colpo.
— I dayachi? — aveva chiesto Yanez, voltandosi rapidamente.
Una scarica rimbombò in quel momento sul margine superiore della vallata ed una truppa numerosissima d’uomini apparve, scendente a precipizio i fianchi selvosi della costa.
— Birbanti! — esclamò Yanez, furioso. — Ci hanno seguìti per schiacciarci in questo luogo!
— Capitano — disse Sambigliong, — proseguite verso la costa coi feriti, la signorina Darma e Tremal-Naik ed una piccola scorta, Kammamuri mi ha assicurato che il mare non è che a tre miglia di distanza.
— E tu? — chiesero Tremal-Naik ed il portoghese.
— Io, signore, assieme agli altri, impedirò il passo a quei furfanti finchè avrete preparati i prahos. Se non li arrestiamo, ci schiacceranno tutti in questa gola e nessuno di noi rivedrà mai più Mompracem. Presto, signori, il nemico ci piomba addosso.
— Puoi resistere mezz’ora? — chiese Yanez.
— Anche un’ora, capitano. Lassù — disse il valoroso mastro della Marianna, indicando un’alta roccia che si rizzava proprio in mezzo alla valletta — terremo duro a lungo.
— Sì, mio bravo — disse Yanez con voce commossa. — Appena udrai a tuonare le nostre carabine, ripiegati verso la costa. I prahos e le scialuppe saranno pronte. Vi è un villaggio, è vero, Kammamuri, allo sbocco di questo burrone?
— Sì, signor Yanez. È abitato da pescatori e le barche non mancano! Lesti, signori! Tra noi e la tigre daremo da fare ai dayachi.
Le prime palle giungevano di già, sibilando sinistramente nella gola e scheggiando le rocce. Qualcuna poteva colpire la fanciulla.
— Arrivederci presto! — gridarono Yanez e Tremal-Naik, slanciandosi dietro ai cavalli che si erano messi a trottare portando Darma ed i feriti.
— A me, amici! — disse Sambigliong, volgendosi verso i suoi uomini. — Facciamo fronte a quei birbanti! Là, tutti su quella rupe! Vieni, Kammamuri.
Erano in venti, avendone distaccati otto per scortare Yanez e Tremal-Naik: tutti ben armati e ben provvisti di munizioni.
In pochi salti raggiunsero la rupe che sbarrava quasi ininterrottamente il burrone e si scaglionarono fra le rocce, riparandosi dietro le sporgenze. Darma, la tigre addomesticata, l’amica fedele del maharatto, era con loro, pronta a provare i suoi artigli sulle carni dei dayachi.
La colonna nemica era già discesa nella valle, a cinquecento passi dallo scoglio. Era composta di un centinaio e mezzo d’uomini, per la maggior parte armati di moschetti e di carabine, il fiore certamente delle forze del maledetto «pellegrino».
Vedendo le Tigri di Mompracem e gli uomini della fattoria occupare la cima della rupe, invece di muovere direttamente all’assalto, i guerrieri si dispersero fra i cespugli che coprivano il fondo del burrone e aprirono un fuoco violentissimo con la speranza di snidare i difensori.
— Amici — gridò Sambigliong, rivolgendosi ai suoi uomini, — vi avverto che dobbiamo resistere fino a che udremo il segnale che ci darà l’uomo bianco. Non contate i morti e non economizzate le cartucce.
— Fuoco! — urlò Kammamuri, che occupava proprio la cima della rupe.
Una scarica nutrita partì da dietro le rocce, abbattendo d’un colpo solo un piccolo drappello di nemici, che, sprezzando il pericolo, muoveva audacemente innanzi, senza prendere alcuna precauzione. Era composto di una dozzina d’uomini e nessuno era rimasto in piedi.
— Cominciamo bene, Sambigliong — gridò Kammamuri. — Per Sivah e Visnù, dovrebbero mandarci incontro un altro manipolo d’uomini.
I dayachi, resi furibondi per la distruzione totale della loro avanguardia, non avevano indugiato a rispondere con scariche formidabili, che rintronavano profondamente nella stretta valle.
Per alcuni minuti la fucileria durò intensissima d’ambe le parti, poi i dayachi, comprendendo che non sarebbero mai riusciti a scacciare con i fucili i difensori della rupe che si tenevano bene nascosti, si radunarono in varî drappelli per prendere a viva forza quella formidabile posizione.
Impugnati i kampilang, si slanciarono, col loro impeto abituale, all’attacco, urlando per incutere maggior terrore ai nemici, ma non erano ancora giunti alla base della rupe, che il fuoco dei Tigrotti e dei loro compagni li costrinse ad arrestarsi per riprendere i fucili.
— Amici! — gridò Sambigliong ai suoi prodi che non abbandonavano i loro posti, quantunque molti fossero stati già feriti. — Ecco il momento terribile! Sappiate morire da eroi!
I dayachi per la seconda volta si erano precipitati all’assalto, sostenendosi con un fuoco vivissimo.
Malgrado le enormi perdite che subivano, avevano cominciato ad arrampicarsi su per le rocce, vociando sempre, balzando come scimmie, impazienti d’impadronirsi delle teste di quegli ostinati difensori e di vendicarsi di tante sconfitte subite.
Il drappello guidato da Sambigliong e da Kammamuri resisteva tenacemente. La lotta diventava terribile. Era un battagliare selvaggio, feroce, inumano.
Gli uomini cadevano mandando urla furiose, tentando ancora di offendere, coi fucili o i kampilang o i parang, gli avversarî.
Sambigliong e Kammamuri vedevano con angoscia assottigliarsi sempre più il loro drappello. Tutti quelli che si trovavano a metà della rupe erano stati decapitati dalle pesanti sciabole degli assalitori, o fucilati sul posto: ed il segnale non si udiva ancora! Che cosa poteva essere successo a Yanez? Che i prahos dei pescatori non fossero ancora rientrati in porto? Era quello che si chiedevano con ansietà estrema Kammamuri e Sambigliong, i quali ormai si vedevano impotenti a frenare l’attacco.
I dayachi salivano sempre, sfidando intrepidamente la morte e facendo scintillare i loro terribili kampilang. Non facevano quasi più fuoco, tanto erano sicuri della vittoria.
— Kammamuri! Lancia la tigre!
— A te, Darma! — urlò il maharatto. — Sbrana!
La belva, che durante quella intensa fucilata era rimasta nascosta dietro una roccia, mugolando sordamente e rizzando il pelo, a quel comando balzò innanzi con un aug spaventevole, piombò su un uomo che stava decapitando un giavanese e gli piantò i denti nella nuca.
I dayachi, vedendo rovinarsi addosso quella belva, che pareva volesse divorarli tutti, si erano precipitati all’impazzata giù dalla roccia, ricaricando precipitosamente i loro moschetti.
Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi su di un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì.
La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s’abbattè, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato:
— La mia Darma! Me l’hanno uccisa!
Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari.
— Il segnale! Il segnale! — gridò Sambigliong. — In ritirata!
Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle ed i kampilang dei dayachi, ed i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa.
Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sè, dicendogli:
— È morta: lasciala.
Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa.
Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayachi ripreso l’inseguimento; e sbucò su di una piccola pianura alla cui estremità s’alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare.
— Signor Yanez! — gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, con le vele già spiegate, pronti a prendere il largo.
Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva.
— Presto! — gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura.
Pochi minuti dopo, estenuati ed insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva.
— E gli altri? — chiesero a una voce Yanez e Tremal-Naik.
— Tutti morti — rispose Kammamuri con voce affannosa: — anche la tigre, la nostra brava Darma.
— Sia dannato quel cane di «pellegrino»! — gridò l’indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. — Anche la mia tigre, perduta!
— E i dayachi? — chiese Yanez.
— Fra poco saranno qui — disse Sambigliong.
— Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l’altro, con Kammamuri ed i superstiti.
S’imbarcarono rapidamente ed i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata, udendo le grida dei dayachi, si salvava precipitosamente nei boschi vicini.
Il vento era favorevole, sicchè i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno per il momento.
I dayachi giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nella mani.
Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio.
— Canaglie! — esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. — Se avessi ancora la mia Marianna vi darei una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi; e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro «pellegrino»!
I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan.
Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi.
Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po’ più grosso e portava per armamento un lila; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su di un cavalletto fissato sulla prora.
— Pessimi velieri — disse Sambigliong, dopo un rapido esame. — Sono vecchi quanto me.
— Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto — rispose Yanez. — È stata anzi una vera fortuna il trovarli; e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli.
— Muoviamo subito su Mompracem?
— Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcacce, che assorbono acqua come le spugne.
— Sono impaziente di giungervi, capitano.
— Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo!
— Che la Tigre stia combattendo contro gl’Inglesi?
— Non mi stupirei: Sandokan non è un uomo d’abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d’aver perduto la mia nave! Con la mia Marianna e la sua e appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan.
— Non è colpa mia, capitano Yanez — disse Sambigliong.
— Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave, — rispose Yanez, con voce dolce. — Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem.
Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l’uno dall’altro.
Yanez, seduto a poppa su di una grossa pietra che serviva da àncora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Solo quattro vegliavano a prora, per la manovra.
Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell’inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l’isolotto di Sapangar che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, forse la torcia di qualche pescatore notturno.
Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza.
— Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell’alba — mormorò il portoghese. — La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna.
Vegliò fino all’una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su di una vecchia vela di vimini.
Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo:
— All’armi! Tutti in piedi!
Cominciava allora ad albeggiare e i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell’isola di Gaya.
Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo:
— Ebbene, che cosa c’è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e...
Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà.
Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguìto da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull’asta di poppa.
— Che cosa vuole quella flottiglia? — si era domandato il portoghese.
Un colpo di mirim, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intimava ai due prahos di fermarsi.
— I dayachi, signore! — gridò in quell’istante Sambigliong, che si era slanciato verso prua per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. — Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa!
Il portoghese mandò una bestemmia.
— Ancora essi! — esclamò poi. — Ecco la fine!
Era una follìa tentare d’impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lila e di mirim e fors’anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayachi, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri.
Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l’isola di Gaya, coperta di folte foreste, era l’unica salvezza che restasse ai fuggiaschi.
— Appoggiate sulla costa! — gridò Yanez. — E armate i fucili.
Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette od otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya.
Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong, accortosi dell’intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era inframmezzato fra i due prahos, seguìto subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lila, cercando di abbattere le manovre.
— Ah, canaglie! — aveva gridato Yanez. — Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, Tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi.
Afferrò la carabina e per il primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong.
I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l’equipaggio della nave avversaria.
Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza.
Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d’un colpo solo il praho dell’indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d’artiglieria che armava la scialuppa a vapore, sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme.
— Tigrotti di Mompracem! — aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. — Andiamo a salvare la fanciulla!
Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell’indiano, quando si vide tagliare la via dal giong.
Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d’appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare.
— Fuoco sul ponte, Tigrotti! — gridò il portoghese. — Almeno vendichiamo gli amici!
Una voce dall’accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong:
— Arrendetevi al «Pellegrino della Mecca»! Vi prometto salva la vita!
Il misterioso nemico era apparso sul cassero, col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar.
— Ah, cane! — gridò Yanez. — Anche tu ci sei! Prendi!
Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente.
Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s’alzava fra l’equipaggio del giong.
— Finalmente! — gridò Yanez. — Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!