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XV.
L’indiano non aveva opposto la menoma resistenza, anzi il sorriso ironico che gli sfiorava le labbra non era nemmeno sparito. Pareva che quell’uomo fosse assolutamente sicuro di sè e che nemmeno la prospettiva, non certo piacevole, di dover sopportare la tortura, avesse scossa la sua forte anima di settario fanatico.
Quando si trovò sulla tolda, disteso su di una tavola e solidamente legato, in modo da impedirgli di fare il menomo movimento, anche allora la sua serietà non venne meno.
Guardò con occhio tranquillo i marinai che avevano formato un circolo intorno a lui: poi il capitano e Yanez, dicendo a quest’ultimo col suo solito accento beffardo:
— Ed ora mi getterai ai pesci?
— Abbiamo qualche cosa di meglio, signor strangolatore — disse l’americano. — Vi duole la ferita?
Lo strangolatore alzò le spalle con disprezzo.
— Non datevi alcun pensiero per quella graffiatura — disse con voce recisa. — Mi prendete per un fanciullo?
— Meglio così. Portate un paio di secchie e l’imbuto.
Tre marinai si fecero largo, portando quanto era stato chiesto. L’imbuto era quello che usava il cambusino per riempire le botti, un arnese massiccio dall’imboccatura abbastanza larga per tappare completamente la bocca dell’indiano.
— Vuoi confessare? — chiese per l’ultima volta l’americano. — Mi risparmierai una tortura inutile, perchè non potrai resistere.
— No — rispose seccamente lo strangolatore.
— Neanche se ti promettessi un giorno la libertà? — chiese Yanez, a cui ripugnava ricorrere ai mezzi estremi.
— Quel giorno io non sarei più vivo.
— Agite — disse l’americano.
Tutti si erano avvicinati attorno alla tavola. Solo il timoniere era rimasto dietro la ruota ed i fuochisti dinanzi ai forni.
Due marinai introdussero nella bocca dell’indiano l’estremità dell’imbuto, tenendovelo ben fermo, mentre un terzo vi versava lentamente l’acqua contenuta nel bugliolo.
Lo strangolatore, costretto a bere per non morire soffocato, aveva cercato con uno sforzo disperato, di spezzare i legami onde allontanare l’imbuto. Aveva subito compreso che non avrebbe potuto resistere a lungo a quella tortura, che prima di allora non aveva mai conosciuta.
Tuttavia, deciso a resistere fino all’ultimo, anche a morire, non fece alcun atto che potesse far supporre all’americano ed al portoghese di essere pronto a confessare.
Il liquido continuava a scorrergli nello stomaco ed il suo ventre si gonfiava a vista d’occhio. I suoi lineamenti dimostravano uno spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre.
— Confesserai? — gli chiese l’americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi.
Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego; ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell’imbuto.
Un altro paio di litri d’acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto.
Era la sua resa.
— Basta — aveva detto Yanez, nauseato. — Basta.
L’imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l’aria, poi con voce rantolosa, mormorò:
— Assassini!
— Oh, non morrai per un po’ d’acqua! — disse l’americano. — Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai?
L’indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l’americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso.
— No... no... più... — balbettò.
— Chi è l’uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo, — disse Yanez.
— Sindhya, — rispose l’indiano.
— Chi è costui? E tu, soprattutto, chi sei veramente?
— Sono... sono... il precettore... di Sindhya... l’ho allevato... io... io... l’amico... fedele... di Suyodhana...
— E quel Sindhya? — insistette Yanez che vedeva l’indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente.
— Parla o ritorniamo all’acqua — disse l’americano.
— ... è... il figlio... di... Suyodhana — barbugliò lo strangolatore.
Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settarî, che meno degli altri avrebbe dovuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra la Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva incarnata Kalì, la sanguinaria divinità, aveva avuto il suo romanzo, come un mortale qualunque?
Yanez si era curvato sull’indiano, per chiedergli maggiori spiegazioni e s’avvide che lo sciagurato aveva smarrito i sensi.
— Che muoia? — chiese, rivolgendosi all’americano. — Non ha confessato tutto e bisogna che sappia dove si trova il figlio del terribile strangolatore e dove hanno condotto Tremal-Naik e sua figlia Darma.
— Lasciatelo digerire tranquillamente la sua acqua — rispose lo yankee. — Questa tortura non uccide, se viene sospesa a tempo e domani quest’uomo starà bene quanto me e voi. Facciamolo riportare nella cabina e lasciamo che dorma.
— È svenuto.
— S’incaricherà il medico di bordo di farlo tornare in sè. Non temete, signor de Gomera. Questa sera o domani, noi sapremo tutto quello che desiderate sapere.
Fece un cenno ai due marinai e questi sollevarono l’indiano, che non dava più segni di vita e lo portarono nel frapponte.
— Ebbene, signor de Gomera — disse l’americano, rivolgendosi a Yanez, che pareva assai preoccupato e pensieroso: — Pare che non siate troppo lieto della nuova che avete appreso. È un uomo pericoloso, il figlio del capo degli strangolatori?
— Può diventarlo — rispose Yanez, — non sapendo noi nè dove si trovi, nè chi sia, nè di quali mezzi disponga. La guerra sorda ma implacabile, fattaci finora, dimostra che quel Sindhya deve possedere l’energia e la ferocia del padre. È necessario che io sappia dove si nasconde.
— Non era dunque fra i dayachi che vi hanno assaliti?
— Non sembra. Non vi era che quel «pellegrino» alla testa dell’insurrezione, di questo siamo certi. Se vi fosse stato qualche altro indiano, a quest’ora l’avremmo saputo.
— Che sia veramente possente quel Sindhya?
— I fatti lo dimostrano. È stato lui ad armare i dayachi, lui a sobillare gl’Inglesi e forse anche il nipote di James Brooke. Sono certo che deve disporre di ricchezze incalcolabili.
— E l’oro è il nerbo della guerra — disse l’americano.
— E deve aver armato anche qualche nave.
— Che la vostra affonderà senza fatica, signor de Gomera. Nessuno potrà sfidare impunemente le vostre artiglierie, che sono le più moderne e le più formidabili che finora si conoscano e che anche la Marina del mio paese sta adottando. Che peccato non potervi tenere compagnia!
— Signor Yanez — disse in quel momento Kammamuri, che fin allora era rimasto silenzioso e non meno pensieroso del portoghese, — che cosa ne dite di questa inaspettata rivelazione?
— Che non avrei mai supposto che noi dovessimo trovarci ancora di fronte ai Thug indiani. Tu che sei stato loro prigioniero parecchio tempo, non hai mai udito a narrare che Suyodhana avesse un figlio?
— No, signor Yanez, e poi se i Thug lo avessero saputo, il loro capo avrebbe molto perduto della sua influenza. Egli deve averlo fatto allevare molto lontano dai Sunderbounds, all’insaputa di tutti, per celare la propria colpa. Un capo come lui non può amare una mortale: il suo cuore non deve battere che per la sanguinaria dea.
— Credi tu che la comunità dei Thug fosse molto ricca?
— Mi fu detto che poteva disporre di tesori favolosi e che solo Suyodhana sapeva dove erano collocati.
— Distrutti i settarî, certo quelle ricchezze saranno state raccolte da Sindhya.
— È probabile, signor Yanez — rispose il maharatto.
— Ed ora viene a sfidarci per vendicare suo padre! — disse il portoghese, come parlando fra sè. — Come la Tigre della Malesia ha vinto e ucciso la Tigre dell’India, abbatterà anche il Tigrotto.
— Mi stupisce però — disse l’americano, — come lui, figlio d’uno strangolatore, sia riuscito a procurarsi l’appoggio degl’Inglesi, se è vero quanto voi sospettate.
— Sapete voi sotto quale nome o quale titolo si nasconda? — chiese Yanez. — Non sarà stato così sciocco da dire al governatore di Labuan che è un seguace di Kalì. Mi occorre sapere dove si trova: ed il suo precettore me lo dirà, dovessi torturarlo fino a che muoia.
— Basterà minacciarlo d’una nuova bevuta — disse l’americano. — Non resisterà, vedrete, e vi spiattellerà tutto. Signor de Gomera, andate un po’ a riposarvi. Dovrete essere assai stanco, dopo tante emozioni. I vostri marinai dormono già come ghiri.
Il portoghese, che da due notti non chiudeva gli occhi, seguì il consiglio dell’americano e scese nel quadro con Kammamuri, gettandosi vestito come era in un lettuccio.
Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa.
Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell’epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gl’incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici.
Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci.
A mezzodì il Nebraska — tale era il nome del magnifico vapore — avvistava già l’isola di Tega e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l’estremità d’una vasta isola staccata dalla terraferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni.
Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l’esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud.
Quasi nel medesimo istante la voce dell’americano svegliava bruscamente Yanez.
— In piedi, signor de Gomera! — aveva gridato il comandante.
Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese. Anche il viso dell’americano era assai oscuro.
— Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien.
— By God! — bestemmiò lo yankee, grattandosi rabbiosamente la testa. — Non me l’aspettavo, signor Yanez.
— Insomma che cosa c’è di nuovo?
— C’è... c’è... che quel maledetto indiano se n’è andato all’altro mondo senza completare le sue confessioni.
— Morto!
— Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone?
— Sì, mi pare d’averglielo veduto.
— Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica: ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia — disse l’americano.
Yanez aveva fatto un gesto di collera.
— Morto, portando nella tomba il segreto che più mi premeva! — esclamò coi denti stretti. — Come faremo noi a sapere dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini? Maledizione! La stella che per tanti anni ci ha protetti, comincia a offuscarsi. Sarebbe il principio della fine?
— Non scoraggiatevi, signor Yanez — disse l’americano. — Non li avranno già mangiati, i vostri amici. Se non li hanno uccisi subito, vuoi dire che i rapitori avevano ricevuto l’ordine di tradurli in qualche luogo.
— E dove?
— Ecco il punto nero, per ora.
Yanez, che in quella disgraziata spedizione più volte aveva perduto la sua calma, si era messo a passeggiare per la cabina in preda ad una vivissima agitazione.
Che cosa fare? Che cosa risolvere? Dove dirigere le ricerche? Erano quelli i pensieri che turbavano la sua mente.
— Dove ci troviamo ora, signor Brien? — chiese ad un tratto fermandosi dinanzi all’americano.
— In vista delle coste di Labuan, signor de Gomera.
— Quando potremo giungere a Mompracem?
— Fra le dieci e le undici di notte.
— Fate mettere in acqua una scialuppa con viveri e armi per due uomini e accostate Labuan.
— Che cosa volete tentare, signor de Gomera?
— Mi è venuto un sospetto.
— E quale?
— La scialuppa a vapore si è diretta verso il sud, senza entrare nella baia di Kabatuan, che i miei prahos avevano già oltrepassata.
— Sicchè voi credete?
— Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini a Labuan.
— E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi?
— E raccoglierli più tardi.
— Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli.
— Avranno ciò che chiederanno.
— Seguitemi, signor Yanez.
Quando salirono in coperta, le spiagge di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia.
L’americano fece armare una scialuppa, chiamò due marinai, due californiani alti come granatieri e li informò del desiderio espresso dal portoghese.
— E offro cento sterline a ciascuno di voi se riuscirete a darmi notizie dei miei amici — aggiunse Yanez.
— Andiamo anche all’inferno noi — rispose uno dei due marinai. — È vero, Bob?
— A prendere Belzebù, se lo vorrete, signor comandante — disse l’altro.
— Fra due giorni al più tardi io verrò a raccogliervi.
— Di notte? — chiese Bob.
— Sì, e segnalerò la nostra presenza con un razzo verde.
— Che il diavolo ci porti via se non riusciremo, signor comandante — rispose il primo.
La scialuppa era pronta. I due californiani vi discesero e presero subito il largo arrancando verso l’isola, mentre il Nebraska riprendeva frettolosamente la sua rotta, dirigendosi verso ponente.
Un po’ più tardi lo strangolatore, dopo che il medico ebbe constatato essere veramente morto, veniva gettato in mare chiuso entro un’amaca e con una palla di cannone ai piedi, onde sottrarlo alla voracità dei pescicani, che si tengono ordinariamente a fior d’acqua.
Alle otto di sera, il Nebraska, che non aveva rallentato la velocità, si trovava già a mezza via fra Labuan e Mompracem. Il mare era sempre deserto e la luna sorgeva lentamente all’orizzonte.
Una calma assoluta regnava intorno alla nave. Nessuna ondulazione increspava la superficie che pareva d’olio.
Yanez, Kammamuri e Sambigliong, dal castello di prua, spiavano ansiosamente l’orizzonte, impazienti di avvistare l’alta rupe su cui sorgeva la dimora della Tigre della Malesia, mentre l’americano, che aveva ripreso momentaneamente il comando della poderosa nave, passeggiava sulla plancia di comando.
— Quale sorpresa per Sandokan vedendoci giungere con un simile rinforzo! — disse Sambigliong. — Abbiamo perduto la Marianna e torniamo con una nave che ne vale venti.
— Che darà del filo da torcere a Sindhya ed ai suoi alleati, se veramente ne ha — rispose Yanez.
— Che gl’Inglesi si siano accontentati d’una semplice minaccia, capitano?
— È un bel po’ che ci hanno fatto capire di andarcene lontani da Mompracem.
— E l’ultima minaccia era grave, signor Yanez — disse Kammamuri. — Non avevo mai veduto Sandokan così preoccupato.
— Si preparava alla resistenza?
— Sì, signor Yanez.
Ad un tratto il portoghese impallidì.
— Se giungessimo troppo tardi? — chiese con ansietà.
— No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un’ora sapremo che cosa sarà avvenuto.
Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare per il castello di comando, con le mani affondate nelle tasche e la sigaretta spenta fra le labbra.
Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano il Nebraska da Mompracem.
Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente.
Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l’americano scendeva precipitosamente la plancia di comando.
— Un colpo di cannone! — aveva esclamato Yanez.
— E viene da Mompracem, signor de Gomera — disse l’americano, salendo il castello. — Il vento ci soffia di fronte.
— Che gl’Inglesi abbiano assalita l’isola?
— Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina, a tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi, ai vostri posti!
Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguìta dopo qualche po’ da una serie non interrotta di spari più o meno sonori.
Non ci si poteva ingannare. All’orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un’aspra battaglia.
Yanez e l’americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina.
— Siamo pronti? — chiese Brien all’ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi.
— Sì, comandante.
— Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca.
Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro.
Yanez, un po’ pallido per l’emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scìa spumeggiante.
— Fumo all’orizzonte! — gridò ad un tratto il portoghese. — Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto!
— Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie.
Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem.
I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione.
Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero.
— I nostri prahos! — urlò d’improvviso Yanez, staccando dall’occhio il cannocchiale. — La Tigre della Malesia s’allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gl’Inglesi ci hanno vinti!
L’americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale.
— Sì, i prahos — disse poi — e cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord.
— Cannonieri! — gridò Yanez. — Pronti per il fuoco di bordata! Massacrate quelle navi!
Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, con la Marianna di Sandokan in coda, che avvampava come un vulcano; e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili.
— Eccoci in pieno ballo — disse l’americano. — Giovanotti! Fuoco di bordata!