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CAPITOLO XII.
Sull’Atlantico.
In sette giorni, quella macchina meravigliosa era passata dai nebbiosi e gelidi climi del nord a quelli secchi e ardenti delle regioni tropicali.
I naviganti dello Sparviero a poco a poco, di passo in passo che scendevano verso il sud, si erano sbarazzati delle loro pesanti vesti, fino a ridursi quasi in maglia, senza averne risentito pericolosi effetti.
L’Atlantico si spiegava dinanzi a loro colla sua splendida tinta azzurro-cupa e colle sue imponenti correnti marine circolanti sotto l’Equatore.
Nel momento in cui perdevano di vista la costa africana, sfumata rapidamente in mezzo ad un tramonto di fuoco, nessuna nave solcava l’oceano. Solamente degli uccelli marini, occupati a pescare ed a dare la caccia ai pesci volanti, apparivano sull’azzurra superficie, descrivendo dei voli fulminei.
Lo Sparviero, non avendo più nulla da temere di essere da un momento all’altro scoperto, era disceso verso l’oceano fino a centocinquanta metri, onde permettere ai naviganti dell’aria di ammirare le bellezze che poteva offrire quella sconfinata superficie, sulla quale di quando in quando si mostravano numerosi pesci, per lo più pesci-cani e delfini.
Ammassi di alghe cominciavano ad apparire qua e là, strappate senza dubbio alle correnti da quel famoso mare dei Sargassi così temuto dagli antichi naviganti, e che lo Sparviero doveva incontrare molto più tardi, al sud delle isole del Capoverde.
In mezzo a quelle piante acquatiche si mostravano numerosissimi pesci, trovandosi forse là più sicuri contro gli assalti dei feroci pesci-cani.
Abbondavano soprattutto i diodon, pesci strani delle zone torride, che hanno l’abitudine di navigare col ventre all’insù e d’ingoiare una certa quantità d’aria diventando così rotondi come palloni.
Il loro corpo è tutto coperto di spine, d’un colore biancastro a macchie violacee, e quando il pesce s’irrita diventa sempre più grosso.
In mezzo a quei singolarissimi pesci si vedevano ballonzolare leggiadramente anche numerose conchiglie di nautilo, dai margini di madreperla, cogli otto tentacoli arrotolati, spiegati al vento come minuscole barchettine.
Di quando in quando però fra i diodon ed i loro amici si manifestava un improvviso panico. I primi si sgonfiavano rapidamente e si lasciavano andare a picco; i secondi ripiegavano rapidamente i loro tentacoli e capovolgevano le conchiglie, sommergendosi.
Se le alghe li proteggevano o meglio li nascondevano dai loro nemici acquatici, non li salvavano dai predatori dell’aria, dagli albatros dal becco robustissimo e dai quebranta huesos, o rompitori d’ossa, i quali piombavano dall’alto con fulminea rapidità, facendo, di quando in quando, numerose vittime. Svanito il pericolo però, diodon e nautilo ricomparivano, navigando di conserva, da buoni amici, finchè un nuovo assalto di quegli insaziabili uccellacci non li sgominava di nuovo.
— Qui si potrebbero fare delle pesche abbondanti, — disse Wassili, il quale seguiva, con vivo interesse, quei piccoli drammi marittimi. — Tu avrai delle reti, Ranzoff.
— Pescheremo quando saremo giunti nel mare dei Sargassi, — rispose il capitano. — Per ora viveri ne abbiamo in abbondanza ed ho fretta di allontanarmi da questi paraggi che sono ancora frequentati.
— Eppure si farebbero delle buone retate, — disse Boris. — L’oceano qui è profondissimo ed i pesci trovano un pasto abbondante. In questo momento noi passiamo sopra dei baratri così profondi, che vi starebbero comodamente entro le più alte montagne del globo senza vederne emergere la cima.
— Infatti ho udito narrare che fra la costa africana, le Canarie e le isole del Capo Verde vi sono delle voragini straordinarie, — disse Wassili.
— Non così profonde però come quelle che si trovano nell’Oceano Pacifico, — rispose l’ex-comandante della Pobieda. — Qui ve ne sono di quelle che misurano perfino novemila metri, mentre nel Pacifico si sono eseguiti dei sondaggi di quindicimila.
— E dire che anche qui sono riusciti, malgrado tali profondità, a deporre dei cavi telegrafici, — disse Ranzoff. — Quale rovina per una Compagnia, se uno di quei cavi, immersi a sette od ottomila metri di profondità dovesse spezzarsi!
— Nessuna, signor Ranzoff, — rispose Boris, — perchè si ripesca e si accomoda.
— Si può ancora ricuperarlo?...
— Certamente e non con grandi difficoltà. Quante volte i cavi, anche immersi a grandissime profondità, sono stati riportati a galla per ripararli! Credete voi che le gomene telegrafiche non abbiano mai subìto dei guasti, quantunque immerse a parecchie migliaia di metri? Se noi avessimo a bordo gli ordigni necessari e del tempo da perdere, si potrebbero riprendere tutti i cavi e tagliarli, rompendo le comunicazioni fra l’America e l’Europa.
— Sono molte le gomene telegrafiche calate fra il vecchio ed il nuovo continente?
— Sì, signor Ranzoff, ma due sono state abbandonate e giacciono in fondo agli abissi: quella calata nel 1865 e quella immersa l’anno dopo.
— Che perdita per le Compagnie proprietarie! — disse Wassili.
— Gravissima, fratello, perchè una gomena transatlantica non costa meno di venticinque milioni.
— L’uomo che pel primo ha avuto l’idea di riunire i due continenti deve essere stato un gran genio, — disse Ranzoff.
— Se l’Europa e l’America possono ora corrispondere in pochi minuti, lo devono a Ciro Field e all’ingegnere Gisborne, i quali pei primi lanciarono l’idea. Quante disillusioni e quanti scoramenti provarono però quei valent’uomini prima di veder realizzarsi il grandioso progetto! E quanti milioni furono inghiottiti dal mare!
— Quando fu calata la prima gomena?
— Il primo tentativo fu fatto dalla Atlantic Telegraph Company, nel 1857, con una gomena lunga quattromila chilometri imbarcata su due piroscafi. Era formata di sette fili di rame attortigliati con involucri di guttaperca, avvolta da una seconda di canapa incatramata, quindi chiusa in una terza formata da piccoli fasci di filo di ferro a spirale. Conteneva quindi centotrentatrè fili della lunghezza di 537.000 chilometri, ossia 150.000 di più della distanza che corre fra la terra e la luna, e del peso di 620 chilogrammi per chilometro.
Le due navi erano partite dal porto di Valencia e dovevano immergere il cavo fino a Terranuova.
Potete immaginarvi con quanta ansietà e trepidazione tutto il mondo civile seguiva quella gigantesca operazione, che doveva far corrispondere gli abitanti di due continenti in pochi minuti!...
Già gl’ingegneri avevano immerso felicemente 620 chilometri di filo, quando s’accorsero che la gomena imbarcata non bastava, in causa delle enormi profondità dell’Atlantico. Perciò fu spezzata e lasciata cadere a quattrocentocinquanta chilometri dalle coste della Spagna, in un baratro di quattromila metri.
— Che disillusione per gli Americani e per gli Europei! — esclamò Ranzoff.
— Una dolorosa disillusione, ma che non ebbe lunga durata. Raccolto un nuovo capitale, nel 1858 la Compagnia ritentava l’impresa audace, costruendo altri 1350 chilometri di gomena da aggiungersi a quella precedente.
I due piroscafi ricominciarono l’immersione a 52° 21’ di lat. N. e da 33° 18’ di long. O., ma fino dai primi giorni il cavo si spezzò per ben tre volte, lasciandone in mare ben 230 chilometri.
Gl’ingegneri però non si scoraggiano. Fanno ripescare la gomena ed il 29 luglio i due piroscafi, partiti l’uno dall’Irlanda e l’altro da Terranuova, compiono in mezzo all’oceano l’unione della gigantesca gomena.
Il 6 agosto, i primi dispacci vengono lanciati ed il 10 dello stesso mese il presidente degli Stati Uniti e la Regina d’Inghilterra si scambiavano i loro saluti.
La gioia però fu breve, perchè il 1° Settembre, dopo 129 telegrammi inglesi e 271 americani, il cavo cessava di funzionare.
— Un vero disastro per la società! — esclamò Wassili, il quale ascoltava con vivo interesse il fratello.
— Completo, — rispose Boris. — Lo scoramento fu così grande che per poco non si abbandonò definitivamente l’idea. Ma poi il varo di una nave enorme, il colossale Great Eastern, capace di portare da solo la gomena, fece rinascere le speranze di riallacciare l’Europa e l’America.
— Un vero mostro quella nave, è vero, signor Boris? — chiese Ranzoff. — Ne ho udito parlare parecchie volte.
— Un mastodonte, di fronte al quale un incrociatore moderno, avrebbe fatto una ben meschina figura.
Era uno steamer di ventitremila tonnellate, a sei alberi, lungo duecento metri e largo venticinque, con cinque camini e otto macchine a vapore con ruote d’un diametro di diciotto metri e un’elica del peso di sessanta tonnellate.
Un vero capolavoro dell’ingegneria navale, che era costato la bagatella di venticinque milioni e che prima di scendere in mare aveva già rovinate due Compagnie.
L’onore di collocare un cavo stabile doveva spettare a quel mostruoso bastimento.
Era il 1864. Una nuova Compagnia si era formata per la costruzione di una gomena grossa ventisei millimetri, attortigliata con dieci fortissimi fili di ferro, del peso di 1045 chilogrammi per chilometro.
Il 20 luglio 1865 il Great Eastern lasciava le coste d’Irlanda. Durante i primi giorni la gomena viene per due volte riparata.
Il 2 agosto, quando già si erano immersi ben 1710 chilometri di tubo, si segnala dall’Irlanda che i fili non funzionano più.
Si ripesca con immense fatiche la gomena per cercare il nuovo guasto, ma si spezza e precipita in un abisso profondo 3800 metri a 39° di longit. O.
— Un’altra disillusione, — disse Wassili.
— Eppure neanche questa volta gli uomini si scoraggiarono. Nel 1866 una nuova Società si costituisce ed il Great Eastern riprende il mare, partendo da Valencia.
Il 27 luglio tocca felicemente le coste di Terranuova ed il 28 i primi dispacci venivano lanciati.
Si facevano pagare allora cinquecento lire ogni venti parole.
La scienza aveva trionfato e la distanza che divideva i due mondi, il nuovo ed il vecchio, era per sempre scomparsa, mercè la costanza ammirabile degli anglo-sassoni e la bravura degli ingegneri europei ed americani. —
La piccola campana di bordo che chiamava i naviganti a colazione interruppe la interessante narrazione.
Durante la notte lo Sparviero continuò ad avanzarsi verso il sud favorito anche da un fresco vento che soffiava da settentrione e che sospingeva i piani orizzontali, imprimendo al fuso uno slancio notevole.
I fanali di posizione d’una nave, forse qualche veliero in rotta per le Canarie, furono avvistati verso la mezzanotte e quella fu l’unica distrazione che ebbero gli uomini di guardia.
Venti ore dopo l’incontro di quella nave, lo Sparviero, che aveva mantenuto sempre una velocità media di cento chilometri all’ora, scopriva da lontano le vette dell’isola di Madera, la principale del gruppo.
Questo piccolo arcipelago, che è uno dei più importanti della costa occidentale africana, si compone di sette isole e di cinque isolotti, con una superficie di settemila duecentosettantatrè chilometri quadrati ed una popolazione di circa trecentomila abitanti, per la maggior parte Guanchi che sarebbero i discendenti del disgraziato popolo sommerso coll’Atlantide, gente bellicosa, che ha dato molto da fare, in parecchie occasioni, agli spagnoli.
Curiosissima è la scoperta di queste isole, più volte trovate e poi sempre dimenticate. È ormai provato che non erano sconosciute ai Fenici ed ai Cartaginesi, i quali osavano spingersi nell’Atlantico sulle loro mal solide galere, non più grosse dei nostri barconi.
Conquistato dai romani l’intero bacino del Mediterraneo e scomparsi i Cartaginesi, rimasero ignorate fino al 1107, quando venivano ritrovate, dopo tanti secoli, da S. Brandano, monaco irlandese, che le chiamò Fortunate.
Tornato in Europa, vi ritornava qualche tempo dopo, senza però riuscire a rivederle.
Nel 1280, il genovese Vivaldino Vivaldi, che comandava due galere, la Sant’Antonio e l’Allegranza, riusciva nuovamente a scoprirle e un Federico Doria undici anni dopo le rivedeva.
Eppure rimasero ancora quasi ignote fino al 1330, fino a quando cioè vi naufragava un capitano francese, il conte di Claramonte, che ne assunse il titolo di re, dietro consenso di Clemente IV, per passare poi sotto la dominazione spagnola nel 1461.
— E crescono sui pendii di quelle montagne quei famosi vigneti? — chiese Ranzoff, il quale aveva puntato un potente cannocchiale per ammirare le verdeggianti spiagge dell’isola.
— Sì, capitano, — rispose l’ex-comandante della Pobieda, — e vi posso dire che quei vigneti valgono oro quanto pesano.
— Si fa una grande esportazione di quei vini? — chiese Wassili.
— Circa tre milioni di litri.
— Tutti d’una sola qualità?
— Oh no, vi sono vari tipi, più o meno pregiati, che cominciano colla malvasia che si vende perfino 1500 lire la pipa, recipiente che contiene 535 litri, fino al madera comune che ne vale cinquecento, — rispose Boris.
— Sono molti anni che si coltivano le viti? — chiese Ranzoff.
— Fino dal 1425, ossia settant’anni dopo la fine sventurata della bellissima ed infelice figlia del duca di Dorset.
— Chi era costei? — chiese Wassili.
— Non sai dunque che la scoperta di queste isole va unita ad un commovente dramma d’amore? — chiese Boris.
— Non ho mai udito parlare del duca di Dorset nè di sua figlia.
— Nemmeno di Roberto Macham che ha lasciato il suo nome ad una baia dell’isola?
— No, fratello, e perciò tu mi racconterai quella istoria d’amore tanto per ingannare il tempo.
— Il duca di Dorset era uno dei più brillanti e dei più superbi pari d’Inghilterra, che vivessero alla corte di Re Edoardo III.
Aveva una figlia bellissima, Anna, la quale si era perdutamente innamorata di un giovane cavaliere, Roberto Macham, uomo valoroso, ricchissimo, ma troppo poco nobile per poter aspirare alla mano di una duchessa, che il padre aveva destinata a nozze illustri.
I due giovani, vedendo che la loro unione sarebbe stata impossibile in Inghilterra, decisero di fuggire all’estero e possibilmente in Francia.
Trovandosi il castello del duca a breve distanza dal mare, Roberto Macham arma una nave, raccoglie alcuni devoti amici e va ad incrociare dinanzi alla spiaggia, in attesa di rapire la fidanzata.
Un giorno, un fido di Roberto, che per aiutarlo nella difficile impresa si era collocato presso il duca in qualità di servo, guida il cavallo montato da Anna verso il mare. L’animale che era stato tenuto per tre giorni senza acqua, vedendo le onde rompersi verso la costa, vi si precipita in mezzo.
Una barca però era ferma a breve distanza, montata da amici di Macham. Raccolgono prontamente la giovane già svenuta e la portano a bordo della nave che incrociava al largo.
La felicità dei due amanti, di trovarsi finalmente uniti, doveva però essere di breve durata. Una tempesta spaventevole sorprende la nave presso le coste della Francia e la spinge in mezzo all’Atlantico.
Per cinque giorni viene sbattuta senza posa dalle onde e dai venti, con grande spavento di tutti, che credevano che fosse suonata per loro l’ultima ora, e quando la calma tornò si trovavano così lontani dalle coste del Portogallo da non avere più speranza di raggiungerle, perchè la nave non era altro che un rottame privo di vele.
Quattordici giorni dopo, una terra spuntava finalmente all’orizzonte: era Madera.
In quel tempo, quantunque già nota ai portoghesi, non vi si trovava alcun abitante. Non vi erano che boschi immensi, che da anni bruciavano, per una causa accidentale, preparando il terreno ai futuri vigneti e miriadi di uccelli che si lasciavano prendere colle mani, senza alcuna diffidenza.
Anna, Roberto ed i loro disgraziati compagni erano appena sbarcati, quando un’altra tempesta sorprende la loro nave e la inabissa.
Erano ormai prigionieri su quell’isola, con quasi nessuna speranza di tornare in Europa, perchè nessuna nave approdava a quella terra deserta.
Anna, presa da terrori e da rimorsi, consunta dagli stenti, perchè non di rado quei disgraziati, privi di tutto, soffrivano la fame, cadde in una profonda prostrazione e rese l’estremo respiro fra le braccia di Roberto. Tale fu però il dolore provato dall’infelice giovine che poco dopo la seguiva nel sepolcro.
Furono seppelliti, l’uno accanto all’altra, sotto una specie d’altare di legno, nel luogo preciso ove ora sorge la chiesa di Gesù Salvatore, la più bella di Macham.
— E dei suoi compagni, che cosa avvenne? — chiese Wassili.
— Qualche anno dopo, stanchi di quella vita di miserie e risoluti a perire nell’oceano, piuttosto che rimanere ancora in quell’isola, si costruivano una scialuppa affidandosi alle onde ed ai venti.
— E si salvarono? — chiese Ranzoff.
— No, perchè, sbarcati sulla costa africana, furono presi dai mori e venduti come schiavi al Sultano del Marocco, — rispose Boris.
— Eppur mi sembra che l’esistenza su un’isola così incantevole, avrebbe dovuto essere così bella, così seducente, — disse Ranzoff, pensando alla povera Anna e specialmente a fianco d’un uomo amato.
Quindici ore dopo, lo Sparviero, dopo d’aver evitato il gruppo delle Canarie, essendo quelle isole troppo frequentate dalle navi spagnole e portoghesi, le quali trovano facilmente ottimi carichi di vino pregiatissimo, la cui produzione ammonta annualmente a circa 30.000 botti, dopo una fulminea volata, giungeva all’altezza delle isole del Capo Verde, grosso arcipelago che divide, si può dire, l’Atlantico meridionale da quello settentrionale.
Ranzoff, che come sempre non amava mettere troppo in mostra il suo Sparviero, almeno fino a che non avesse potuto strappare Wanda al barone, perchè il potente armatore non potesse avere qualche sospetto, piegò verso la costa africana che sapeva essere ben poco frequentata, specialmente in quella stagione, in causa delle terribili calme che imprigionano sovente i velieri per delle settimane continue.
Le isole si profilavano a sinistra della macchina volante, spiccando vivamente sul luminoso orizzonte, indorato da un sole ardentissimo, bruciante, poichè quell’arcipelago è situato proprio sotto l’equatore.
Quelle terre, disseminate su un vasto spazio, a circa quattrocento ottanta chilometri dalla costa africana, sono in numero di quattordici, ma solamente due hanno una estensione considerevole: San Tommaso con diciottomila abitanti e Principe con tremila.
Godono, come clima, una pessima fama, anzi vengono chiamate le tombe degli europei, perchè gli uomini di razza bianca difficilmente possono sopportare quelle temperature ardentissime che di notte, cosa strana, diventano invece freddissime, esponendo a gravissime malattie coloro che commettono l’imprudenza di dormire all’aperto, senza aver prima stesa almeno una tenda sopra di loro.
Tuttavia, quantunque le piogge vi siano rarissime, sono d’una fertilità prodigiosa e l’uva vi matura due volte all’anno.
Qualche giorno dopo, lo Sparviero incominciava ad incontrare i primi sargassi, i quali si trovano in grandi masse nell’Atlantico centrale, condottivi dalla corrente del Gulf-Stream.
Queste alghe, che avevano tanto spaventato gli equipaggi delle caravelle spagnole, quando Colombo veleggiava alla scoperta dell’America, sono ciuffi erbosi staccati, che hanno una lunghezza che varia dai trenta agli ottanta centimetri, composti d’una fronda bruna ramificata, composta di foglie lanceolate e sostenuta da vescichette.
Ora s’incontrano in masse sparse, ora invece formano dei veri campi, i quali però non possono fermare le navi, ma bensì rallentare la loro corsa.
Queste piante crescono e si moltiplicano straordinariamente dentro il circolo formato dalle correnti del Gulf-Stream, occupando una estensione di duecentosessanta miglia quadrate, con una larghezza di cinquanta a centocinquanta miglia e una lunghezza di milleduecento.
Pesci numerosi vivono in mezzo a quelle alghe, soprattutto miriadi di antennarius, piccoli, piatti, deformi, con bocche larghissime, non più lunghi di quaranta millimetri, inoltre vi sono grandi quantità di cefalopodi, di minuscoli octopus rossastri e di grossi e avidi granchi i quali, appiattati fra le erbe, fanno vere stragi dei loro vicini.
— Quale effetto produce la nostra macchina volante in mezzo a tutte queste erbe! — disse Wassili a Boris ed a Ranzoff, i quali spiavano attentamente i granchi che si muovevano a migliaia fra le foglie dei sargassi. — Si direbbe che scivola sopra un immenso prato.
— Vuoi dire sui prati dell’Atlantide, — disse l’ex-comandante della Pobieda. — Noi in questo momento passiamo sopra al continente scomparso.
— L’Atlantide! — esclamò Ranzoff. — Io ho udito parlarne molto, signor Boris. Ma credete voi che non sia invece altro che una semplice leggenda?
— Non sembra, se si deve prestar fede alle nuove indagini fatte in questi ultimi tempi dagli scienziati. Pare che realmente un tempo una immensa isola si estendesse fra l’Africa e l’Europa e che gli antichi fenici l’avessero bene conosciuta.
Le tradizioni tramandate da Platone e da lui raccolte da sacerdoti istruiti babilonesi, greci ed egiziani, hanno tutta l’apparenza della verità.
L’Avezac, per esempio, un erudito che si acquistò tanta fama nel mondo scientifico, lo ha ammesso, dopo aver trovate le prove della distruzione, nei caratteri vulcanici delle isole che si estendono dalle coste dell’Africa meridionale alla linea equinoziale.
Le Azzorre, le Canarie, il gruppo di Madera, tutte altissime, non sarebbero che le sommità del continente ingoiato dall’Atlantico.
— E quando sarebbe avvenuta quella catastrofe?
— Chi può dirlo? Probabilmente prima che l’Atlantico si unisse al Mediterraneo.
— Come! — esclamò Wassili stupito. — Non è sempre esistito lo stretto di Gibilterra?
— La storia lo nega.
— Che sia stato immenso quel continente?
— Certo, — rispose Boris. — Sembra che si estendesse fino all’America e si suppone che anche le Antille non siano altro che avanzi dell’Atlantide.
— E che non sia sfuggito nessuno a quel tremendo disastro?
— Sì, i Guanchi, che ora abitano le Azzorre e le Canarie.
— Sarebbero i discendenti di quel popolo sommerso dall’Atlantico?
— Si suppone e con ragione, perchè se si deve credere alla tradizione, gli abitanti dell’Atlantide avevano una civiltà pari a quella dei babilonesi, dei fenici e degli egiziani.
Quando i primi europei approdarono alle Azzorre e alle Canarie, rimasero non poco stupiti di trovare presso i Guanchi una civiltà che era forse superiore a quella che esisteva in quell’epoca nella nostra Europa. Ciò vuol dire che non ostante la distruzione del continente, l’avevano egualmente conservata.
— Quale terribile catastrofe deve essere stata quella! — esclamarono Rokoff e Fedoro, i quali assistevano al colloquio.
— Fortunatamente simili catastrofi non avvengono più, — disse Wassili.
— T’inganni, fratello, — rispose Boris. — I fuochi della terra non si sono ancora spenti ed il fondo del mare non si è ancora calmato. Vi è un’altra grande isola che è destinata, un giorno, a sparire per opera dei vulcani.
— E quale, comandante? — chiese Ranzoff.
— L’Islanda, la quale lentamente va sommergendosi. I fuochi la minano da ogni parte, i terremoti ne sconquassano incessantemente la ossatura ed il mare s’avanza minaccioso da tutte le parti, scavando immense caverne sotto il suo suolo.
Ci vorranno dei secoli, molti probabilmente, ma anche all’Islanda toccherà l’egual sorte che ha distrutto l’Atlantide, e forse non sarà sola. Guardate le isole della Malesia, che di quando in quando vengono sconquassate e diroccate. Chi non ricorda le spaventevoli eruzioni del Krakatoa? Anche Giava non può credersi sicura coi suoi sedici vulcani, che di quando in quando hanno dei risvegli terribili ed i molti altri inattivi per ora e che potrebbero prima o poi risvegliarsi.
— Vulcani che producono sovente dei disastri spaventevoli, è vero, fratello? — chiese Wassili.
— Sì, — rispose il comandante. — Quell’isola, che è un paradiso, subisce delle eruzioni tremende e anche delle scosse formidabili, che a poco a poco la distruggono modificandone le coste.
La lista sarebbe lunga, ma per darvi un’idea dei danni che possono ancora causare i vulcani ed i terremoti, vi citerò alcuni fatti, che possono provarvi come anche Giava possa correre il pericolo di venire subissata al pari dell’Atlantide.
Una eruzione delle meno antiche è quella del 1772. Il Papandayang, accesosi improvvisamente, in una sola notte copre quattordici miglia quadrate di terreno d’uno strato di cenere alto ben cinquanta piedi, seppellendo sotto quella enorme massa quaranta fiorenti villaggi e più di tremila persone.
— Che vuoto deve aver fatto nelle viscere della terra! — esclamò il capitano dei cosacchi.
— Nel 1822 invece è il Galungong che vomita tanto fango, tanta acqua e tanti lapilli da coprire venti miglia quadrate: il monte poi si squarcia, formando nuove colline e vallate, cangiando il corso ai fiumi e distruggendo centoquattordici villaggi assieme ai loro quattromila abitanti.
Nel 1848 è la volta del Guntuo, il quale vomita due milioni di tonnellate di lave; nel 1861 è il terremoto che atterra quasi tutta la città di Gioegocarta, seppellendo mille abitanti e finalmente si scuote il Krakatoa il quale, scoppiando, produce un maremoto così formidabile che spazza via centomila persone, annegandole in mare e fa scomparire un immenso tratto di costa assieme alle città ed ai villaggi che vi erano sopra.
— Allora qualche cosa di simile deve essere avvenuto sull’Atlantide, — disse Wassili.
— Sì, fratello, ma più tremendo di certo, e può darsi che l’inabissarsi di quel continente abbia anche prodotto il famoso diluvio universale. Figuratevi che enorme ondata deve essersi rovesciata attraverso l’Europa, l’Africa e l’America!...
— Un cavallone tale da cambiare la faccia al mondo. Vi è pericolo che si rinnovi?
— In tali proporzioni, no di certo, — rispose Boris, — perchè i fuochi della terra hanno ormai perduto molto della loro forza e non sussistono al giorno d’oggi che pochi vulcani.
Può darsi che l’immersione dell’Islanda, per esempio, produca danni enormi sulle coste settentrionali e anche occidentali dell’Europa, ma noi allora non saremo più nel numero dei viventi, quindi non dobbiamo preoccuparcene. È cosa che riguarda i nostri tardi pronipoti e penseranno essi a premunirsi da quel pericolo. —