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Séguiti ora V. S. Illustrissima. "Sed demus, licuisse per ventos halitibus hisce cœptum semel cursum tenere, eoque contendere ubi Solis radios et directos excipere ac repercussos remittere ad nos possent. Cur ibi demum, cum se totis totum plane excipiunt Phœbum, parte sui tantum minima eumdem nobis ostendunt? Sane, vel ipso Galilæo teste, cum per æstivos dies non absimilis vapor, ad septemtrionem forte solito altius provectus, Soli se spectandum obiecerit, tunc enimvero, clarissimo perfusus lumine, candidissimum omni se ex parte exhibet, atque, ut eius verbis utar, borealem nobis, nocturnis etiam in tenebris, auroram refert; nec mutuati splendoris adeo se avarum præbet, ut, cum toto hauserit Solem sinu, vix una illum e rimula ad nos relabi patiatur. Vidi egomet, non per æstivum tantum tempus, sed Ianuario mense, quatuor post Solis occasum horis, quod admirabilius est, vertici fere imminentem, candido ac fulgenti habitu, nubeculam adeo raram, ut ne minimas quidem stellas velaret; at illa etiam, quæ a Sole acceperat lucis dona, largo apertoque sinu liberalissime undique profundebat. Nubes denique omnes (si quam tamen illæ cum cometarum materia affinitatem servant), si densæ adeo fuerint atque opacæ ut Solis radios libere non transmittant, ea saltem parte qua Solem respiciunt, eumdem ad nos reciproca liberalitate reflectunt; at si raræ ac tenues sint, easque facile lux omni ex parte pervadat, nulla se parte tenebricosas ostendunt, sed clarissimo undique perfusas lumine spectandas offerunt. Si igitur cometa non ex alia elucet materia quam ex vaporibus huiusmodi fumidis, non in unum veluti globum coactis, sed, ut ipse ait, satis amplum cæli spatium occupantibus omnique ex parte Solis luce fulgentibus, quid tandem causæ est, cur ex angusto tantum brevique orbiculo spectantibus semper affulgeat, neque reliquæ vaporis eiusdem partes, pari a Sole lumine illustratæ, unquam compareant? Neque facile id iridis exemplo solvitur, in cuius productione idem contingit, ut videlicet ex una tantum nubis parte ad oculum relabatur, cum tamen in toto spatio a Sole illustrato eadem colorum diversitas eiusdem lumine procreetur. Illa enim, et si qua alia huiusmodi sunt, roridam potius humentemque requirunt materiam et iam in aquam abeuntem; hæc siquidem materia tunc solum cum in aquam solvitur, lævium ac politorum corporum perspicuorumque naturam imitata, ea tantum ex parte qua anguli reflexionum refractionumque, ad id requisiti, fiunt, lumen remittit, ut experimur in speculis, aquis ac pilis cristallinis. Si qui vero halitus rariores ac sicciores extiterint, hi neque lævem habent superficiem, ut specula, neque multam radiorum refractionem efficiunt. Cum igitur ad reflexiones corporis lævitas, ad refractiones vero cum perspicuo densitas, requiratur (quæ omnia nunquam in meteorologicis impressionibus habentur, nisi cum earum materia aquæ multum habuerit, ut non Aristoteles modo, sed opticæ etiam magistri omnes docuerunt, ac ratio ipsa efficacius persuadet), hinc necessario sequitur, huiusmodi halitus graviores natura sua futuros, ac proinde minus aptos qui supra Lunam etiam ac Solem ascendant, cum vel Galilæus ipse fateatur, tenues valde ac leves esse eos debere, qui eo usque evolant. Non ergo ex vapore illo fumido ac raro, et nullius revera ponderis, revibrari ad nos poterit fulgidum illud lucis simulacrum; vapor vero aqueus, ut pote gravis, in altum ferri nulla ratione poterit."
Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità. Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d’uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità straordinaria; e per suo trastullo allevandosi diversi uccelli, gustava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti diversi, e tutti soavissimi. Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un delicato suono, né potendosi immaginar che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per prenderlo; e venuto nella strada, trovò un pastorello, che soffiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a quelle d’un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel zufolo; e ritiratosi in se stesso, e conoscendo che se non s’abbatteva a passar colui, egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di potere incontrar qualche altra avventura. Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce; e per certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch’ei teneva nella man destra, segando alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz’altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi participa dell’ingegno e della curiosità che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto inopinati, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potessero essere in natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato, e s’accorse che il suono era uscito dagli arpioni e dalle bandelle nell’aprir la porta? Un’altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un’osteria, e credendo d’aver a veder uno che coll’archetto toccasse leggiermente le corde d’un violino, vide uno che fregando il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci interrotte, ma col velocissimo batter dell’ali rendevano un suono perpetuo, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò l’opinione ch’egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l’esperienze già vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli, già che non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili così dolci e sonori. Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono; quando, dico, ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi più che mai rinvolto nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili.
Io potrei con altri molti essempi spiegar la ricchezza della natura nel produr suoi effetti con maniere inescogitabili da noi, quando il senso e l’esperienza non lo ci mostrasse, la quale anco talvolta non basta a supplire alla nostra incapacità; onde se io non saperò precisamente determinar la maniera della produzzion della cometa, non mi dovrà esser negata la scusa, e tanto più quant’io non mi son mai arrogato di poter ciò fare, conoscendo potere essere ch’ella si faccia in alcun modo lontano da ogni nostra immaginazione; e la difficoltà dell’intendere come si formi il canto della cicala, mentr’ella ci canta in mano, scusa di soverchio il non sapere come in tanta lontananza si generi la cometa. Fermandomi dunque su la prima intenzione del signor Mario e mia, ch’è di promuover quelle dubitazioni che ci è paruto che rendano incerte l’opinioni avute sin qui, e di proporre alcuna considerazione di nuovo, acciò sia essaminata e considerato se vi sia cosa che possa in alcun modo arrecar qualche lume ed agevolar la strada al ritrovamento del vero, anderò seguitando di considerar l’opposizioni fatteci dal Sarsi, per le quali i nostri pensieri gli sono paruti improbabili.
Procedendo egli adunque avanti e concedendoci che, quando pur non fusse conteso a i vapori, o altra materia atta al formar la cometa, il sollevarsi da Terra ed ascendere in parti altissime, dove direttamente potesse ricevere i raggi solari e reflettergli a noi, muove difficoltà in qual modo, venendo illuminata tutta, da una sola sua particella venga poi fatta a noi la reflessione, e non faccia come quei vapori che ci rappresentano quella intempestiva aurora boreale, i quali, sì come tutti s’illuminano, tutti ancora luminosi ci si dimostrano; ed appresso soggiunge, aver veduto verso la meza notte cosa più meravigliosa, cioè una nuvoletta verso il vertice, la quale, sì come tutta era illuminata, così da ogni sua parte liberalissimamente ci rimandava lo splendore; e le nuvole tutte (segu’egli), se saranno dense ed opache, ci rendono il lume del Sole da tutta quella parte che da esso vengono vedute; ma se saranno rare, sì che il lume le penetri, ci si mostrano tutte lucide, ed in niuna parte tenebrose; se dunque la cometa non si forma in altra materia che in simili vapori fumidi largamente distesi, come dice il signor Mario, e non raccolti in figura sferica, essendo da ogni lor parte tocchi dal Sole, per qual cagione da un sol piccolo globetto, e non dal resto, benché egualmente illuminato, ci vien fatta la reflessione? Ancor che le soluzioni di queste instanze sieno a pien distese nel Discorso del signor Mario, nientedimeno l’anderò qui replicando e disponendole a’ luoghi loro, coll’aggiunta di qualch’altra considerazione, secondo che l’opposizioni di passo in passo mi faranno sovvenire.
E prima, non dovrebbe aver difficoltà veruna il Sarsi nel conceder che da un luogo particolare solamente di tutta la materia sublimata per la cometa si possa far la reflessione del lume del Sole alla vista d’un particolare, benché tutta sia egualmente illuminata; avvenga che noi ne abbiamo mille simili esperienze in favore, per una che paia essere in contrario, e facilmente di quelle prodotte dal Sarsi come contrarianti a tal posizione ne troveremo la maggior parte esser favorevoli. Già non è dubbio, che di qualsivoglia specchio piano esposto al Sole tutta la superficie è da quello illuminata; il simile è di qualsivoglia stagno, lago, fiume, mare, ed in somma d’ogni superficie tersa e liscia, di qualunque corpo ella si sia: nulladimeno all’occhio d’un particolare non si fa la reflession del raggio solare se non da un luogo particolare d’essa superficie, il qual luogo si va mutando alla mutazion dell’occhio riguardante. L’esterna superficie di sottili ma per grande spazio distese nuvole, è tutta egualmente illuminata dal Sole; tuttavia l’alone ed i parelii non si mostrano ad un occhio particolare se non in un luogo solo, e questo parimente al movimento dell’occhio va mutando sito in essa nuvola.
Dice il Sarsi: "Quella sottil materia sublimata che rende talvolta quella boreale aurora, si vede pur, qual ella è in fatto, illuminata tutta". Ma io domando al Sarsi, onde egli abbia questa certezza. Ed egli non mi può rispondere altro, se non che ei non vede parte alcuna che non sia illuminata, sì com’ei vede il resto della superficie degli specchi, dell’acque, de’ marmi, oltr’a quella particella che ci rende la reflession viva del raggio solare. Sì, ma io l’avvertisco che quando la materia fusse in colore simile al resto dell’ambiente, o vero fusse trasparente, ei non distinguerebbe altro che quel solo splendido raggio reflesso, come accade talvolta che la superficie del mare non si distingue dall’aria, e pur si vede l’immagine reflessa del Sole; e così, posto un sottil vetro in qualche lontananza, ci potrà mostrar di sé quella sola particella in cui si fa la reflessione di qualche lume, rimanendo il resto invisibile per la sua trasparenza. Questo del Sarsi è simil all’error di coloro che dicono che nessun delinquente deve mai confidarsi che il suo delitto sia per restare occulto, né s’accorgono dell’incompatibilità ch’è tra ’l restar occulto e l’essere scoperto, e che senz’altro chi volesse tener due registri, uno de’ delitti che restano occulti, e l’altro di quelli che si manifestano, in quel degli occulti non ci verrebbe mai registrato e notato cosa veruna. Vengo dunque a dir, che senza repugnanza alcuna posso credere che la materia di quella boreale aurora si distenda in ispazio grandissimo e sia tutta egualmente illuminata dal Sole; ma perché a me non si scopre e fa visibile se non quella parte onde vien all’occhio mio la refrazzione, restando tutto il rimanente invisibile, però mi par di vedere il tutto. Ma che più? De’ vapori crepuscolini, che circondano tutta la Terra, non è egli sempre egualmente illuminato uno emisferio da’ raggi solari? Certo sì; tuttavia quella parte che direttamente s’interpone tra ’l Sole e noi, ci si mostra più luminosa assai delle parti più lontane: e questa, come l’altre ancora, è una pura apparenza ed illusion dell’occhio nostro, avvenga che, siamo noi in qualsivoglia luogo, sempre veggiamo il corpo solare come centro d’un cerchio luminoso, ma che di grado in grado va perdendo di splendore secondo ch’è più remoto da esso centro a destra o a sinistra; ma ad altri più verso borea quella parte che a me è più chiara apparisce più fosca, e più lucida quella che a me si rappresentava più oscura; sì che noi possiamo dire d’avere un perpetuo e grande alone intorno al Sole, figurato nella convessa superficie che termina la sfera vaporosa, il quale alone, nel modo stesso dell’altro che talora si forma in una sottil nuvola, si va mutando di luogo secondo la mutazion del riguardante. Quanto alla nuvoletta che ’l Sarsi afferma aver veduta tutta lucida nella profonda notte, lo potrei parimente interrogare, qual certezza egli abbia ch’ella non fusse maggior di quella ch’ei vedeva, e massime dicendo egli ch’ella era in modo trasparente, che non celava le stelle fisse, ancor che minime perloché, niuno indizio gli poteva rimanere onde potesse assicurarsi, quella non distendersi invisibilmente, come trasparentissima, molto e molto oltre a’ termini della parte lucida veduta: e però resta dubbio se essa ancora fusse una dell’apparenze, la quale alla mutazion di luogo dell’occhio, come l’altre, s’andasse mutando. Oltre che non repugna ch’ella potesse apparir luminosa tutta, ed esser nondimeno una illusione, il che accaderebbe quand’ella non fusse maggior di quello spazio che viene occupato dall’immagine del Sole, in quel modo che se, vedendo il simulacro del Sole occupar, verbigrazia, in uno specchio tanto spazio quant’è un’ugna, noi tagliassimo via il rimanente, ché non ha dubbio alcuno che questo piccolo specchietto potrà apparirci lucido tutto. Ma di più ancora, quando lo specchietto fusse minore del simulacro, allora non solamente si potrebbe vedere illuminato tutto, ma il simulacro in lui non ad ogni movimento dell’occhio apparirebbe esso ancora muoversi, com’ei fa nello specchio grande; anzi, per essere egli incapace di tutta l’immagine del Sole, seguirebbe che, movendosi l’occhio, vederebbe la reflession fatta or da una ed or da un’altra parte del disco solare; e così l’immagine parrebbe immobile, sin che venendo l’occhio verso la parte dove non si dirizza la reflessione, ella del tutto si perderebbe. Assaissimo, dunque, importa il considerar la grandezza e qualità della superficie nella quale si fa la reflessione; perché, secondo che la superficie sarà men tersa, l’immagine del medesimo oggetto vi si rappresenterà maggiore e maggiore, sì che talvolta, avanti che l’immagine trapassi tutto lo specchio, molto spazio converrà che cammini l’occhio, ed essa immagine apparirà fissa, se ben realmente sarà mobile.
E per meglio dichiararmi in un punto importantissimo e che forse, non dirò al Sarsi, ma a qualunqu’altro sopraggiungerà pensier nuovo, si figuri V. S. Illustrissima d’esser lungo la marina in tempo ch’ella sia tranquillissima, ed il Sole già declinante verso l’occaso: vederà nella superficie del mare ch’è intorno al verticale che passa per lo disco solare, il reflesso del Sole lucidissimo, ma non allargato per molto spazio; anzi, se, come ho detto, l’acqua sarà quietissima, vederà la pura immagine del disco solare, terminata come in uno specchio. Cominci poi un leggier venticello a increspare la superficie dell’acqua: comincerà nell’istesso tempo a veder V. S. Illustrissima il simulacro del Sole rompersi in molte parti, ma allargarsi e diffondersi in maggiore spazio; e benché, mentre ella fosse vicina, potrebbe distinguer l’un dall’altro de i pezzi del simulacro rotto, tuttavia da maggior lontananza non vederebbe tal separazione, sì per l’angustia degl’intervalli tra pezzo e pezzo, sì pel gran fulgor delle parti splendenti, che insieme s’anderebbono mescolando e facendo l’istesso che molti fuochi tra sé vicini, che di lontano appariscono un solo. Cresca in onde maggiori e maggiori l’increspamento: sempre per intervalli più e più larghi si distenderà la moltitudine degli specchi, da’ quali, secondo le diverse inclinazioni dell’onde, si refletterà verso l’occhio l’immagine del Sole spezzata. Ma recandosi in distanze maggiori e maggiori, e per poter meglio scoprire il mare montando sopra colline o altre eminenze, un solo e continuato parrà il campo lucido: ed io mi sono incontrato a veder da una montagna altissima e lontana dal mar di Livorno sessanta miglia, in tempo sereno ma ventoso, un’ora in circa avanti il tramontar del Sole, una striscia lucidissima diffusa a destra ed a sinistra del Sole, la quale in lunghezza occupava molte decine e forse anco qualche centinaio di miglia, la quale però era una medesima reflessione, come l’altre, della luce del Sole. Ora s’immagini il Sarsi che della superficie del mare, ritenendo il medesimo increspamento, se ne fusse rimosso verso gli estremi gran parte, e lasciatone solamente verso il mezo, cioè incontro al Sole, una lunghezza di due o tre miglia: questa sicuramente si sarebbe veduta tutta illuminata, ed anco non mobile ad ogni mutazion che il riguardante avesse fatto a questa o a quella mano, se non dopo essersi mosso forse per qualche miglio, ché allora comincerebbe a perdersi la parte sinistra del simulacro, s’egli caminasse alla destra, e l’imagine splendida si verrebbe restringendo, sin che, fatta sottilissima, del tutto svanirebbe. Ma non perciò resta che il simulacro non sia mobile al moto del riguardante, anzi, pur vedendolo tutto, tutto lo vederemmo ancor muovere, attalché il suo mezo risponderebbe sempre alla drittura del Sole, il quale ad altri ed altri che nel medesimo momento lo rimirano, risponde ad altri e ad altri punti dell’orizonte.
Io non voglio tacere a V. S. Illustrissima in questo luogo quello che mi è sovvenuto per la soluzion d’un problema marinaresco. Conoscono talora i marinari esperti il vento che da qualche parte del mare dopo non molto intervallo è per sopragiunger loro, e di questo dicono esser argomento sicuro il veder l’aria, verso quella parte, più chiara di quel che per consueto dovrebbe essere. Or pensi V. S. Illustrissima se ciò potesse derivare dall’esser di già in quella parte il vento in campo, e commosse l’onde, dalle quali nascendo, come da specchi moltiplicati a molti doppi e diffusi per grande spazio, la reflession del Sole assai maggiore che se ’l mare vi fusse in bonaccia, possa da questa nuova luce esser maggiormente illuminata quella parte dell’aria vaporosa per la quale tal reflession si diffonde, la qual, come sublime, renda ancora qualche reflesso di lume agli occhi de’ marinari, a’ quali, per esser bassi, non poteva venir la primaria reflession di quella parte di mare di già increspato da’ venti e lontana per avventura, da loro, venti o trenta o più miglia; e che questo sia il lor vedere o prevedere il vento da lontano.
Ma seguitando il nostro primo concetto, dico che non in tutte le materie, o vogliamo dire in tutte le superficie, stampano i raggi solari l’immagine del Sole della medesima grandezza; ma in alcune (e queste sono le piane e lisce come uno specchio) ci si mostra il disco solare terminato ed eguale al vero, nelle convesse pur lisce ci apparisce minore, e nelle concave talor minore, talor maggiore, ed anco talvolta eguale, secondo le diverse distanze tra lo specchio e l’oggetto e l’occhio. Ma se la superficie sarà non eguale, ma sinuosa e piena d’eminenze e cavità, e come se dicessimo composta di gran moltitudine di piccoli specchietti locati in varie inclinazioni, in mille e mille modi esposte all’occhio, allora l’istessa immagine del Sole da mille e mille parti, ed in mille e mille pezzi divisa, verrà all’occhio nostro, i quali per grande ispazio s’allargheranno, stampando in essa superficie un ampio aggregato di moltissime piazzette lucide, la frequenza delle quali farà che da lontano apparirà un sol campo sparso di luce continuata, più gagliarda e viva nel mezo che verso gli estremi, dov’ella va languendo, e finalmente sfumando svanisce, quando per l’obliquità dell’occhio ad essa superficie i raggi visivi non trovano più onde reflettersi verso il Sole. Questo gran simulacro è esso ancora mobile al movimento dell’occhio, pur che oltre a i suoi termini si vada continuando la superficie dove si fanno le reflessioni: ma se la quantità della materia occuperà piccolo spazio, e minore assai di quello del simulacro intero, potrà accadere che, restando la materia fissa e movendosi l’occhio, ella continui ad apparer lucida, sin che pervenuto l’occhio a quel termine dal quale, per l’obliquità de’ raggi incidenti sopra essa materia, le reflessioni non si dirizzano più verso il Sole, la luce svanisce e si perde. Ora io dico al Sarsi che quando ei vede una nuvola sospesa in aria, terminata e tutta lucida, la quale resta ancor tale benché l’occhio per qualche spazio si vada mutando di luogo, non perciò si tenga sicuro, quella illuminazione esser cosa più reale di quella dell’alone, de’ parelii, dell’iride e della reflession nella superficie del mare; perché io gli dico che la sua consistenza ed apparente stabilità può dependere dalla piccolezza della nuvola, la quale non è capace di ricevere tutta la grandezza del simulacro del Sole; il qual simulacro, rispetto alla posizion delle parti della superficie di essa nuvola, s’allargherebbe, quando non gli mancasse la materia, per ispazio molte e molte volte maggiore della nuvola, ed allora quando si vedesse intero e che oltre di lui avanzasse altro campo di nubi, dico che al movimento dell’occhio esso ancora così intero s’anderebbe movendo. Argomento necessario ci sia di ciò il veder noi spessissime volte, nel nascere o nel tramontar del Sole, molte nuvolette sospese vicino all’orizonte, delle quali quelle che son vicine all’incontro del Sole si mostrano splendentissime e quasi di finissimo oro, dell’altre laterali le men remote dal mezo lucide esse ancora più delle più lontane, le quali di grado in grado ci si vanno dimostrando men chiare, sì che finalmente delle molto remote lo splendore è quasi nullo: dico nullo a noi, ma a chi fusse in tal sito che queste restassero interposte tra l’occhio suo e ’l luogo dell’occaso del Sole, lucidissime se gli mostrerebbono, ed oscure le nostre più risplendenti. Intenda dunque il Sarsi, che quando le nubi non fussero spezzate, ma una lunghissima distesa e continuata, accaderebbe che a ciaschedun riguardante la parte sua di mezo apparisse lucidissima, e le laterali di grado in grado, secondo la lontananza dal suo mezo, men chiare, sì che dove a me comparisce il colmo dello splendore, ad altri è il fine ed ultimo termine.
Ma qui potrebbe dir alcuno che, già che quel pezzo di nube riman fisso, ed il lume in esso non si vede andar movendo alla mutazione di luogo del riguardante, questo basta a far che la paralasse operi nel determinar della sua altezza, e che però, potendo accader l’istesso della cometa, l’uso della paralasse resti atto al bisogno di chi cerchi dimostrare il suo luogo. A questo si risponde che ciò sarebbe vero quando si fusse prima dimostrato che la cometa fusse non un intero simulacro del Sole, ma un pezzo solamente, sì che la materia in cui si forma la cometa fusse non solamente illuminata tutta, ma che ’l simulacro del Sole eccedesse dalle bande, in modo ch’ei fusse bastante ad illuminar campo assai maggiore, quando vi fusse materia disposta alla reflession del lume; il che non solamente non s’è dimostrato, ma si può molto ragionevolmente creder l’opposito, cioè che la cometa sia un simulacro intero, e non mutilato e tronco, ché così ne persuade la sua figura regolata e con bella simmetria disegnata. E di qui si può trar facile ed accommodata risposta all’instanza che fa il Sarsi, mentre mi domanda come possa essere che, figurandosi, per detto del signor Mario, la cometa in una materia distesa per grande spazio in alto, ella non s’illumini tutta, ma ci rimandi solo da un piccolo cerchietto la reflessione, senza che l’altre parti, pur viste dal Sole, compariscano già mai. Imperò che io farò la medesima interrogazione ad esso o al suo Maestro, il quale non volendo che la cometa sia un incendio, ma inclinando a credere (s’io non erro) ch’almeno la sua coda sia una refrazzione de’ raggi solari, io gli domanderò s’ei credono che la materia nella quale si fa tal refrazzione sia tagliata appunto alla misura d’essa chioma, o pur che di qua e di là e d’ogn’intorno ve n’avanzi; e se ve n’avanza (come credo che sarà risposto), perché non si vede, essendo tocca dal Sole? Qui non si può dire che la refrazzione si faccia nella sostanza dell’etere, la quale, come diafanissima, non è potente a ciò dare, né meno in altra materia, la quale, quando fusse atta a rifrangere, sarebbe ancor atta a reflettere i raggi solari. In oltre, io non so con qual ragione chiami ora un piccolo cerchietto il capo della cometa, il quale con sottili calcoli il suo Maestro ha ritrovato contenere 87127 miglia quadre, che forse nessuna nuvola arriva a tanta grandezza.
Segue il Sarsi, ed ad imitazion di colui che per un pezzo ebbe opinion che ’l suono non si potesse produrre se non in un modo solo, dice non esser possibile che la cometa si generi per reflessione in quei vapori fumidi, e che l’essempio dell’iride non agevola la difficoltà, se ben essa veramente è una illusion della vista: imperocché la procreazion dell’iride e d’altre simili cose ricercano una materia umida e che già si vada risolvendo in acqua, la quale allora solamente, imitando la natura de’ corpi lisci e tersi, reflette il lume da quella parte dove si fanno gli angoli della reflessione e della refrazzione, che a tale effetto si ricercano, come accade negli specchi, nell’acqua e nelle palle di cristallo; ma in altri rari e secchi, non avendo la superficie liscia come gli specchi, non si fa molta refrazzione: ricercandosi, dunque, per questi effetti una materia acquosa, ed in conseguenza grave assai ed inabile a salir sopra la Luna ed il Sole, dove non possono salire (anco per mio parere) se non essalazioni leggerissime, adunque la cometa non può esser prodotta da tali vapori fumidi. Risposta sofficiente a tutto questo discorso sarebbe il dire come il signor Mario non si è mai ristretto a dir qual sia la materia precisa nella quale si forma la cometa, né s’ella sia umida né fumosa né secca né liscia, e so ch’egli non si arrossirà a dire di non la sapere; ma vedendo come in vapori, in nuvole rare e non acquose, ed in quelle che già si risolvono in minute gocciole, nell’acque stagnanti, negli specchi ed altre materie, si figurano per reflessi e refrazzioni molto varie illusioni di simulacri diversi, ha stimato di non essere impossibile che in natura sia ancora una materia proporzionata a renderci un altro simulacro diverso dagli altri, e che questo sia la cometa. Tal risposta, dico, è adeguatissima all’instanza, quando anco ciascuna parte d’essa instanza fusse vera: tuttavia il desiderio (com’altre volte ho detto) d’agevolar, per quanto m’è conceduto, la strada all’investigazion di qualche vero, m’induce a far alcuna considerazione sopra certi particolari contenuti in esso discorso.
E prima, è vero che in uno effluvio di minutissime stille d’acqua si fa l’illusion dell’iride, ma non credo già che, pel converso, simile illusione non possa farsi senza tale effluvio. Il prisma triangolare cristallino, appressato a gli occhi, ci rappresenta tutti gli oggetti tinti de’ colori dell’iride; molte volte si vede l’iride in nubi asciutte, e senza che pioggia veruna discenda in terra. Non si veggono le medesime illusioni di colori diversi nelle piume di molti uccelli, mentre il Sole in varie maniere le ferisce? Ma che più? Direi al Sarsi cosa forse nuova, se cosa nuova se gli potesse dire. Prenda egli qualsivoglia materia, o sia pietra o sia legno o sia metallo, e tenendola al Sole, attentissimamente la rimiri, ch’egli vi vederà tutti i colori compartiti in minutissime particelle; e s’ei si servirà, per riguardargli, d’un telescopio accommodato per veder gli oggetti vicinissimi, assai più distintamente vederà quant’io dico, senza verun bisogno che quei corpi si risolvano in rugiada o in vapori umidi. In oltre, quelle nuvolette che ne’ crepuscoli si mostrano lucidissime, e ci fanno una reflession del lume del Sole tanto viva che quasi ci abbaglia, sono delle più rare asciutte e sterili che sieno in aria, e quelle che sono umide, quanto più son pregne d’acqua, tanto più si dimostrano oscure. L’alone e i parelii si fanno senza piogge e senza umido nelle più rare ed asciutte nuvole, o più tosto caligini, che sieno in aria.
Secondo, è vero che le superficie terse e ben lisce, come quelle degli specchi, ci rendono una gagliarda reflession del lume del Sole, e tale ch’appena la possiamo rimirar senza offesa; ma è anco vero che da superficie non tanto terse si fa la reflessione, ma men potente, secondo che la pulitezza sarà minore. Vegga ora V. S. Illustrissima, se lo splendore della cometa è di quegli ch’abbagliano la vista, o pur di quegli che per la lor debolezza non offendon punto; e da questo giudichi, se per produrlo sia necessaria una superficie somigliante a quella d’uno specchio, o pure basti un’assai men tersa. Io vorrei mostrar al Sarsi un modo di rappresentare una reflession simile assai alla cometa. Prenda V. S. Illustrissima una boccia di vetro ben netta, ed avendo una candela accesa, non molto lontana dal vaso, vederà nella sua superficie un’immagine piccolina d’esso lume, molto chiara e terminata: presa poi colla punta del dito una minima quantità di qualsivoglia materia che abbia un poco di untuosità, sì che s’attacchi al vetro, vada, quanto più sottilmente può, ungendo in quella parte dove si vede l’immagine del lume, sì che la superficie venga ad appannarsi un poco; subito vederà la detta immagine offuscarsi: volga poi il vaso, sì che l’immagine esca dell’untuosità e si fermi al contatto di essa, e poi dia una fregata sola per diritto col dito sopra detta parte untuosa; ché subito vederà derivare un raggio dritto ad imitazion della chioma della cometa, e questo raggio taglierà in traverso ed ad angoli retti il fregamento ch’ella averà fatto col dito, sì che s’ella tornerà a fregar per un altro verso, il detto raggio si dirizzerà in altra parte: e questo avviene perché, avendo noi la pelle de’ polpastrelli delle dita non liscia, ma segnata d’alcune linee tortuose ad uso del tatto per sentir le minime differenze delle cose tangibili, nel muovere il dito sopra detta superficie untuosa, lascia alcuni solchi sottilissimi, ne i colmi de’ quali si fanno le reflessioni del lume, ch’essendo molte ed ordinatamente disposte, rappresentano poi una striscia lucida; in capo della quale se si farà, col muovere il vaso, venir quella prima immagine fatta nella parte non unta, si vederà il capo della chioma più lucido, e la chioma poi alquanto meno risplendente: ed il medesimo effetto si vederà, se in vece d’ungere il vetro s’appannerà coll’alitarvi sopra. Io prego V. S. Illustrissima che se mai le venisse accennato questo scherzo al Sarsi, se gli protesti per me largamente e specificatamente, ch’io non intendo perciò affermar che in cielo vi sia una gran caraffa e chi col dito la vada ungendo, e così si faccia la cometa; ma ch’io arreco questo caso e che altri ne potrei arrecare e che forse molti altri ce ne sono in natura, inescogitabili a noi, come argomenti della sua ricchezza in modi differenti tra di loro per produrre i suoi effetti.
Terzo, che la reflessione e refrazzione non si possa far da materie ed impressioni meteorologiche se non quando contengono in sé molt’acqua, perché allora solamente sono di superficie lisce e terse, condizioni necessarie per produr tal effetto, dico non esser talmente vero, che non possa esser anco altrimenti. E quanto alla necessità della pulitezza, io dico che anco senza quella si farà la reflession dell’immagine unita e distinta: dico così, perché la rotta e confusa si fa da tutte le superficie, quanto si voglia scabrose ed ineguali; che però quell’immagine d’un panno colorato che distintissima si scorge in uno specchio oppostogli, confusa e rotta si vede nel muro, dal quale certo adombramento del color di esso panno ci vien solamente ripercosso. Ma se V. S. Illustrissima piglierà una pietra o una riga di legno, non tanto liscia che ci renda direttamente l’immagini, e quella s’esporrà obliquamente all’occhio, come se volesse conoscer s’ella è piana e diritta, vederà distintamente sopra d’essa l’immagini de gli oggetti che fossero accostati all’altro capo della riga, così distinte che tenendovi un libro scritto, potrà commodamente leggerlo. Ma di più, s’ella si costituirà coll’occhio vicino all’estremità di qualche muraglia diritta ed assai lunga, prima vederà un perpetuo corso d’essalazioni verso il cielo, e massime quando il parete sia percosso dal Sole, per le quali tutti gli oggetti opposti appariscono tremare; dipoi, se farà che alcun dall’altro capo del muro se le vada pian piano accostando, vederà, quando le sarà assai vicino, uscirgli incontro l’immagine sua reflessa da quei vapori ascendenti, non punto umidi né gravi, anzi aridissimi e leggieri. Ma che più? Non è ancor giunto al Sarsi il rumore che si fa, in particolare da Ticone, delle refrazzioni che si fanno nell’essalazioni e vapori che circondano la Terra, ancor che l’aria sia serenissima, asciuttissima e lontanissima dalle piogge e da ogni umidità? Né mi citi, com’egli fa, l’autorità d’Aristotile e di tutti i maestri di perspettiva; perch’egli non farà altro che dichiararmi più cauto osservatore di loro, cosa, per mio credere, diametralmente contraria alla sua intenzione. E tanto basti in risposta al primo argomento del Sarsi: e vegniamo al secondo.