< Il Saggiatore (Favaro)
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Capitolo IX
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"Sed confutandæ etiam fuerint Anaxagoræ, Pythagoræorum atque Hippocratis opiniones. Nemo tamen ex iis, cometam vanum omni ex parte oculorum ludibrium affirmarat. Anaxagoras enim stellarum verissimarum congeriem esse dixit; cum Aeschylo Hippocrates nihil a Pythagoræis dissentit: Aristoteles profecto, cum eorundem Pythagoræorum sententiam exposuisset, qua dicerent cometam unum esse errantium siderum, tardissim ead nos accedens ac citissime fugiens, subdit: "Similiter autem his et qui sub Hippocrate Chio et discipulo eius Aeschylo enunciaverunt; sed comam non ex se ipso aiunt habere, sed errantem, propter locum, aliquando accipere, refracto nostro visu ab humore attracto ab ipso ad Solem." Galilæus vero, in ipso suæ disputationis exordio, dum eorumdem placita recenset, asserit dixisse illos, cometam stellam quandam fuisse, quæ, Terris aliquando propior facta, quosdam ab eadem ad se vapores extraheret, e quibus sibi, non caput, sed comam decenter aptaret. Minus igitur, ut hoc obiter dicam, ad rem facit, dum postea ex his iisdem locis probat, Pythagoræos etiam existimasse cometam ex refractione luminis extitisse; illi enim nihil in cometis vanum, præter barbam, existimarunt. Intelligit ergo, nulli horum visum unquam fuisse, cometam, si de eiusdem capite loquamur, inane quiddam ac mere apparens dicendum. Quare, cum hac in re, ad hoc usque tempus, convenirent omnes, quid erat causæ, cur facem hanc lucidissimam larvis illis ac fictis colorum ludibriis spoliaremus, ab eaque crimen illud averteremus, quod ei nullus hominum, quorum habenda foret ratio, obiecisset? Cardanus enim ac Telesius, ex quibus aliquid ad hanc rem desumpsisse videtur Galilæus, sterilem atque infelicem philosophiam nacti, nulla ab ea prole beati, libros posteris, non liberos, reliquerunt. Nobis igitur ac Tychoni satis sit, apud eos non perperam disputasse, apud quos nunquam vani ac fallacis spectri cometes incurrit suspicionem; hoc est, ipso Galilæo teste, apud omnium, quotquot adhuc fuerunt, philosophorum Academias. Quod si quis modo inventus est, qui hæc phænomena inter mere apparentia reponenda diserte docuerit, ostendam huic ego suo loco, ni fallor, quam longe cometæ ab iride, areis et coronis, moribus ac motibus distent, quibusque argumentis conficiatur, cometem, si comam excluseris, non ad Solis imperium nutumque, quod apparentibus omnibus commune est, agi, sed liberum moveri protinus ac circumferri quo sua illum natura impulerit traxeritque."

Qui volendo anco in universale mostrar, la dubitazion promossa dal signor Mario esser vana e superflua, dice, niuno autore antico o moderno, degno d’esser avuto in considerazione, aver mai stimato la cometa potere esser una semplice apparenza, e che per ciò al suo Maestro, il quale solo con questi disputava e di questi soli aspirava alla vittoria, niun mestier faceva di rimuoverla dal numero de’ puri simulacri. Al che io rispondendo, dico primieramente che il Sarsi ancora con simil ragione poteva lasciare stare il signor Mario e me, poi che siam fuori del numero di quegli antichi e moderni contro i quali il suo Maestro disputava, ed abbiamo avuta intenzione di parlar solamente con quelli (sieno antichi o moderni) che cercano con ogni studio d’investigar qualche verità in natura, lasciando in tutto e per tutto ne’ lor panni quegli che solo per ostentazione in strepitose contese aspirano ad esser con pomposo applauso popolare giudicati non ritrovatori di cose vere, ma solamente superiori a gli altri; né doveva mettersi con tanta ansietà per atterrar cosa che né a sé né al suo Maestro era di pregiudicio. Doveva secondariamente considerare, che molto più è scusabile uno a chi in alcuna professione non cade in mente qualche particolare attenente a quella, e massime quando né anco a mille altri, che abbiano professato il medesimo, è sovvenuto, che quegli a cui venga in mente, e presti l’assenso a cosa che sia vana ed inutile in quell’affare; ond’ei poteva e doveva più tosto confessare che al suo Maestro, com’anco a nessun de’ suoi antecessori, non era passato per la mente il concetto che la cometa potesse essere una apparenza, che sforzarsi per dichiarar vana la considerazion sovvenuta a noi: perché quello, oltre che passava senza niuna offesa del suo Maestro, dava indizio d’una ingenua libertà, e questo, non potendo seguire senza offesa della mia reputazione (quando gli fusse sortito l’intento), dà più tosto segno d’animo alterato da qualche passione. Il signor Mario, con isperanza di far cosa grata e profittevole agli studiosi del vero, propose con ogni modestia, che per l’avvenire fusse bene considerare l’essenza della cometa, e s’ella potesse esser cosa non reale, ma solo apparente, e non biasimò il P. Grassi né altri, che per l’addietro non l’avesser fatto. Il Sarsi si leva su, e con mente alterata cerca di provare, la dubitazione essere stata fuor di proposito, ed esser di più manifestamente falsa; tuttavia per trovarsi, come si dice, in utrumque paratus,in ogni evento ch’ella apparisse pur degna di qualche considerazione, per ispogliarmi di quella lode che arrecar mi potesse, la predica per cosa vecchia del Cardano e del Telesio, ma disprezzata dal suo Maestro come fantasia di filosofi deboli e di niun seguito; ed in tanto dissimula, e non sente con quanta poca pietà egli spoglia e denuda coloro di tutta la reputazione, per ricoprire un piccolissimo neo di quella del suo Maestro. Se voi, Sarsi, vi fate scolare di quei venerandi Padri nella natural filosofia, non vi fate già nella morale, perché non vi sarà creduto. Quello che abbiano scritto il Cardano e ’l Telesio, io non l’ho veduto, ma per altri riscontri, che vedremo appresso, posso facilmente conghietturare che il Sarsi non abbia ben penetrato il senso loro. In tanto non posso mancare, per avvertimento suo e per difesa di quelli, di mostrar quanto improbabilmente ei conclude la lor poca scienza della filosofia dal piccol numero de’ suoi seguaci. Forse crede il Sarsi, che de’ buoni filosofi se ne trovino le squadre intere dentro ogni ricinto di mura? Io, signor Sarsi, credo che volino come l’aquile, e non come gli storni. È ben vero che quelle, perché son rare, poco si veggono e meno si sentono, e questi, che volano a stormi, dovunque si posano, empiendo il ciel di strida e di rumori, metton sozzopra il mondo. Ma pur fussero i veri filosofi come l’aquile, e non più tosto come la fenice. Signor Sarsi, infinita è la turba de gli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. Sì che, per dir quel ch’io voglio inferire, trattando della scienza che per via di dimostrazione e di discorso umano si può da gli uomini conseguire, io tengo per fermo che quanto più essa participerà di perfezzione, tanto minor numero di conclusioni prometterà d’insegnare, tanto minor numero ne dimostrerà, ed in conseguenza tanto meno alletterà, e tanto minore sarà il numero de’ suoi seguaci: ma, per l’opposito, la magnificenza de’ titoli, la grandezza e numerosità delle promesse, attraendo la natural curiosità de gli uomini e tenendogli perpetuamente ravvolti in fallacie e chimere, senza mai far loro gustar l’acutezza d’una sola dimostrazione, onde il gusto risvegliato abbia a conoscer l’insipidezza de’ suoi cibi consueti, ne terrà numero infinito occupato; e gran ventura sarà d’alcuno che, scorto da straordinario lume naturale, si saprà torre da i tenebrosi e confusi laberinti ne i quali si sarebbe coll’universale andato sempre aggirando e tuttavia più avviluppando. Il giudicar dunque dell’opinioni d’alcuno in materia di filosofia dal numero de i seguaci, lo tengo poco sicuro. Ma ben ch’io stimi, piccolissimo poter esser il numero de i seguaci della miglior filosofia, non però concludo, pel converso, quelle opinioni e dottrine esser necessariamente perfette, le quali ànno pochi seguaci; imperocché io intendo molto bene, potersi da alcuno tenere opinioni tanto erronee, che da tutti gli altri restino abbandonate. Ora, da qual de’ due fonti derivi la scarsità de’ seguaci de’ due autori nominati dal Sarsi per infecondi e derelitti, io non lo so, né ho fatto studio tale nell’opere loro, che mi potesse bastar per giudicarle.

Ma tornando alla materia, dico che troppo tardi mi par che il Sarsi voglia persuaderci che il suo Maestro, non perché non gli cadesse in mente, ma perché disprezzò come cosa vanissima il concetto che la cometa potess’essere un puro simulacro, e che in questi non milita l’argomento della paralasse, non ne fece menzione: tarda, dico, è cotale scusa, perché quand’egli scrisse nel suo Problema:"Statuo, rem quamcunque inter firmamentum et Terram constitutam, si diversis e locis spectetur, diversis etiam firmamenti partibus responsuram", chiaramente si dimostrò, non gli esser venuto in mente l’iride e l’alone, i parelii ed altre reflessioni, che a tal legge non soggiacciono, le quali ei doveva nominare ed eccettuare, e massime ch’egli stesso, lasciando Aristotile, inclina all’opinione del Kepplero, che la cometa possa essere una reflessione. Ma seguendo più avanti, mi par di vedere che il Sarsi faccia gran differenza dal capo della cometa alla sua barba o chioma, e che quanto alla chioma possa esser veramente ch’ella sia un’illusione della nostra vista e una apparenza, e che tale l’abbiano stimata ancora quei Pittagorici nominati da Aristotile; ma quanto al capo stima che sia necessariamente cosa reale, e che niuno l’abbia mai creduto altrimenti. Or qui vorrei io una bene specificata distinzione tra quello che il Sarsi intende per reale e quello ch’egli stima apparente, e qual cosa sia quella che fa esser reale quello ch’è reale, e apparente quello ch’è apparente: perché, s’egli chiama il capo reale per esser in una sostanza e materia reale, io dico che anco la chioma è tale; sì che chi levasse via quei vapori ne’ quali si fa la reflession della vista nostra al Sole, sarebbe tolta parimente la chioma, come al tor via delle nuvole si toglie l’iride e l’alone: e s’ei domanda la chioma finta perché senza la reflession della vista al Sole ella non sarebbe, io dico che anco del capo seguirebbe l’istesso; sì che tanto la chioma quanto il capo non son altro che reflession di raggi in una materia, qualunqu’ella si sia; e che in quanto reflessioni sono pure apparenze, in quanto alla materia son cosa reale. E se il Sarsi ammette che alla mutazion di luogo del riguardante faccia o possa far mutazion di luogo la generazion della chioma nella materia, io dico che del capo ancora può nel medesimo modo seguir l’istesso; e non credo che quei filosofi antichi stimassero altrimenti, perché, se, verbigrazia, avesser creduto il capo esser realmente una stella per se stessa, lucida e consistente, e solo la chioma apparente, avrebber detto che quando per l’obliquità della sfera non si fa la refrazzion della nostra vista al Sole, non si vede più la chioma, ma sì ben la stella, ch’è capo della cometa; il che non dissero, ma dissero che in tutto non si vedeva cometa: segno evidente, la generazion d’ambedue esser l’istessa. Ma detto o non detto che ciò sia da gli antichi, vien messo in considerazione adesso dal signor Mario con assai sensate ragioni di dubitare, le quali devono esser ponderate, come pure fa ancora l’istesso Sarsi; e noi a suo luogo anderemo considerando quanto egli ne scrive.

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