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CAPITOLO PRIMO.
Lac d’amour.
Jeanne si posò aperto sulle ginocchia il volumetto sottile che stava leggendo presso la finestra. Contemplò pensosa dentro la ovale acqua plumbea dormente a’ suoi piedi il passar delle nubi primaverili che ad ora ad ora trascoloravano la villetta, il giardino deserto, gli alberi dell’altra sponda, le campagne lontane, a sinistra il ponte, a destra le quiete vie che si perdevano dietro il Bèguinage, e i tetti acuti della grande mistica morta, Bruges. Ah se quella Intruse di cui stava leggendo, se quella funerea visitatrice movesse ora, invisibile, per la città sepolcrale, se le rughe brevi dell’acqua plumbea fossero l’orma sua, s’ella toccasse già la riva, la soglia della villetta, con il suo sospirato dono di sonno eterno! Suonarono le cinque; su su, presso le bianche nubi, magiche voci d’innumerevoli campane cantarono sopra le case, le piazze, le vie di Bruges il malinconico incantesimo che ne eterna il sopore. Jeanne si sentì su gli occhi due mani fresche, un’aura profumata sul viso, e sui capelli un alito, un sussurro «encore une intruse!» un bacio. Non parve sorpresa. Alzò la mano ad accarezzare il viso chino sopra di lei e disse solamente:
«Addio, Noemi. Magari fossi tu l’Intruse!»
La signorina Noemi non intese.
«Magari?» diss’ella. «È italiano, questo? Non è arabo? Spiegati subito.»
Jeanne si alzò.
«Non capiresti lo stesso» diss’ella con un sorriso triste. «Dobbiamo fare il nostro esercizio di conversazione italiana, adesso?»
«Ma, prego!»
«Dove sei andata con mio fratello?»
«All’Ospitale di S. Giovanni a salutare Memling.»
«Bene, parla di Memling. — No, prima dimmi se Carlino ti ha fatto dichiarazioni.»
La signorina rise.
«Sì, mi ha dichiarato la guerra e io gli.»
«E io a lui, si dice. — Vorrei che s’innamorasse di te» soggiunse Jeanne, seria. La signorina aggrottò le ciglia.
«Io non vorrei» diss’ella.
«Perchè? Non è simpatico? Non ha spirito? Non è colto? Non è distinto? Ed è anche ricco, poi, sai. Disprezziamo pure la ricchezza, ma è una cosa comoda.»
Noemi d’Arxel posò le mani sulle spalle dell’amica e la guardò nelle pupille. Gli azzurri occhi erano gravi e tristi. I bruni occhi indagati sostenevano quello sguardo con fermezza lampeggiante a vicenda di sfida, di cruccio e di riso.
«Intanto» disse la signorina «il signor Carlino mi piace per vedere Memling, per suonare a quattro mani musica classica e anche per farmi leggere Kempis, benchè questo suo nuovo amore di Kempis pare una profanazione pensando che crede niente. Je suis catholique autant qu’on peut l’être lorsqu’on ne l’est pas, eppure quando sento un miscredente come tuo fratello leggere Kempis così bene, perdo quasi anche la mia fede cristiana! Gli voglio poi bene perchè è tuo fratello, ma è tutto! Oh, questa signora Jeanne Dessalle dice qualche volta cose… cose…! Non so, non so, non so. Ma warte nur, du Räthsel, mi diceva la mia istitutrice. Aspetta, enigma!»
«Cosa devo aspettare?»
Noemi cinse di un braccio il collo dell’amica:
«Io ti sonderò l’anima con una sonda che porterà su perle tanto grandi, tanto belle e anche forse qualche alga, qualche poco di fango del fondo e forse una piccolissima piœuvre.»
«Non mi conosci» replicò Jeanne. «Sei la sola persona, fra i miei amici, che non mi conosce.»
«Già, solamente quelli che ti adorano ti conoscono, penso io, eh? Oh sì, questa è una manìa che hai, di credere che tutta la gente ti adora.»
Jeanne fece la solita boccuccia di bambina infastidita.
«Che sciocca!» diss’ella. E subito corresse la parola con un bacio e una smorfia, mezza sorriso, mezza lamento.
«Le donne!» riprese. «Le donne, ti ho sempre detto, mi adorano! Vuoi dire che non mi adori, tu?»
«Mais point du tout!» esclamò Noemi. Jeanne brillò negli occhi di malizia e di dolcezza:
«In italiano si dice: sì, di tutto cuore!»
I fratelli Dessalle avevano passato l’estate precedente a Maloja, Jeanne studiandosi di essere una compagna gradevole, nascondendo quanto poteva la sua insanabile piaga; Carlino cercando, nelle ore mistiche, a Sils Maria e nei dintorni, le traccie di Nietzsche, farfalleggiando nelle ore mondane di dama in dama, pranzando spesso a S. Moritz e persino a Pontresina, facendo musica con un addetto militare dell’ambasciata germanica di Roma e con Noemi d’Arxel, discorrendo di religione con la sorella e il cognato di lei. Le due sorelle d’Arxel, orfane, erano belghe di nascita, olandesi di origine e protestanti. La maggiore di esse. Maria, aveva sposato, dopo un idillio singolare e poetico, il vecchio pensatore italiano Giovanni Selva, che sarebbe popolare in Italia se gl’italiani avessero maggiore interesse per gli studi religiosi; poichè il Selva è forse il più legittimo rappresentante italiano del cattolicesimo progressista. Maria si era fatta cattolica prima del matrimonio. I Selva passavano l’inverno a Roma, il resto dell’anno a Subiaco. Noemi, serbatasi fedele alla religione de’ suoi padri, alternava Bruxelles con l’Italia. Ora la vecchia istitutrice, colla quale viveva, era morta a Bruxelles da un mese, alla fine di marzo. Nè Giovanni Selva nè sua moglie avevano potuto, per una indisposizione del primo, venire ad assistere Noemi in quei frangenti. Jeanne Dessalle, che si era legata particolarmente a Noemi, aveva persuaso il fratello a un viaggio nel Belgio, da lui non conosciuto, e quindi offerto ai Selva di recarsi a Bruxelles in loro vece. Così era avvenuto che Noemi si trovasse con i Dessalle a Bruges verso la fine di aprile. Vi abitavano una villetta in riva al breve specchio d’acqua che chiamano Lac d’amour. Carlino si era innamorato di Bruges e particolarmente del Lac d’amour come titolo di un romanzo che andava sognando di scrivere, senza tenerne ancora in mente molto più che la compiacenza profetica di aver mostrato al mondo uno squisito e originale magistero di arte.
«En tout cas» replicò Noemi «di tutto cuore, no!»
«Perchè?»
«Perchè il mio cuore lo sto dedicando a un’altra persona.»
«A chi?»
«A un frate.»
Jeanne trasalì, e Noemi, confidente dell’amica, del suo insanabile amore per l’uomo scomparso, probabilmente sepolto in qualche ignota solitudine claustrale, tremò di aver sbagliato il tôno dell’esordio di un discorso che aveva in mente.
«A proposito, Memling!» diss’ella arrossendo forte. «Dobbiamo parlare di Memling!»
Lo disse in francese e Jeanne le sussurrò:
«Sai che devi parlare italiano.»
Gli occhi suoi erano così tristi e amari che Noemi non parlò italiano, le disse, ancora in francese, tante cose tenere, implorò una parola buona, un bacio, ebbe l’una e l’altro. Non riuscì a rasserenare Jeanne che tuttavia, blandendo a due mani l’amica lungo l’arco dei capelli e guardando il proprio lavoro amoroso, le diceva piano che non temesse di averla ferita. Triste, sì, lo era. Che novità! Vero, gaia non era mai, Noemi lo ammise; oggi però le nuvole interne parevano più dense. Colpa della Intruse, forse. Jeanne fece «proprio!» con un viso e un accento che significavano come l’Intruse colpevole della sua malinconia non fosse quella immaginaria del libro ma la Falciatrice terribile in persona.
«Ho avuto una lettera dall’Italia» diss’ella dopo aver debolmente resistito alle domande pressanti di Noemi. «È morto don Giuseppe Flores.»
Flores? Chi era? Noemi non lo ricordava più e Jeanne la rimproverò con acerbità, come se una tale smemoratezza la rendesse indegna del suo ufficio di confidente. Don Giuseppe Flores era il vecchio prete veneto che le aveva portato a villa Diedo l’ultimo messaggio di Piero Maironi. Ella lo aveva creduto consigliere all’amante della sua uscita dal mondo e non le era bastato di fargli un’accoglienza gelida, lo aveva trafitto di allusioni ironiche all’azione sua, proprio degna di un ministro della infinita Pietà. Il vecchio le aveva risposto con tanto lume, nelle parole gravi e soavi, di sapienza spirituale, il suo bel viso si era fatto, parlando, così augusto, ch’ella aveva finito con domandargli perdono e pregarlo di venire qualche volta da lei. C’era infatti ritornato due volte e mai ella non s’era trovata in casa. Allora lo aveva visitato lei nella sua villa solitaria e di quella visita, di quella conversazione col vecchio tanto alto d’intelletto, tanto umile di cuore, tanto caldo nell’anima, tanto verecondo e quasi timido nella parola, serbava ricordi non cancellabili. Egli era morto, le scrivevano, donandosi dolcemente alla Divina Volontà. Poco prima di morire, durante una notte intera, aveva sognato senza tregua le parole del servo fedele nella parabola dei talenti: «ecce superlucratus sum alia quinque» e l’ultima voce era stata: «non fiat voluntas mea sed tua.» Chi le aveva scritto non sapeva che, malgrado certi turbamenti del senso interno, malgrado certi assalti di desideri religiosi, Jeanne respingeva, tanto inesorabilmente quanto in passato, Iddio e l’immortalità umana come illusioni eterne, ch’ella andava di quando in quando a messa per non darsi l’aria spiacente di libera pensatrice e non per altro.
Ella non raccontò a Noemi quei particolari della morte di don Giuseppe, ma li ripensava con l’oscuro senso, mortalmente amaro, di una ben altra sorte che le sarebbe toccata s’ella pure avesse potuto credere così; perchè in fondo all’anima di Piero Maironi vi era sempre stata una religiosità atavica e oggi ella era convinta che confessandogli, la sera dell’eclissi, di non credere, aveva scritto la propria sventura nel libro del destino. E pensava un’altra taciuta parte angosciosa della lettera venuta dall’Italia. Si vedeva il suo soffrire benchè non lo dicesse. Noemi le posò, le fermò silenziosamente le labbra in fronte, vi sentì l’occulto dolore che accettava la sua pietà, si sciolse infine dal bacio lenta lenta, quasi temendo guastar qualche delicato filo tra le congiunte anime, mormorò: «Forse questo vecchio buono sapeva dove…. Credi che fosse in relazione…?»
Jeanne accennò di no. Nel settembre successivo al luglio doloroso il suo disgraziato marito era morto a Venezia, di delirium tremens. Ella era andata a villa Flores nell’ottobre e là nello stesso giardino dove anche la marchesa Scremin era venuta aprendo a Don Giuseppe il suo povero vecchio cuore tribolato, gli aveva espresso il desiderio che Piero sapesse di questa morte, sapesse di poter pensare a lei, se ciò gli avvenisse mai, senza ombra di colpa. Don Giuseppe l’aveva prima dolcemente sconsigliata dal perdersi dietro a quel sogno, e poi le aveva detto, con sincerità intera, che nessuna notizia gli era pervenuta mai di Piero dal giorno della sua scomparsa.
Temendo altre domande, schiva di sentirsi toccar la ferita da mani inesperte, Jeanne desiderò uscire dall’argomento.
«Raccontami pure del tuo frate» diss’ella. Ma proprio allora si udì nell’anticamera la voce di Carlino.
«Adesso no» rispose Noemi. «Stasera.»
Carlino entrò, fasciato il collo di seta bianca, brontolando contro il Lac d’amour che infine era una grandissima corbellatura, e infettava poi anche l’aria di piccole creature odiose, velenose per le sue tonsille.
«Già» diss’egli. «L’amore stesso non vale meglio.»
Noemi gli volle proibire di parlar dell’amore. Lui, parlarne, che non lo intendeva! Carlino la ringraziò. Stava appunto per innamorarsi di lei, ne aveva avuto una paura enorme. Queste parole venute presto presto dopo l’apparizione di certa disordinata piuma sopra un cappello detestabile e dopo certa frase molto borghesemente ammirativa su quel povero diavolo noioso di Mendelssohn, lo avevano salvato à jamais. I due si scambiarono altre impertinenze e Carlino fu tanto brioso malgrado le tonsille infette, che la signorina d’Arxel lo felicitò per il suo romanzo.
«Si capisce che va bene» diss’ella.
«Che! Punto!» rispose il romanziere. Non andava punto bene, anzi aveva dato nelle secche di una situazione disperata. Lo sapeva l’esofago dell’autore che ci aveva lì due personaggi incapaci di scendere e di risalire, uno grasso e buono, l’altro sottile e pungente, similissimo alla signorina d’Arxel. Gli pareva di aver inghiottito insieme un fico e un’ape, come certo disgraziato contadino toscano che n’era morto in quei giorni. L’ape capì che aveva voglia di parlarne, lo punse e lo ripunse tanto che infatti ne parlò. Il suo romanzo poggiava sopra un caso curioso di contagio spirituale. Il protagonista era un prete francese di ottant’anni, pio, puro e dotto. Francese? Perchè francese? Ma! Perchè il personaggio abbisognava di certo colore di fantasia poetica, di certa mobilità sentimentale e queste belle cose non si trovano in un prete italiano, secondo Carlino, a sgusciarne mille. Accadeva un giorno a questo prete di confessare un uomo di grande ingegno, combattuto da terribili dubbi circa la fede. A confessione finita il penitente se n’andava tranquillo e il confessore rimaneva scosso nelle credenze proprie. Qui doveva seguire un’analisi minuta e lunga dei successivi stati di coscienza di questo vecchio, che aspettava la morte di giorno in giorno con lo sgomento di uno scolare il quale attenda nell’anticamera della scuola il suo turno di esame e non si trovi più in testa niente. Egli capita a Bruges. Qui l’ostile interruttrice esclamò:
«A Bruges? Perchè?»
«Perchè io sono il suo Papa» rispose Carlino «e lo mando dove voglio. Perchè a Bruges c’è un silenzio di anticamera dell’Eternità e quel carillon, che in fondo comincia a seccarmi, può anche passare per un richiamo di angeli. Finalmente perchè a Bruges c’è una signorina brunetta, sottile, alta e che si può anche dire intelligente benchè parli l’italiano male e non capisca la musica.»
Noemi porse le labbra e arricciò il naso.
«Che sciocchezza!» diss’ella.
Carlino proseguì dicendo che non sapeva ancora come, ma che insomma, in qualche modo, la brunetta sarebbe diventata penitente del vecchio prete. Noemi protestò ridendo: come mai? allora non era lei! Un’eretica? Confessarsi? Carlino si strinse nelle spalle. Dramma di follia più, dramma di follia meno, protestantesimo e cattolicismo erano la stessa cosa. Dunque il vecchio prete ritroverebbe la sua fede antica nel contatto di quella semplice e sicura di lei. Qui Carlino aperse una parentesi nel suo racconto per confessare che veramente non sapeva che qualità di fede avesse Noemi. Ella arrossì, rispose che aveva la fede protestante. Protestante, sì; ma semplice? Ma sicura? Noemi s’impazientì.
«Insomma sono protestante» diss’ella «e Lei non si occupi della mia fede!»
In fatto Noemi era molto ferma nella propria religione non per virtù di ragionamenti ma per affetto riverente alla memoria dei genitori; e in cuor suo non aveva approvato la conversione della sorella.
Carlino tirò avanti. Una influenza mistica del sesso conduce il vecchio a ricercare un’armonia di anime con la fanciulla. «Che pasticcio!» fece Noemi con il solito atto delle labbra. E Carlino tirò imperterrito avanti. Il fine, il nuovo, lo squisito del suo libro era l’analisi appunto di questa recondita influenza del sesso sul vecchio prete e anche sulla fanciulla.
«Carlino!» fece Jeanne. «Cosa ti viene in mente? Un vecchio di ottant’anni?»
Carlino guardò in aria come per dire a qualche invisibile amico superiore:
«Non capiscono niente!»
Il suo desiderio era d’invecchiare ancora il prete e dargliene novanta degli anni, farne una specie di essere intermedio fra l’uomo e lo spirito, che avesse negli occhi le profondità nebulose delle cose eterne imminenti. E la signorina avrebbe nel sangue quella misteriosa inclinazione ai vecchi, non rarissima nel suo sesso, ch’è il vero stigma della nobiltà femminile, per il quale la donna si distingue dalla femmina. Carlino si sentiva in mente delle cose divine a dire su questo mistico senso che attrae la fanciulla di ventiquattro anni verso l’uomo di novanta, sacerdote, quasi già eternato, diafano, non però curvo nè tremolo nè infiacchito nella voce. Si vedono di questi vecchioni che lo spirito alto erige, invitti dal tempo. Ma come finirebbe poi tutto ciò? Nè Noemi nè Jeanne sapevano immaginarlo. Eh già, Carlino lo aveva ben detto fino dal principio, il fico e l’ape che non potevano nè scendere nè risalire. Se ne consolava però. Questa necessità di finire, in fondo, è un pregiudizio da droghiere. Cosa finisce mai al mondo? Va bene, dicevano le signore, ma il libro deve pure avere una fine. Oh certo! L’ultima scena, di bellezza ineffabile, sarebbe una passeggiata notturna, al chiaro di luna, del prete e della giovine per le vie di Bruges, dove le loro anime si aprirebbero a confidenze quasi di amanti, a sogni quasi di profeti. I due si troverebbero a mezzanotte davanti alle acque addormentate del Lac d’amour, ascolterebbero immobili il suono mistico del carillon sotto le nuvole e avrebbero allora la rivelazione vaga di una sessualità delle loro anime, di un avvenire di amore nella stella Fomalhaut.
«Perché mai proprio in Fomalhaut?» esclamò Noemi.
«Lei è insopportabile!» rispose Carlino. «Perché è un nome delizioso, ha il suono di una parola indurita dal gelo tedesco ma piena di anima, che si scioglie nel sole di Oriente.»
«Dio mio, che chimica! A me piace Algol.»
«Lei e il Suo pastore andranno in Algol.»
Noemi rise, e Carlino si appellò a Jeanne. Quale stella preferiva? Jeanne non sapeva, non aveva fatto attenzione. Carlino ne fu irritatissimo, parve volerla rimproverare non tanto della sua distrazione quanto degli occulti pensieri che ne fossero in colpa, e, quasi temendo dir troppo, la mandò a meditare, a sognare, a scrivere la filosofia del fumo e delle nuvole. Ma poi quand’ella, niente malcontenta, se n’andava, la richiamò per domandarle se almeno avesse udito come il romanzo si sarebbe chiuso. Sì, questo lo aveva udito: con una passeggiata dell’eroina e dell’eroe per Bruges, al chiaro di luna.
«Bene» fece Carlino «siccome stasera c’è luna, io ho bisogno di passeggiare dalle dieci a mezzanotte con Noemi e te per prender note.»
«Debbo vestirmi da prete?» rispose Jeanne, uscendo. Noemi voleva seguirla ma la stessa Jeanne la pregò di rimanere. Rimase per dire a Carlino ch’egli era indegno di una simile sorella. Carlino andò a pescare nel portamusica un fascicolo di Bach brontolandole che lei non sapeva niente, non sapeva niente. Scaramucciarono alquanto e neppure Bach li poté pacificare subito; per un bel pezzo tennero duro, anche suonando, a insolentirsi, prima per Jeanne, poi per le note sbagliate. Finalmente il musicale rivo limpido che le loro collere rompevano come sassi spumeggianti, le soverchiò, corse via liscio, specchiando cielo e idilliache sponde.
Jeanne si portò in camera l’Intruse, ma non la lesse più. Anche la sua camera guardava il Lac d’amour. Sedette presso la finestra contemplando di là da un ponte, di là da vette spoglie di alberi tondeggianti fra casa e casa, il fantasma piramidale di una torre altissima velata di nebbioline azzurrognole. Udiva discorrere pietosamente la vena limpida di Bach e pensava a don Giuseppe col malinconico senso di chi si allontana per sempre da una casa diletta, e vi torna con lo sguardo ogni momento, e ad una svolta del cammino ne vede sparire l’ultimo angolo, l’ultima finestra. La sua tristezza aveva una viva punta inquieta. Le avevano scritto che fra le carte del morto si era trovato un plico suggellato con questa soprascritta di suo pugno: «da consegnarsi per cura del mio esecutore testamentario nelle mani di Monsignor Vescovo». L’incarico era stato adempiuto e voci uscite dall’episcopio dicevano che fossero nel plico una lettera di don Giuseppe a Sua Eccellenza e una busta suggellata con la scritta di altra mano «Da aprirsi dopo la morte di Piero Maironi.» Riferivano pure questo motto del Vescovo: «Speriamo che il signor Piero Maironi, d’ignota dimora, ricomparisca per farci sapere che è morto.»
Jeanne ignorava che Piero Maironi, prima della notte in cui era fuggito di casa senza lasciare traccia di sé, avesse consegnato a don Giuseppe il racconto scritto di una visione della propria vita nel futuro e della propria morte, visione pure ignorata da lei, avuta da Piero nella chiesetta vicina al manicomio dove sua moglie stava morendo. Che mai poteva contenere la busta suggellata? Certo uno scritto suo; ma quale? Una confessione, probabilmente, delle sue colpe. Il concetto e la forma dell’atto rispondevano bene al suo misticismo innato, al predominio della sua fantasia sulla ragione, alla sua fisionomia intellettuale. Tre anni erano corsi dal giorno in cui Jeanne, disperata, a Vena di Fonte Alta, si era detto che non avrebbe più voluto amare Piero e che niente altro mai avrebbe potuto amare al mondo. Ancora lo amava così e ancora, come in passato, lo giudicava col suo intelletto indipendente dal cuore: indipendenza cara al suo orgoglio. Lo giudicava severamente in tutte le sue azioni, in tutto il suo contegno, dal momento in cui lo aveva conquistato di viva forza nel monastero di Praglia sino al momento in cui le loro labbra si erano congiunte presso la vasca dell’Acqua Barbarena. Egli si era mostrato incapace di amare, incapace di agire, irresoluto, femmineo nella mobilità dell’animo. Ecco, lo era stato fino all’ultimo, femmineo; femmineo, inetto ad esercitare alcuna critica virile sul suo isterismo mistico. Vi era forse in questo giudizio una sincerità imperfetta, un eccesso di acerbità voluto, un proposito vano di ribellione contro il prepotente, invincibile amore.
Se si era fatto frate, Jeanne prevedeva che si sarebbe pentito. Era troppo sensuale. Passato un primo periodo di dolore e di fervore, la sensualità si sarebbe risvegliata, lo avrebbe ricondotto alla rivolta contro una fede radicata piuttosto nel sentimento e nelle abitudini dell’età prima che nell’intelletto. Ma si era veramente fatto frate? Jeanne pensò che la torre colossale di Notre Dame colla sua sottile punta saettata nel cielo, e le mura tristi del Béguinage, e il povero stagnante scuro Lac d’amour, e lo stesso silenzio solenne della città morta le significassero di sì, ma che sarebbe superstizioso di creder loro.
«Dove andiamo?» chiese Jeanne, alle dieci, mettendo i guanti, mentre Carlino, dato a tenere a Noemi un capo della sua sciarpa sesquipedale ben tesa, se ne fermava l’altro all’occipite e rotava poi sul suo proprio asse come un fuso, sino al farsi il collo più grosso della testa. «E il prete di novant’anni ho proprio a esser io?»
Carlino si arrabbiò perchè Noemi rideva e non teneva tesa a dovere la sciarpa.
«Tu o lei non importa» rispose, quando Noemi, fermatagli la sciarpa con uno spillo, licenziò il romanziere in fasce. «E andate dove volete! Purchè adesso si vada verso il centro e si ritorni per l’altro lato del Lac d’amour. E parlate di qualche cosa che v’interessi molto.»
«Presente Lei?» fece Noemi. «Com’è possibile?»
Carlino le spiegò che non si sarebbe accompagnato a loro, che le avrebbe seguite col taccuino e la matita alla mano. Bisognava però che sostassero di tratto in tratto a piacer suo, e che, s’egli significasse loro qualche altra sua volontà, obbedissero.
«Va bene» disse Noemi. «Intanto andiamo al Quai du Rosaire a vedere i cigni.»
Si avviarono verso Notre Dame, Carlino dietro le signore, a venti passi. In principio fu un continuo battibecco, per le vie deserte, fra l’avanguardia e la retroguardia. L’avanguardia camminava troppo forte, e Carlino: «A novant’anni? A novant’anni?» oppure rideva, e Carlino: «Ma che fate? Ma che fate? Zitto!» oppure si fermava a guardare una chiesa antica, le cuspidi, i pinnacoli strani al chiaro di luna, il cimitero accanto alla chiesa e Carlino: «Ma parlate, discorrete, fate qualche gesto! Niente il naso all’aria!» Dall’avanguardia venivano le ribellioni; le più acerbe, da Noemi. Ella si voltò sul Dyver battendo i piedi e protestando di volersene ritornare a casa se il noiosissimo romanziere in fasce non la smetteva con i suoi comandi e rimbrotti. Allora Jeanne le sussurrò:
«Parlami del tuo frate.»
«Ah, il frate, sì!» rispose Noemi e gridò a Carlino che l’avrebbero accontentato ma che stesse più lontano.
Dal quai du Rosaire non si vedevano più i cigni che Noemi aveva scôrti la mattina pavoneggiarsi nel canale, turbandovi con le scie lente i languidi spettri di quell’accozzaglia di case e casucce che levano dall’acqua, come bestie satolle, le lunghe facce orecchiute, e guardano stupide, quale a un verso, quale a un altro, nella custodia dell’imminente torrione delle Halles. Ora la luna batteva di sghembo alle case, stampava sulle une l’ombra delle altre, e glorificava comignoli e pinnacoli, l’aguzzo cappello da mago caldeo di una vecchia torricciula, e sopra la intera scena il sublime diadema ottagonale della torre possente; ma non toccava l’acqua nera. Tuttavia Jeanne e Noemi, chine sulla sbarra del parapetto, guardarono a lungo, Noemi parlando sempre, nell’acqua nera; tanto a lungo che Carlino ebbe tempo di riempire tre o quattro pagine del suo taccuino e anche di disegnare i fregi onde un ambizioso mercante brugitano cinse sulla facciata della propria casa cifre dell’anno memorabile 1716, in cui fu veduta per la prima volta dal sole, dalla luna e dagli astri.
Il frate era un benedettino del monastero di Santa Scolastica in Subiaco. Si chiamava don Clemente. Era un conoscente dei Selva. Giovanni lo aveva incontrato la prima volta per caso sul sentiero di Spello, presso certe rovine. Gli aveva chiesto della via, eran venuti a discorrere. Mostrava aver passato di poco i trent’anni, aveva modi e aspetto signorili. Il discorso era stato prima delle rovine, poi dei monasteri e della Regola, poi di religione. Dalla stessa voce del benedettino spirava come un aroma di santità. Si sentiva però in lui uno spirito avido del sapere e del pensiero moderno. Si erano lasciati col desiderio reciproco e la promessa di rivedersi. A Giovanni era stata benefica l’aura spirituale del giovine monaco illuminato nel viso da una bellezza interna; e il giovine monaco aveva sentito il fascino della cultura religiosa di Giovanni, degli orizzonti che la breve conversazione aveva pure aperti alla sua fede cupida di lume razionale. Giovanni aveva inteso parlare a Subiaco di un giovine di nascita nobile, venuto a vestir l’abito benedettino in Santa Scolastica per morte di una donna amata. Non dubitava che fosse lui. Ne aveva poi chiesto ad altri monaci senza poterne cavar niente. Ma si erano riveduti più volte e trattenuti lungamente insieme. Giovanni aveva prestato dei libri a don Clemente e don Clemente era venuto a casa Selva, aveva conosciuto Maria. Si era rivelato musicista, aveva suonato un «Salmo dell’aurora» composto da lui per organo e canto, dopo aver udito Selva paragonare il lento manifestarsi del sole, dal primo punto rutilante fra i vapori alla gloria trionfale del mezzogiorno, con il manifestarsi lento di Dio dal fumo lampeggiante intorno agli alti dirupi del Sinai fino alla gloria trionfale che ancora tutta non si è svolta nello spirito dell’uomo. Un’altra volta Giovanni gli aveva proposta certa questione già da lui dibattuta con Noemi: se le anime umane all’uscir di questa vita sieno subito fatte conscie della loro sorte futura. La risposta di don Clemente era stata che dopo la morte…
A questo punto della narrazione di Noemi, Carlino domandò se dovesse piantare lì tre tabernacoli per passarvi la notte. Le signore si rizzarono e si avviarono per la rue des Laines.
«La risposta» riprese Noemi «era stata che probabilmente dopo la morte le anime umane si troveranno in uno stato e in un ambiente regolati da leggi naturali come in questa vita; dove, come in questa vita, l’avvenire potrà prevedersi per indizi, senza certezza.»
Un viandante, che avevano incontrato all’entrata della stretta via tenebrosa, tornò indietro e ripassando accanto alle signore, le guardò fisso. Jeanne pretese di aver paura di quell’uomo, si fermò, chiamò Carlino, propose di ritornare a casa. La sua voce era veramente alterata ma Carlino non poteva credere che avesse paura. Paura di che? Non vedeva là davanti, a pochi passi, i lumi della Grande Place? Egli conosceva, del resto, quell’uomo e lo avrebbe posto nel suo romanzo. Era il fratello di Edith dal collo di cigno, ora spirito delle tenebre, condannato a vagare la notte per le vie di Bruges, in pena di avere tentata la seduzione di Santa Gunhild, sorella di re Harold. Ogni volta che Carlino si era avventurato la notte per i quartieri più deserti di Bruges, aveva veduto aggirarvisi come a caso quell’uomo sinistro.
«Bel modo» fece Noemi «di rassicurare la gente!»
Carlino si strinse nelle spalle e dichiarò che l’incontro era stato fortunato perché gli aveva fatto venire in mente il nome di Gunhild per la sua eroina, Noemi essendo un nome da suocera.
Nell’ombra nera delle Halles enormi, torreggianti da manca sulla via, l’uomo sinistro ritornato sui suoi passi sfiorò quasi il fianco di Jeanne che stavolta rabbrividì davvero. In quel mentre le innumerevoli campane suonarono fra le nubi sopra il suo capo.
Ella strinse convulsivamente, senza parlare, il braccio di Noemi. Attraversarono la piazza in silenzio. Carlino le mise per una via a sinistra, pure deserta ma tutta chiara della luna imminente ai dentati culmini bruni delle case. Jeanne mormorò alla sua compagna:
«Affrettiamo, ritorniamo a casa presto».
Ma Carlino, udendo un suono di musica da ballo venire dall’Hôtel de Flandre, ordinò loro di fermarsi e diede di piglio al taccuino. Noemi stava dicendo qualche cosa sull’Hôtel de Flandre dove aveva alloggiato anni prima, quando Jeanne le domandò di scatto:
«È Maria che ti scrive una storia tanto lunga?»
Noemi rispose, non sorpresa ma piuttosto trepidante:
«Sì, Maria.»
«Non capisco,» replicò Jeanne «perchè si sia presa tutta questa briga.»
Noemi non rispose. Carlino diede l’ordine di rimettersi in cammino. S’incamminarono e Noemi non parlava.
«Eh?» riprese Jeanne. «Perchè si sarà presa tutta questa briga?»
Noemi non parlò. Jeanne le scosse il braccio che teneva ancora.
«Non rispondi? Cosa pensi?»
Benchè ambedue, ora, tacessero, non udirono Carlino che gridava di piegare a sinistra. Egli sopraggiunse arrabbiato, le spinse, tempestando, per le spalle, alla volta di un’altra via, ed esse ubbidirono senz’accorgersi mai di quelle voci nè di quel modo.
«Non rispondi?» ripetè Jeanne fra risentita e attonita.
Noemi le strinse il braccio alla sua volta.
«Aspettiamo di essere a casa» diss’ella.
Carlino gridò:
«Fermatevi sotto gli alberi!»
Ma Jeanne si fermò subito, nell’affacciarsi a un improvviso largo, a piccoli alberi, a un gran fianco di cattedrale vetusta, battuto dalla luna. Si fermò e allungando il braccio che teneva sotto quello di Noemi, le afferrò la mano, le disse vibrando affannosamente:
«Noemi, dimmelo subito; hai raccontato qualche cosa a tua sorella?»
Carlino gridò che potevano fermarsi anche lì, ma che simulassero un discorso interessante.
Noemi rispose all’amica un sì così debole, così timido, che Jeanne capì tutto. Maria Selva credeva che il suo frate, questo don Clemente, fosse Piero Maironi.
«Oh, Signore!» esclamò stringendo forte forte la mano di Noemi. «Ma lo dice, lo dice, anche?
«Cosa?»
«Eh, cosa!»
Santo cielo, che ci voleva per farla parlar chiaro, questa creatura? Jeanne si sciolse da lei che subito, spaventata, le si riappiccò al braccio.
«Brave!» gridò Carlino. «Ma non troppo!»
«Perdonami!» supplicò Noemi. «È un dubbio, dopo tutto, è una congettura. Sì, lo dice.»
«No!» fece Jeanne, risoluta, scotendo via il dubbio e la congettura. «Non è lui, non è possibile. Non è mai stato musicista!»
«No, no, non sarà lui, non sarà lui» si affrettò a dire a Noemi, sotto voce, perchè veniva Carlino. Questi sopraggiunse, lodò, espresse il desiderio che si inoltrassero lentamente fra gli alberi.
Sotto gli alberi Jeanne si dolse, quasi sdegnosamente, che l’amica avesse aspettato quel momento a farle un discorso simile, che non avesse parlato prima, in casa. E tornò a protestare che questo benedettino non poteva essere Maironi, che Maironi non era mai stato musicista. Noemi si giustificò. Aveva avuto in animo di parlare al ritorno dall’Ospitale di S. Giovanni, dalla visita ai Memling, ma Jeanne era già tanto triste! Però ne avrebbe parlato se non fosse venuto Carlino. E ora, a passeggio, interrogata, non aveva saputo schermirsi. Se, quando erano ferme presso l’Hôtel de Flandre, Jeanne non avesse ricondotto il discorso a quel tema, sarebbe stata cosa finita; e lei, Noemi, non ne avrebbe riparlato che a casa.
«E tua sorella crede proprio…?» disse Jeanne.
Ecco, Maria dubitava. Pareva che il più persuaso fosse Giovanni. Giovanni era certo; almeno Maria scriveva così. A questa risposta di Noemi Jeanne scattò. Come poteva esser certo, suo cognato? Che ne sapeva? Maironi non era capace di metter giù un accordo, sul piano. Ecco la bella certezza! Noemi osservò sommessamente che in tre anni poteva avere imparato, che i frati hanno interesse a educare i musicisti per l’organo.
«Allora lo credi anche tu?» esclamò Jeanne. Noemi balbettò un non so così incerto che Jeanne, agitatissima, dichiarò di voler partire subito per Subiaco, di voler sapere. C’era già l’intelligenza con Maria Selva di condurle sua sorella. Adesso penserebbe lei a persuadere Carlino di partire immediatamente. Noemi si mostrò spaventata. Suo cognato non avrebbe voluto che la Dessalle venisse più a Subiaco, tanto per la pace di lei quanto per la pace di don Clemente. Noemi aveva la missione di farle comprendere la convenienza di una tale rinuncia. Selva era guarito e offriva di venir lui a prendere la cognata; anche nel Belgio, se fosse necessario. Ella si trovò a combattere, intanto, l’idea di partire subito. Non fece che irritare Jeanne, la quale protestò e riprotestò che i Selva s’ingannavano; nè seppe dare altra ragione del suo violento resistere. Carlino, udito un aspro «basta!» di sua sorella, accorse. Litigavano, il prete e la signorina? Adesso che dovevano cominciare le tenerezze mistiche?
«Ci lasci in pace» rispose Noemi. «A quest’ora il Suo prete di novant’anni sarebbe morto dieci volte di stanchezza. Non ci dia più ordini. Guiderò io, che conosco Bruges meglio di Lei. E Lei stia cento passi indietro.»
Carlino non seppe replicare che «oh oh! – oh oh! – oh oh!» e la D’Arxel si portò via Jeanne avviandosi lungo la cancellata del piccolo cimitero di Saint-Sauveur. Le parve giunto il momento di metter fuori l’ultima rivelazione.
«Credo che Giovanni abbia ragione, sai» diss’ella. «Questo don Clemente è di Brescia.»
Allora Jeanne, presa da un impeto di dolore, cinse con un braccio il collo dell’amica, ruppe in singhiozzi. Noemi, atterrita, la supplicò di chetarsi.
«Per amor di Dio, Jeanne!»
Questa le domandò, fra un singhiozzo soffocato e l’altro, se Carlino sapesse. Oh no, ma che direbbe adesso?
«Qui non può vedere» singhiozzò Jeanne.
Erano nell’ombra della chiesa. Noemi ammirò che Jeanne, in preda a quell’emozione, se ne fosse accorta.
«Per carità, non sappia niente! Per carità!»
Noemi promise di non parlare. Jeanne si venne a poco a poco chetando e fu la prima a muoversi. Ah esser sola, esser sola nella sua camera! La vista della torre di Notre Dame saettante il cielo con la guglia affilata le fece male come la vista di un nemico vincitore e implacabile. Lo comprendeva bene adesso, si era illusa per tre anni di non avere più speranza. Come soffriva e si dibatteva la sua speranza creduta morta, come si ostinava a tempestarle nel cuore: no, no, non si è fatto frate, non è lui! Ella strinse con uno spasimo di desiderio il braccio di Noemi. Lo voce consolatrice si affievolì, venne meno. Probabilmente era lui, probabilmente tutto era proprio finito per sempre. Il silenzio della notte, la tristezza della luna, la tristezza delle vie morte, un’aria gelida che si era levata, consentivano con i pensieri amari.
Oltrepassata di poco Notre Dame, ecco ancora scivolare lungo il muro, dalla parte ombrosa della via, l’uomo sinistro. Noemi affrettò il passo, desiderosa ella pure di arrivare a casa. Quando Carlino si avvide che le signore andavano diritte alla villetta invece di pigliare il ponte che conduce all’altra sponda del Lac d’amour, protestò. Come? E l’ultima scena? Avevano dimenticato? Noemi voleva ribellarsi, ma Jeanne, trepidante che Carlino venisse a scoprire qualche cosa, la pregò di cedere.
«Sul ponte» gridò Carlino «fermatevi due minuti!»
Si appoggiarono alla sbarra, guardando l’ovale specchio dell’acqua immobile. La luna si era nascosta dietro le nuvole.
«Questa illunità è divina per me» disse Carlino. «Ma ora io darei metà della mia gloria futura perchè nelle nuvole si aprisse una piccola finestra con una piccola stella nel mezzo, che si potesse veder nell’acqua. Voi non sapete immaginare come mi verrà quest’ultimo capitolo. Sentite. Sul quai du Rosaire voi guardavate i cigni.»
«Ma non c’erano» interruppe Noemi.
«Non importa» riprese Carlino «voi guardavate i cigni illuminati dalla luna.»
«Ma la luna non batteva sull’acqua» fece ancora Noemi.
«Ma che importa?» replicò Carlino, seccato. E siccome Noemi osservò che allora era inutile di trascinarle attorno per Bruges a quell’ora, egli paragonò poeticamente il suo studio preparatorio, le sue note quasi fotografiche, all’aglio che in cucina serve ma in tavola non si porta. E continuò a dire dei cigni e della luna.
«Voi avete allora paragonato il candor vivente e il candor morto. Il vecchio prete viene fuori con questa squisita cosa che forse il candore vivo della giovinetta s’irradia ai suoi pensieri scolorati come i suoi capelli da un principio di morte e ch’egli si sente ora nell’anima un’alba di candore tepido. Mormora poi fra sè involontariamente: «Abisag». Allora la fanciulla dice: «Chi è Abisag?» perchè è ignorante come voi due che non conoscete chi è Abisag, il mio primo amore. Il prete non risponde, si avvia con la ragazza per la rue des Laines. Ella domanda ancora chi sia Abisag e il vecchio tace. Ecco quell’ombra torva, nera, che va, che viene, che si dilegua al suono delle ventiquattro campane.
«Non è esatto» mormorò Noemi. Carlino fu per dirle: stupida!
«Il prete» proseguì «paragona quell’ombra nera a uno spirito maligno che va e viene intorno agli spiriti candidi, voi non capite il legame ma il legame c’è, avido di cacciarvisi a star dentro, lui con altri peggiori di lui. Poi, qui il legame non l’ho ancora trovato ma lo troverò, si viene a parlar dell’amore. Voi avete traversato la Grande Place. Questa sera non c’era la musica, ma di solito c’è, e suppongo che allora vi si faccia molto all’amore cogli occhi come in tutto il mondo. Il vecchio torrione e il vecchio prete mostrano certa indulgenza; invece la giovinetta trova stupide queste forme dell’amore, le sdegna. È l’amore della terra, dice il prete. Ed ecco l’Hôtel de Flandre, la musica del ballo di nozze.
«Come?» esclamò Noemi «Era un ballo di nozze?»
Carlino strinse, scrollò i pugni, soffiando dall’impazienza; e proseguì, dopo un sospiro:
«La giovinetta domanda: vi è un amore del cielo? Allora io vi ho detto di fermarvi sotto gli alberi di Saint-Sauveur e voi vi siete invece fermate all’entrata della piazza. Fa niente, si vedeva la cattedrale, basta. Il prete risponde: sì, vi è un amore del cielo. La maestà della cattedrale antica, della notte, del silenzio, lo esalta. Egli parla. Io non posso dirvi adesso la sua tirata, l’ho in mente assai confusa, ma insomma il succo è questo che anche l’amore del cielo nasce sulla terra e che non vi matura mai. Il vecchio si lascerà andare quasi a delle confessioni. Confesserà col petto ansante, colla parola accesa, di aver sentito, non particolari inclinazioni a persone, nè inclinazioni da doversene vergognare, ma un’aspirazione intellettuale e morale a congiungersi con una femminilità incorporea che fosse complemento dell’essere suo incorporeo, restandone però insieme tanto divisa da poter intercedere amore fra l’una e l’altro.»
«Misericordia!» mormorò Noemi. Carlino si era tanto riscaldato che non la udì.
«Pare al vecchio» diss’egli «d’intravvedere in questa unione una trinità umana simile alla Trinità divina e trova quindi giusto, trova santo che l’uomo vi aspiri. Finalmente egli tace, tutto pieno, tutto fremente delle cose che ha dette; e s’incammina verso Notre Dame. La fanciulla gli prende il braccio. Ecco l’uomo sinistro, lo spirito tentatore. Lo avete ben veduto! Dite se tutto questo non è ben trovato, non è combinato bene! Il vecchio e la fanciulla lo sfuggono, ma, come il cielo, anche il loro cuore si oscura. Adesso mi occorrerebbe un finestrino nelle nuvole, una stellina nel mezzo. Il vecchio e la fanciulla guarderebbero silenziosi la stellina tremolare nel Lac d’amour e tanti movimenti segreti dei loro pensieri metterebbero capo a quest’idea: forse, oltre le nuvole della Terra, là, in quel mondo lontano!»
Jeanne non aveva mai detto parola nè mostrato di fare attenzione al racconto di suo fratello. China sulla sbarra, guardava nell’acqua scura. A questo punto si rizzò impetuosamente.
«Ma tu non lo credi!» esclamò. «Tu lo sai che sono illusioni, sogni! Tu non vorresti mai che io credessi così! Saresti capace di cacciarmi!»
«No!» protestò Carlino.
«Sì! E per fare della bella letteratura ti metti a fomentare anche tu questi sogni che snervano già tanto la gente, che sviano già tanto dalla vita vera! Non mi piace niente! Un incredulo come te! Uno persuaso, come sono persuasa io, che noi siamo bolle di sapone, che si brilla un momento e poi si ritorna non nel niente ma nel Tutto!»
«Io?» rispose Carlino, intontito. «Io non sono persuaso di niente. Io dubito. È il mio sistema, lo sai bene. Se adesso uno mi dicesse che la religione vera è quella dei Cafri o quella dei Pelli Rosse, direi: forse! Non le conosco! Io vedo la falsità di quelle che conosco e per questo non vorrei certo che tu diventassi cattolica sul serio. Cacciarti di casa, poi...!»
«Intanto ci posso andare, prima di esserne cacciata?»
Così dicendo, Jeanne prese il braccio di Noemi. Carlino pregò che facessero il giro del Lac d’amour. Chi sa, forse intanto si aprirebbe il finestrino nel cielo. Ci teneva. Noemi espresse il dubbio, ricordando la conversazione di poche ore prima, che alla finestra ci venisse proprio la signorina Fomalhaut.
«Già» fece Carlino, pensieroso. «Non avevo più pensato a Fomalhaut. Se non sarà Fomalhaut adesso, sarà Fomalhaut allora.»
Ma Noemi non aveva finito con le sue difficoltà. Se alla finestra non ci venisse nessuna stella, nè grande nè piccola? A questo, Carlino trovò subito rimedio. La stella ci sarà. Potrà essere telescopica, perduta in una profondità immensa, ma ci sarà. La fanciulla non la vede; la vede il prete, con i suoi occhi di presbite decrepito. Dopo la vede anche la fanciulla, per fede.»
«E così quella povera fanciulla» disse Jeanne amaramente «sulla fede di un vecchio prete mezzo cieco vedrà delle stelle che non ci sono, perderà il suo buon senso, la sua giovinezza, la sua vita, tutto. La farai bene seppellire lì al Béguinage, dopo?»
E si avviò con Noemi senz’attendere la risposta.
Fatto il giro del Lac d’amour, le due signore si trattennero lungamente sull’altro ponte; ma nessun finestrino si aperse nel cielo. Il torrione lontano delle Halles, il campanile enorme di Notre Dame, una tozza torre imminente allo stagno, gli acuti comignoli del Béguinage si disegnavano, venerabile concilio di alti vecchioni, sulle nubi lattee. Carlino, non potendo far di meglio, incominciò un ragionamento ad alta voce sul posto più opportuno per la sua finestra.
«Che giorno è oggi?» chiese Jeanne all’amica, sotto voce.
«Sabato.»
«Domani parlo a Carlino, lunedì e martedì si regolano tante cose, mercoledì si fanno i bagagli e giovedì partiamo. Puoi scrivere a tua sorella che saremo a Subiaco l’altra settimana.»
«Non decidere così! Pensaci!»
«Ho deciso. Voglio sapere. Se è lui, non lo impedirò nel suo cammino. Ma voglio vederlo.»
«Ne riparleremo domani, Jeanne. Non decidere ancora.»
«Ho pensato e ho deciso.»
Mezzanotte suonò al torrione delle Halles; suonò nelle nuvole, a lungo, il solenne canto malinconico delle innumerevoli campane. Noemi, che prima voleva insistere, tacque, piena il cuore di sgomento; come se quelle malinconiche voci del cielo notturno parlassero a lei di un destino dell’amica sua, di un destino di amore e di dolore, che si dovesse compiere.