< Il Sofista e l'Uomo politico
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Platone - Il Sofista e l'Uomo politico (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Giuseppe Fraccaroli (1911)
Capitolo II — Analisi
I III



CAPITOLO II.


Analisi.




Sommario: 1. Ricapitolazione del Sofista. — 2. Ricapitolazione dell’Uomo politico.


1. I riassunti dei libri in generale servono piuttosto a distogliere dal leggerli che non a invogliarne i frettolosi. Nel nostro caso speciale per altro una ricapitolazione per quanto è possibile chiara mi pare indispensabile: in un’argomentazione così densa e involuta importa sopra tutto fissar bene i capi saldi del discorso e le idee direttive secondo le quali è condotto.

Che cosa è il sofista? Poichè non è facile rispondere, per vedere innanzi tutto come la questione s’ha a porre, facciamo una prova sopra un’altr’arte, un’arte facile e piana: poniamo la pesca alla lenza (pp. 218 E-219 A). Che arte è la pesca alla lenza? Le arti sono o produttive di ciò che non c’è, o acquisitive di ciò che c’è già (p. 219 C). La pesca alla lenza è arte acquisitiva. Ma l’arte acquisitiva si divide in permutativa e costrittiva (p. 219 D); e così di seguito si continua a dividere sempre la seconda sezione ottenendo questa serie: arte della caccia, caccia di vivi, caccia di natanti, pesca, pesca percussoria, pesca con gli uncini. Finalmente scendendo per tutte queste divisioni siamo giunti a sapere che cos’è la pesca alla lenza: essa è un’arte acquisitiva, costrittiva, ecc. ecc. (p. 221 B).

Applichiamo questo metodo al sofista. Egli è dello stesso genere del pescatore alla lenza, e nella serie che abbiamo veduto li troviamo tutt’e due sotto l’arte della caccia di animali vivi (p. 222 A). Ma a partire da questo punto si separano. Invece che alla caccia di acqua il sofista si rivolge a quella di terra, e giù giù alla caccia dei domestici non a quella dei selvatici, alla caccia persuasiva non alla violenta, a quella che si fa in privato non a quella che in pubblico, a quella che guadagna non a quella che dona; finalmente siamo all’ultima suddivisione, e abbiamo l’adulatore e il sofista: l’adulatore piaggia per cavarne il suo mantenimento, il sofista fa professione d’intrattenere a scopo di virtù per trarne denari; e questa è la prima definizione che si dà di questo animale (p. 223 A-B).

Ma si può prender la cosa sotto un altro aspetto. Torniamo indietro e invece di bipartire l’arte costrittiva dividiamo la permutativa, o, come qui la si chiama, l’arte degli scambi:1 avremo quella che dona e quella che commercia, e di questa seconda il commercio dei prodotti propri e la permuta dei prodotti altrui, di questa alla sua volta la permuta spicciola sul luogo e la mercatura in grande da città a città, quindi mercatura di ciò che serve al corpo e mercatura di ciò che serve all’anima, cioè importazione ed esportazione di arti e di scienze: da ultimo, dividendo quest’ultima, abbiamo la mercatura delle cognizioni tecniche e la mercatura di virtù e di discorsi. Questa è la sofistica (p. 224 C-D): seconda definizione.

Così nulla vieta che si possa dire sofista anche lo spacciatore al minuto di questi stessi prodotti, sieno essi suoi propri2 (terza definizione), o accattati da altri (quarta definizione).

Similmente l’altra sezione dell’acquisitiva corrispondente all’arte della caccia era l’agonistica: ora continuando a bipartir questa con lo stesso metodo arriviamo all’arte disputatoria, la cui sottospecie lucrativa è ancora l’arte del sofista, ed è questa la quinta definizione (p. 226 A).

La sesta definizione muove da un punto di partenza un po’ diverso. Si comincia dall’arte discriminativa che comprende quante hanno per iscopo lo sceverare e lo scegliere; e continuando a bipartire si ha l’arte che divide il simile dal simile, e quella che divide il migliore dal peggiore, quindi la purificazione del corpo e quella dell’anima. Ma come il corpo può esser contaminato da malattia o da bruttezza, così l’anima da malvagità o da ignoranza, e perciò a purificazione del corpo abbiamo la ginnastica e la medicina, dell’anima la giustizia punitiva e la didascalica. E come c’è ignoranza semplice e sciocchezza, che è il creder di sapere ciò che non si sa, così della didascalica abbiamo due sezioni, insegnamento di cose ed educazione, e dell’educazione due parti, ammonizione e confutazione. Quelli che professano la confutazione parrebbe dovessero essere i sofisti, se non ci fosse pericolo di sbagliarsi di grosso, perocchè anche il lupo somiglia al cane: chiamiamoli sofisti di sangue nobile (p. 231 B).

A questo punto si sosta e si ricapitola, per conchiudere che quando uno che si chiama col nome di un’arte sola apparisca intendente di molte, la cosa zoppica, perchè è segno che sfugge quel punto in cui tutte queste molte arti convergono e che è cagione del nome unico col quale si chiamano (p. 232 A).

Ripigliamo dunque la ricerca e rifacciamoci dalla definizione quinta, ove era detto che il sofista avea l’arte del contraddire.3 Insegna egli dunque a contraddire su tutto? Fa appunto professione di ciò. In tal caso egli dovrebbe saper tutto; e questo è impossibile. E come allora avviene che riescano a dare ad intendere di sapere insegnare quest’arte? Gli è che essi pajono sapere e non sanno. Come è che pajono? (p. 233 C).

Prendiamo un esempio più chiaro. Invece del saper contraddire, prendiamo il saper fare, e poniamo uno che professi di saper far tutto, gli animali, la terra, il cielo, gli Dei, noi che parliamo. Uno scherzo? Sia pure. Per mezzo delle arti grafiche, per esempio, egli può imitar queste cose, e mostrando i disegni da lontano ingannar gli inesperti. Ebbene, come gli occhi con false immagini, così si possono ingannar gli orecchi con falsi discorsi. E poichè il sofista imitando inganna, egli è dunque un incantatore e un imitatore, in altre parole un giocoliere (p. 235 A). Potremmo contar questa come una settima definizione.

Per coglierlo poi nella sua caratteristica più particolare, si procede col solito metodo alla bipartizione dell’arte imitativa. E subito ne abbiamo due specie, quella che copia secondo le esatte misure e quella che rende le parvenze, e le misure le altera. Una statua sopra una colonna dev’essere più lunga del naturale perchè la si vede di sotto in su. L’arte del sofista è di questa specie seconda? (p. 236 C).

A questo punto il Forestiero si ferma, perchè gli si para innanzi una difficoltà, la soluzione della quale occupa il resto del dialogo, anzi ne è la parte sostanziale e capitale.

Si è parlato di parere e non essere, di dire bensì ma non di dire il vero: ma si può egli pensare o dire che il falso esista? (p. 236 E). Ecco il problema.

Esso dopo un lungo ragionamento viene risolto affermativamente: il falso è, e lo si dimostra provando che le specie-idee, come l’Essere e il Non essere, sono associabili tra loro, di guisa che anche ciò che non è in un certo senso poi sia. E si procede a questo modo.

Innanzi tutto si cerca di definire la natura di ciò che non è. Parmenide negava che ciò che non è possa mai essere. Aveva ragione? Mettiamoci dal suo punto di vista.

L’espressione ciò che non è noi la adoperiamo tutti i giorni: ebbene, di che si può predicare il Non essere? Nè si può riferirlo ad alcuna cosa che è, nè si può soltanto dire Non essere senza dire insieme qualche cosa. Ora colui che volesse provarsi a enunciare ciò che non è, non potendone dir qualche cosa, è necessario che dica niente (p. 237 E). Ma, non che enunciarlo, al Non essere non potremo neanche attribuire alcun’altra delle cose che sono. Dunque neanche il numero.4 Eppure disinvoltamente gli attribuisco l’uno, quando dico ciò che non è, o la pluralità, quando dico le cose che non sono. E così gli attribuisco l’essere quando dico che è5 inesprimibile. E così via (p. 239 A).

Se di tal difficoltà per questa via non se n’esce, altre ancora ne sa opporre il sofista: poichè l’abbiamo detto facitore d’immagini, poniamo ch’egli ci domandi che cosa intendiamo per immagine. Quelle che si vedono negli specchi, o le cose dipinte o plasmate, risponde Teeteto. Ma il Forestiero vuole non un’enumerazione di casi singoli, ma una definizione che li comprenda tutti quanti. Immagine è dunque, risponde il giovane, ciò che è rappresentato a somiglianza del vero sì da essere un altro tale. Ma quest’altro tale è un altro tale vero? No, se ha da essere immagine. Dunque l’immagine non è veramente; ma in quanto è immagine è però immagine vera: ciò che non è, in qualche modo è (p. 240 C), almeno a sentire questo discorso. E quando l’anima nostra illusa dall’arte del sofista opina falsamente, essa o crede che ciò che non è in qualche modo sia, o crede che non sia in alcun modo ciò che assolutamente è; e l’uno e l’altro è discorso falso (p. 240 E).

Bisogna dunque, con tutto il rispetto, impugnare l’affermazione di Parmenide e cercar di dimostrare che ciò che non è per un certo rispetto è, e che ciò che è in un certo senso non è (p. 241 D). Premesse pertanto alcune considerazioni sulle diverse scuole filosofiche e sulla loro discordia nella concezione dell’Essere, che alcuni vogliono sia uno, altri due, altri tre, e su altre divergenze (p. 243 C), si affronta la questione: che cosa è l’Essere? E si procede così: voi che ammettete che vi sieno due principî, per esempio il caldo e il freddo, l’Essere che predicate di loro, lo ammettete voi per un terzo elemento oltre i due? Allora sono tre. O li chiamate Essere tutt’e due? Allora l’Essere è uno, e comprende sotto di sè gli altri due (p. 244 A). E voi che ritenete che l’Essere sia uno, lo chiamate dunque Essere ed Uno, due nomi, mentre avete detto che non ci può essere che un Essere solo. Ma non che due neanche un nome affatto si può ammettere che sia, poichè o è diverso dalla cosa, e son due, o è identico, e non è niente (p. 244 D). In altre parole, dell’Uno assoluto non si può predicar niente, perchè ogni predicazione sarebbe un’altra cosa, e l’uno per tal modo diverrebbe più.6 Ancora, poichè gli Eleatici identificano l’Uno col Tutto, e Parmenide attribuisce al Tutto la forma di una sfera, esso ha dunque mezzo ed estremità, quindi ha parti. Ora ciò che ha parti può bensì nel suo intero partecipare dell’uno ma non è l’Uno (p. 245 A): e se l’Essere è uno (o il Tutto) per partecipazione soltanto, esso non è lo stesso che l’Uno. Se poi l’Essere non è il Tutto (o l’Uno) perciò che ne partecipi, e viceversa il Tutto veramente è, l’Essere ci risulterebbe deficente in sè stesso, mancandogli quella parte che è nel Tutto; in altri termini l’Essere diverrà Non essere. Oltre di ciò se l’Essere e il Tutto hanno ciascuno una natura sua propria, eccoci di nuovo ancora al più. Viceversa poniamo che il Tutto non sia affatto: in tal caso non può essere neanche l’Essere, e nemmeno può divenir tale, e questo perchè tutto ciò che è o che diviene, è o diviene come un tutto (p. 245 E). A ritener dunque l’Essere come unità assoluta secondo la dottrina degli Eleati non si fa che passare di contraddizione in contraddizione, e lo si era visto già nel Parmenide: l’unica via di uscita, vedremo poi, è ammetter la comunione delle idee.

E per gli Eleatici questo basti. Vediamo ora se la questione ci torni solubile secondo l’una o l’altra delle due scuole opposte, i materialisti e gli idealisti. I primi non si fidano che dei sensi, e dicono che non esistono se non i corpi, e che corpo e sostanza sono la stessa cosa; i secondi invece affermano che la vera sostanza sono le idee intelligibili, e che i corpi non sono ma divengono. Cominciamo dai primi, ammettendo per un momento che con loro si possa ragionare, il che effettivamente il più delle volte non accade. E ragioniamo così. Ogni animale è animato: se è animato vuol dire che ha un’anima: quest’anima può essere o giusta o ingiusta, o savia o sciocca, e questo avviene per la presenza o per l’assenza della giustizia e della saggezza e viceversa: ora ciò che può aggiungersi o non aggiungersi ad un’altra cosa è qualche cosa: la giustizia dunque è qualche cosa: non vorranno però dire che essa sia corpo (p. 247 B). Ma posto che si impuntino a perfidiare, stringiamoli più da vicino: ci basta di far loro ammettere che c’è una cosa qualsiasi incorporea, per quanto possa esser piccola. Ciò posto domandiamo loro quale è la natura comune che essi scorgono nelle cose per la quale dicono che sono; in altre parole che cosa intendono per essenza o sostanza. Sono imbrogliati? Soccorriamoli. E proponiamo provvisoriamente questa definizione. Essere è ciò che ha capacità di patire o di fare: ciò che è non è dunque altro che potenzialità (p. 248 A).

Lasciamo per un momento costoro e passiamo agli amici delle idee. Questi distinguono l’Essere e il divenire, e dicono che col corpo per mezzo della sensazione noi siamo partecipi del divenire, con l’anima per mezzo del ragionamento dell’Essere. Ora questo partecipare è il patire e fare di che abbiamo detto ora? Lo ammettono per il divenire, ma non lo concedono per l’Essere, per ciò che l’Essere, per sua natura, dicono essi, sia sempre immobile. A questo noi possiamo invece opporre, che se è vero che l’anima conosce e la sostanza è conosciuta, quando si ammetta che il conoscere è essere attivo, ne verrà di conseguenza che esser conosciuto per la sostanza è in certo modo esser passiva, e che in quanto è passiva in tanto si muove (p. 248 E). Ma non solo la passività si dà nell’Essere, ma altresì deve esserci l’attività: com’è possibile che ciò che compiutamente è non abbia nè moto nè vita nè anima nè pensiero, ma stia là immobile e senza intendimento? Se pensa, si muove, poichè il pensiero è movimento. Se infatti tutte le cose fossero immobili, non ci sarebbe intendimento per nessuna. Ma così del pari avverrebbe se fossero tutte sempre in moto, appunto perchè ciò che ha da essere sempre allo stesso modo richiede lo stare; bisogna dunque ammettere nell’Essere tanto la quiete quanto il moto (p. 249 D).

E qui ci imbattiamo subito in una gran difficoltà. Moto e quiete abbiamo detto che sono: ma poichè sono due cose oppostissime, come si ha da intendere? Appunto non che stanno tutt’e due, non che si muovono tutt’e due, ma che sono: c’è dunque una terza cosa oltre il moto e la quiete, diversa e comune a tutt’e due, ed è l’Essere. L’Essere dunque nè sta fermo, nè si muove? È mai possibile pensar ciò? (p. 250 D).

Per veder di risolvere una tal difficoltà bisogna rifarci da un altro punto.

E vediamo se e come si possano predicare diversi nomi di una stessa cosa. Noi parliamo per esempio dell’uomo, e diciamo che è buono, che è bello, eccetera, eccetera; la cosa è una e i nomi son molti, e perciò vi sono dei poveri di spirito che si impuntano a volere che, non essendo possibile che l’uno sia molti e che i molti sien uno, non si possa dire l’uomo buono, ma solo l’uomo uomo e il buono buono, e niente più (p. 251 C).

Si propone dunque la questione della comunicabilità delle specie, la novità teorica per la quale il Sofista si segnala tra tutti i dialoghi platonici. Forse che le specie tutte sono insociabili tra di loro e perciò l’Essere non può essere attribuito nè al moto nè alla quiete, nè alcun’altra cosa ad alcun’altra? O sono tutte comunicabili tra di loro? O alcune sì ed altre no? Data la prima ipotesi non ci potrebbero essere nè lo stato nè il moto, poichè essa appunto li esclude dall’Essere; e analogamente si dica del resto: data la seconda il moto dovrebbe insieme stare e lo stato muoversi (p. 252 D): rimane la terza. E come delle lettere dell’alfabeto alcune possono combinarsi insieme nella parola e alcune no, e altre finalmente (le vocali) possono entrare da per tutto e servono anzi di legame tra gli altri elementi, così è delle specie o idee. Solo occorre anche qui scienza per distinguere quali consuonano tra loro e quali no, e se ve ne siano di quelle che si insinuino in mezzo a tutte (p. 253 C). Questa scienza è quella del classificare e coordinare, e chi la possiede sa che vi sono gruppi di cose che sono abbracciati da un’idea (specie in senso proprio), gruppi di idee abbracciati da un’idea superiore (generi), e così via.7 E chi sa distinguere secondo specie è il filosofo; e l’abbiamo scoperto prima del sofista, perchè egli si aggirava nella luce, talora abbagliante, di ciò che è, mentre il sofista si nasconde nelle tenebre di ciò che non è (p. 254 B).

Per veder dunque se vi sieno delle specie o idee comunicanti con tutte le cose, esaminiamone alcune di quelle che pajono più grandi, e precisamente quelle di che or ora si parlava, l’Essere, la quiete ed il moto. Le due ultime non sono comunicabili tra loro, la prima sì, con tutt’e due. Sono dunque tre cose, diversa ciascuna dalle altre due e identica con sè stessa. Ma così abbiamo nominato l’identico e il diverso: or son questi due specie comunicanti con le prime tre, o soltanto due altri nomi di quelle prime specie? Si dimostra facilmente che sono due specie nuove, e così in tutto sono cinque (p. 255 E). Vediamone i rapporti reciproci.

Il moto è diverso dalla quiete, quindi non è quiete: ma in quanto partecipa dell’Essere esso è. Allo stesso modo il moto è l’identico e non è l’identico, è il diverso e non è il diverso. E quanto alla quarta specie cioè all’Essere? La questione non è di vedere se il moto partecipi dell’Essere, chè questo lo abbiamo già ammesso, ma se non si dia mai il caso che non ne partecipi, cioè ne sia diverso, come appunto s’è ora dimostrato per le altre tre specie. Ora se il moto non fosse mai diverso dall’Essere, moto ed Essere sarebbero una cosa sola, il che abbiamo visto essere impossibile: dunque il moto è anche Non essere. Si conclude anzi che e per il moto e similmente per le altre specie si dà molto Essere ma molto più Non essere, in parole nostre, che ogni specie ammette molti predicati, ma molti più ne esclude (p. 256 E). E ciò che si dice del moto si dica dell’Essere stesso: l’Essere, per quante specie si dànno da esso diverse, per altrettante non è. Badisi bene per altro: ciò che non è non vuol dire il contrario di ciò che è, ma semplicemente il diverso, la negazione (p. 257 C).

E poichè la natura del diverso si fraziona tante volte quante sono le cose, e per ciascuna cosa ha un titolo suo proprio, per esempio, al bello corrisponde il non bello, così questo diverso, questo non bello, non è diverso, non è non bello, se non rispetto alla natura del bello, ma in sè stesso è qualcosa di reale: il bello e il non bello sono dunque contrapposizione di Essere contro Essere; così il grande e il non grande e così via. Insomma, poichè la natura del diverso è tra le cose che sono, così dev’essere anche delle sue parti. Perciò non ci peritiamo di affermare che la negazione dell’Essere (la quale è dunque il Non essere che andavamo cercando) non è meno Essere dello stesso Essere, ed è perciò una specie-idea. Si badi bene per altro: se il Non essere fosse il contrario dell’Essere, noi non diremmo che è, ed è in mala fede chi vuol farcelo dire: noi diciamo che il Non essere è perchè è diverso dall’Essere; e poichè si identifica col diverso, appunto per questo insieme è, come viceversa l’Essere, in quanto del diverso partecipa, insieme anche non è (p. 259 B). Quando dunque si parla dell’Essere e del Non essere, dell’identico e del diverso, bisogna badare sempre in che senso se ne parli, per non far delle inutili logomachie e sotto il pretesto che i contrari non si conciliano negare la comunicazione delle specie (p. 259 D).

Il negarla è sopprimere il discorso, al quale siamo giunti appunto per mezzo di essa: infatti solo accostando un concetto ad un altro si può ragionare; e togliere il discorso è sopprimere la filosofia (p. 260 B).

Se dunque anche il discorso è una delle specie che sono, vediamone ora la natura. Il Non essere, s’è fatto constare, si trova sparso in tutte le cose: si mischierà dunque anche all’opinione e al discorso? Se non si mischia, tutte le cose sono vere; se si mischia, ne nasce l’opinione falsa e il discorso falso. Ora il sofista aveva impugnato appunto che il falso fosse, poichè negava l’esistenza del Non essere: dopo ciò che si è dimostrato per altro, questa non la potrebbe più negare; potrebbe soltanto sostenere che il discorso e l’opinione sono di quelle specie che non si comunicano, e senza tal comunanza non potersi dar falsità. Vediamo dunque che cosa sono opinione e discorso, e facciamo un passo alla volta (p. 261 C). Di soli nomi messi in fila non si fa discorso, e così neppure di soli verbi, ma sì di nomi e di verbi: dunque anche le parole, come le cose, parte stanno insieme e parte no (p. 262 D). Oltre di ciò il discorso, per essere discorso, bisogna che sia discorso di qualche cosa. Ora di questa cosa nel discorso possiamo dire il vero, ciò che è, come Teeteto siede, oppure il diverso di ciò che è, come Teeteto vola, e chi dice ciò che non è come se fosse, dice il falso, e il suo è discorso falso (p. 263 D). Ebbene, il pensiero non è altro che un discorso tacito che l’anima fa con sè stessa; nulla vieta dunque ch’esso possa esser falso al pari del discorso parlato e il discorso parlato al pari del pensiero, e così l’opinione che ne fosse il risultato, e l’immaginazione che fosse il risultato della sensazione e dell’opinione. Si dànno adunque e opinione e discorso falsi (p. 264 B).

Dimostrato ciò, ritorniamo all’arte delle immagini, dove abbiamo lasciato il ragionamento per risolvere la pregiudiziale se il falso si dia. Il falso c’è, dunque è possibile che ci siano imitazioni delle cose che sono e che di queste imitazioni nasca un’arte illusoria. Cerchiamo qui dentro di cogliere il sofista (p. 264 E). L’arte delle immagini, giusta la divisione di cui sopra, non è acquisitiva ma produttiva. L’arte produttiva è o divina od umana, secondo è Dio che crea o è l’uomo che fa. Ma tanto l’una quanto l’altra si possono dividere pure in arte di produrre le cose e arte di produrre le immagini (p. 266 A): cose divine sono le opere naturali, immagini divine sono i sogni, le ombre, i riflessi: e analogamente per la parte umana, per esempio, la casa e rispettivamente il disegno della casa (p. 266 D). Di quest’ultima sezione dell’arte, come vedemmo, alla sua volta una sottosezione era l’arte del copiare, l’altra la fantastica (cfr. p. 236 C). Ora la fantastica può imitare per mezzo di strumenti o per mezzo del corpo stesso dell’artista, come quando uno contraffà un altro: quest’ultima specie può essere consapevole o inconsapevole, a seconda che l’imitatore sa o ignora ciò che imita; ma l’imitatore che ignora può ignorare credendo di sapere, o finger di sapere ciò che sa di non sapore; finalmente ancora quest’ultimo può esercitar l’arte sua o pubblicamente con lunghi discorsi dandola da intendere al popolo, o privatamente con brevi ragionari ingannando il proprio interlocutore. Così si giunge all’ottava ed ultima e più vera definizione del sofista (p. 268 D), la quale è appunto la conferma di quella che si era già intravveduta di sopra (cfr. p. 235 A), ma integrata anche con gli elementi delle altre e più determinata e precisa nella sua essenza e nella sua genealogia.

2. Giunti così alla soluzione del quesito proposto intorno al Sofista, la compagnia non si scioglie, ma dopo scambiati alcuni brevi convenevoli si infila subito la seconda questione, quella dell’Uomo politico; soltanto, poichè riconoscono che Teeteto avrà bisogno di riposarsi, per far la controscena al Forestiero Eleate si sceglie il Giovane Socrate.

Sulla fine del dialogo precedente (p. 268 B) cercando il sofista ci s’era trovati vicini anche al politico. Quello che corbella il pubblico coi discorsi lunghi, avea chiesto il Forestiero, chi è egli? Uomo politico o orator popolare? E Teeteto aveva scelto l’orator popolare, come poi per quello dei discorsi brevi tra il sapiente e il sofista sceglie il sofista. Ma sulla differenza del politico con la specie peggiore non si aggiunge ivi alcuna osservazione; qui la questione invece vien posta ex novo (p. 258 B).

L’uomo politico naturalmente si ha da porre tra quelli che possiedono una scienza. A lui dunque appartiene la scienza politica. Che scienza è questa? Per trovare e definir la politica cominciamo a bipartire le scienze col metodo di prima.

Le scienze dunque sono o teoretiche o pratiche. La scienza dell’uomo politico, del re, del padrone, dell’amministratore, e anche di chiunque altro sappia dar consigli su queste cose, è in sostanza una sola, quella appunto che può ben chiamarsi arte o scienza regia o politica: or poichè questa si esercita più con l’intendimento che con le mani, la ascriveremo dunque alle speculative o teoretiche (p. 259 D). Ma l’arte o scienza speculativa può limitarsi a giudicare, ed è la critica, o al giudizio può aggiungere il comando, e la diremo dispositiva,8 com’è, per esempio, l’arte dell’architetto. A questa appartiene anche l’uomo politico (p. 260 C). Ma si può comandare per conto d’altri, come l’araldo, o per autorità propria; e questo è il re (p. 261 A). Anche questa seconda specie però si può tagliare a seconda dello scopo o oggetto del comando. Altra è dunque la dispositiva che si riferisce alle cose inanimate, altra quella che alle animate. E quest’ultima si divide ancora secondo si tratta di allevare e dirigere animali singoli o tutta una greggia: giunti all’allevamento della greggia, o allevamento in comune, pare che questo si possa suddivider ancora in allevamento di bestie e allevamento d’uomini (p. 262 A). A questo punto però il Forestiero raccomanda di andare adagio e di dividere sempre a metà e, finchè è possibile, in modo che da ciascuna parte ci sia una specie, non dall’una una specie, dall’altra un individuo. Cita a proposito parecchi esempi di partizioni cervellotiche, sebbene comunemente accettate; il che è occasione a notare la differenza e la relazione tra specie e parte: la specie è sempre parte della cosa di cui si dice essere specie; la parte non è sempre specie. L’errore in cui s’era incorsi era appunto questo, di levar via una parte, l’uomo, e contare il resto, gli animali, come una specie sola: anche le gru dal loro punto di vista potrebbero allo stesso modo dividere da una parte le gru, e dall’altra le bestie compresi gli uomini (p. 263 D).

Ritornando dunque a bomba, per procedere con metodo e supplendo alla divisione saltata di animali selvatici e mansueti, che andava prima di quella dei gregali e non gregali, riprendiamo l’allevamento collettivo e notiamo che lo si può dividere in quello degli animali acquatici e quello degli animali terrestri, quest’ultimo poi secondo che l’animale o vola o cammina; e la politica è da questa parte (p. 264 E). Di qui in poi continuando a bipartire si dà una strada breve ed una lunga; finchè siamo ancora freschi, preferiamo intanto questa (p. 265 B). Gli animali gregali parte sono cornuti parte senza corna; il re pasce una greggia senza corna: i senza corna possono dividersi in unghia unita e unghia fessa, o anche in promiscui e non promiscui, secondo che generano l’un dall’altro, come i cavalli e gli asini, o non generano. Il politico governa i non promiscui (p. 265 E). Così continuando a dividere, tra i non promiscui non troviamo più che l’uomo ed il porco, la cui differenza specifica è l’aver l’uno due piedi e l’altro quattro: fa da ridere questo avvicinamento, ma nella scienza non c’è niente di ridicolo (p. 266 E). A sceglier poi la via più breve si poteva far così: divider subito gli animali in bipedi e quadrupedi, e i bipedi alla lor volta in nudi e pennuti, e si sarebbe giunti allo stesso risultato (p. 267 A).

Dopo una breve ricapitolazione il Forestiero mette innanzi il dubbio che l’uomo politico non sia stato con ciò ancora bene definito (p. 267 D).

C’è una differenza tra il re ed i pastori. Il re, noi diciamo, provvede alla sua greggia. Adagio, direbbero i mercanti, gli agricoltori, i medici, i prestinai, siamo noi anzi che la manteniamo; mentre non potrebbero opporre questo al pastore, il quale è tutto per la sua greggia, nutritore, medico, paraninfo ecc. ecc. Bisognerà dunque per trovar la definizione del re eliminare tutti quelli che gli fan concorrenza (p. 268 D).

Per riuscire più facilmente nell’intento si intercala qui un mito. C’era infatti un’antica leggenda, che il sole e gli altri astri un tempo sorgessero di là dove ora tramontano e che siano poi stati rivoltati da Zeus nella direzione attuale per render testimonianza ad Atreo del suo diritto. Così pure si parla del governo antico di Crono e degli uomini nati dalla terra. Ebbene tutte queste non sono che reminiscenze frammentarie e sformate di fatti realmente avvenuti (p. 269 C).

Il mondo è corpo e fu creato: come corpo e come creato non è nella sua natura di essere sempre allo stesso modo: se per altro ciò non è possibile, esso ebbe in grazia da Dio la minor possibile variazione del moto, cioè la facoltà di tornare indietro. Intendiamoci bene: esso alterna il movimento: che si muova sempre da sè non c’è infatti che Dio, e questi non può muover le cose ora in un modo ora in un altro: perciò se il mondo si muove ora in un senso ora all’opposto, è segno che una volta è mosso da Dio che così gli infonde vita, e che un’altra si muove da sè consumando in senso inverso la energia che gli era stata infusa (p. 270 A). Ora nel momento del passaggio da un moto all’altro nascono grandi mutazioni e cataclismi e distruzioni, e col rovesciarsi del moto si rovescia tutto l’ordine naturale: infatti per un momento tutto si ferma e poi comincia a procedere nel senso opposto, i vecchi diventano giovani, i giovani fanciulli ecc., e così gli uomini rinascono dalla terra, tranne alcuni pochi che Iddio ha riserbato ad altro destino (p. 271 C).

Quest’ordine all’opposto del nostro era appunto quello che vigeva al tempo di Crono: era quello il tempo che Dio governava il mondo, tenendone egli la direzione generale e delegando le singole parti all’amministrazione di Dei minori. E qui si descrive la comoda vita di quel tempo, nel quale gli Dei erano veramente pastori degli uomini e non v’erano altre leggi nè governi, vita beatissima, posto che quelli là si sian dedicati alla filosofia, per lo studio della quale aveano cosi grande opportunità (p. 272 C).

Ma come la generazione dalla terra fu tutta esaurita, essendo ciascun’anima stata riseminata tante volte quante erano le vite che dovea vivere (ammette dunque anche qui la pluralità delle incarnazioni), il pilota del mondo lasciò il timone e si ritirò nella sua specola, e il mondo cominciò a girare in senso opposto (p. 273 A).

E come cessarono le convulsioni e i disordini inevitabili in così gran cambiamento, il mondo continuò regolarmente per la sua via memore degli insegnamenti datigli dal suo padre e creatore. Ma come passa il tempo ed esso si va sempre più allontanando dalia memoria di quel governo, più e più prevale in lui l’elemento corporeo, che è quello del disordine, fino a che verrebbe a rovina, se Dio avendone pietà non ne riprendesse il timone e voltatolo del tutto non lo rimettesse sulla sua strada (p. 273 E). E qui, dopo un breve quadro dei mutamenti che avvennero quando il mondo cominciò a girar da sè stesso, si comincia a notare innanzi tutto che, come il mondo, così anche gli uomini rimasero abbandonati dal loro dèmone custode, e perciò sperduti e indifesi. E sarebbero periti, se Prometeo non avesse loro dato il fuoco, Efesto e Atena le arti, altre divinità i semi e le piante, quelli che in generale si chiamano doni degli Dei (p. 274 D).

Che cosa si ricava dunque da questo mito per il nostro proposito? Innanzi tutto che cercando noi il re e l’uomo politico abbiamo trovato il pastore di popoli, ma il pastore dell’altro ordine mondano non del nostro, e, ciò che è più grave, un Dio invece di un uomo. Oltre di questo non abbiamo saputo determinare la natura delle sue funzioni. Vediamo dunque in che differisca il re dal divino pastore e definiamolo meglio (p. 275 C).

Intanto abbiamo errato quando abbiamo compreso il re nell’arte di mantenere9 la greggia: egli non la mantiene. Bisognava scegliere un altro vocabolo più generico, per esempio prendersi cura, se si voleva comprendere in quella classe anche lui; e le altre sottodivisioni sarebbero rimaste le stesse, tanto da comprendere parimente ancora nello stesso vocabolo tanto la autorità regia d’ora quanto quella del tempo di Crono. Col vocabolo cura o governo poi evidentemente nessuna altra arte sarebbe venuta in concorrenza con la regia, come poteva venire con allevamento o mantenimento (p. 276 B).

Oltre di ciò anche questo allevamento stesso, o come ora diciamo meglio, questo governo bisognava e bisogna dividerlo: da una parte il pastore divino, dall’altra il curatore umano, e questo pure bipartirlo secondo è reggimento volontario o forzato, e non porre tutt’insieme re e tiranno (p. 276 E).

Ma anche dopo ciò il re lo avremo appena abbozzato o delineato, non scolpito nè colorito. Forse l’abbiamo presa troppo dall’alto e per dimostrare che cosa sia il nostro uomo siamo ricorsi a un gran mito, mentre poteva bastare anche meno. Ad ogni modo un esemplare, a cui riferirsi, è necessario sempre, chi voglia chiarire qualche cosa che abbia una certa importanza: poichè (senza di ciò) quello che crediamo di sapere è come un sogno che svegliandoci svanisce. Questo torna come dire che ogni nostra cognizione si riduce a un giudizio di differenziazione e perciò di confronto, e così si confessa che senza volerlo si è toccato il problema della conoscenza. E tant’è vero che la è così, che anche per chiarire che cosa sia questo esempio abbiamo bisogno d’un altro esempio (p. 277 D).

E questo sieno i ragazzi che imparano a leggere: quando abbiano conosciuto le lettere una per una, essi le riconoscono subito nelle combinazioni più semplici, non le riconoscono nei gruppi più complessi: questi gruppi allora ci si prova a chiarirli confrontandoli con le lettere che hanno imparato a distinguere nei gruppi facili: l’esempio dunque serve a illustrare l’ignoto mostrando ciò che questo ha di comune con ciò che è noto, così che ne nasca una nozione vera per tutt’e due. Provata dunque quale è la funzione e la natura dell’esemplare, cerchiamone uno su cui studiare in piccolo le caratteristiche dell’arte politica, e sia questo l’arte di tesser la lana (p. 279 B).

Per conoscere che cosa essa sia, si procede al solito a bipartire. Di ciò che produciamo o acquistiamo, parte serve ad agire, parte a difenderci: di questa sezione seconda si hanno i rimedi e i ripari, e così si procede per una lunga serie, finchè si giunge a quell’arte appunto che ci procaccia dei ripari per mezzo di invoglie fatte di peli intrecciati tra loro: queste tali invoglie sono le vesti, e l’arte di farle si può chiamare arte sartòria; la testòria poi per quella parte di essa che si riferisce alla confezione delle vesti non ne differisce che nel nome, come l’arte regia dalla politica (p. 280 A).

Ora per determinar bene che cosa sia veramente quest’arte testoria, com’è stata distinta dalle arti sue congeneri, così bisogna distinguerla dalle collaboratrici. E come dalle congeneri si distinguesse, lo si torna per maggior chiarimento a dimostrare, cominciando dalle ultime partizioni e procedendo in senso inverso a quel di prima (p. 280 E): quindi si passa a eliminar le collaboratrici. Fra queste anzi tutto prima del tessere viene il cardare, che è il suo opposto, in quanto cardare è dividere, e tessere è unire: poi in servigio delle vesti sono ancora l’arte fullonica e quella del rammendare, come pure sue collaboratrici possono dirsi anche quelle che le fabbricano gli strumenti. Ebbene, dire che l’arte testoria e la più bella e la più importante delle arti che si riferiscono alle vesti (cfr. p. 276 B e 279 A) non basta, bisogna determinar come e perchè (p. 281 D); bisogna anche rispetto alle collaboratrici procedere sistematicamente e distinguere le arti che sono concausa della produzione e quelle che ne sono proprio la causa. Concause sono quelle che preparano gli strumenti senza i quali le arti-cause non potrebbero produr nulla. Cause proprie della confezione della veste restano quindi quelle altre che si denotano in generale coi nomi di fullonica e di lanificio, sotto la qual ultima si comprende anche la testoria. Ebbene tutte queste arti cadono sotto la divisione generale, cui abbiamo già accennato, di arti che congiungono e arti che separano. Lasciamo stare il cardare e le altre arti che separano, e nel lanificio cerchiamo invece l’arte che congiunge: dovremo dividerla in torcere e intrecciare. Ma il torcere è di due specie, a seconda che dalla lana in fiocchi se ne trae un filo forte e saldo per l’ordito, o uno più lento per la trama. Ora dall’intreccio della trama con l’ordito si compone la tela e l’arte che la compone si chiama testoria (p. 283 A).

Ma perchè, si domanda subito il Forestiero, abbiamo fatto questo giro e abbiamo parlato di tante altre cose invece di definir subito l’arte testoria? O che siamo andati troppo per le lunghe? Per rispondere a proposito giova prima veder di conoscere la natura del troppo e del poco, e per conoscerla conviene studiar l’arte del misurare. E anche di quest’arte si distinguon due specie, l’una relativa in rapporto alle altre cose, l’altra assoluta in rapporto al canone che è posto da natura per quella tal cosa, in altre parole, in rapporto al giusto mezzo; chè appunto nell’esser vicino o lontano da questo mezzo sta anche la differenza tra i buoni e i cattivi (p. 283 E). È da aggiunger poi che senza questo mezzo si toglie la possibilità di qualsiasi arte o scienza, poichè non si avrebbe più un termine certo a cui riferirsi: così non ci sarebbe neppur la politica e sarebbe finito il nostro discorso (p. 284 C).

Dobbiamo dunque cercare che cosa sia questo mezzo, anche se la discussione sarà lunga, poichè è necessaria. E ci gioverà anche quando prendessimo un giorno a dimostrare che cosa è l’assoluto: per ora per altro ci basta una dimostrazione indiretta. Ed è questa: senza del giusto mezzo non ci sarebbero le arti; ma le arti ci sono; dunque il giusto mezzo c’è. Se questo c’è, si dà adunque anche la partizione che s’è detta delle arti della misura, l’una in rapporto al numero, alla dimensione, alla velocità relativa, l’altra in rapporto al giusto mezzo, al conveniente, al doveroso e così via. Quelli che dicono che tutto è misura sin qui han dunque ragione, soltanto confondono insieme l’una specie di misura con l’altra, o se distinguono, distinguono male, perchè non distinguono secondo specie (p. 285 B).

Ciò posto, è egli vero che siamo andati per le lunghe al di là della giusta misura e sull’arte testoria, e sul girare del mondo, e prima sul Non essere, a proposito del sofista? No, perchè queste discussioni, anche quando erano di materia frivola, ci giovavano per diventar più dialettici in generale, come i problemi di lettura che si propongono al fanciullo non gli si propongono perchè impari quel caso, ma perchè divenga più esperto. Anche la ricerca stessa dell’uomo politico aveva principalmente questo scopo (p. 286 C). La lunghezza e la brevità non si misurano infatti dal piacere o dalla noja che ci possiamo trovare (questa è cosa affatto secondaria), ma dal conveniente e dall’utile, e così è anche nel nostro caso speciale (p. 287 A).

Ed ora ritorniamo al re e all’uomo politico e facciamo della sua arte ciò che si è fatto dell’arte testoria. Anche per il re abbiamo già separato l’arte sua dalle arti congeneri (cfr. p. 280 B), resta da separarlo dalle concausali e dalle causali (cfr. p. 281 E).

Bisognerebbe queste dividerle in due, ma in due non si può, come procedendo vedremo in effetto: dividiamole dunque come si può. E innanzi tutto, come prima, nelle concause porremo quelle che fabbricano gli strumenti che servono a produr qualche cosa, senza di che non si dà vita civile: in secondo luogo vengono quelle che fanno i vasi da contenere le cose prodotte; in terzo quelle che ci provvedono il posto da star noi e le robe nostre, ciò che si potrebbe chiamar sostegno o veicolo in senso lato; in quarto quelle che ci forniscono ripari o difese; in quinto quelle dei trastulli, e comprendono tutti gli ornamenti, e la pittura, la musica e le altre imitazioni; in sesto quelle che somministrano la materia alle arti che abbiamo nominato, per esempio, i metalli, il legname e via via; in settimo quelle che procacciano il nutrimento al corpo umano, come l’agricoltura, la medicina, la ginnastica. Nessuna di queste è l’arte regia (p. 289 A). Ricapitolando, in queste sette specie è compreso tutto ciò che è oggetto di possesso, o per lo meno si può tirarcelo, all’infuori del possesso degli animali, che invece è stato compreso prima nell’allevamento delle razze (cfr. p. 261 E), e del possesso degli schiavi. Restano dunque da considerare gli schiavi e gli altri servitori o esecutori in generale: chi sa che non li troviamo qui i veri competitori del re (p. 289 D). Non saran questi certo gli schiavi che si comperano, quelli che sono veramente cosa nostra: ma e quelli che ci prestano liberi servigi? i mercanti? i salariati? Neppur questi si arrogheranno l’arte regia. E i banditori e gli altri ufficiali del governo? No, essi non sono i reggitori dello stato, ma i ministri dei reggitori (cfr. p. 260 E). Eppure s’era sospettato che i competitori li avremmo trovati in questa classe. Resterebbero i divinatori, i quali, come interpreti degli Dei che si vantano di essere, esercitano pure un’arte servitoresca; e finalmente i sacerdoti, che pur essendo in sostanza servi e ministri, sono tenuti in grandissima considerazione e se la pretendono tanto da gareggiare in qualche luogo col re stesso (p. 290 E).

Ma insieme con questi ecco avanzarsi in competizione con l’uomo politico un’altra gran turba variopinta. Sono i sofisti. Questi dunque bisogna esaminare in che differiscano dagli uomini politici (p. 291 C). Ora poichè il sofista è stato definito nell’altro dialogo, resta qui da determinar l’altro termine. Quante specie vi sono di reggimento politico? Tre: monarchia, governo di pochi10 e democrazia: ma poichè le due prime si possono dividere ciascuna in due sezioni, una buona e una cattiva, così abbiamo cinque forme: governo regio, tirannia, aristocrazia, oligarchia, e democrazia (p. 292 A)11. Ebbene, questa distinzione è fatta sul criterio dell’uno o dei pochi o dei molti, della ricchezza o della povertà, del volontario o del coatto, con leggi o senza leggi, tutte cose che non hanno che fare per decidere se uno di questi governi sia quel buono. Il criterio della scelta è la scienza; abbiamo infatti già detto che la politica è una scienza, ed è scienza insieme critica e dominativa12; bisogna dunque vedere in quale di queste forme di governo si trovi questa scienza: solo allora si potranno eliminare dal tipo del savio reggitore, che cerchiamo, coloro che si fan credere politici ma non lo sono (p. 293 D). E poichè non è lecito credere che di costoro ve ne possano esser molti ma appena uno o due, bisogna fissarsi su questi uno o due, qualunque sia la forma di governo, purchè governino secondo scienza: così i medici li reputiamo medici, sien ricchi o sien poveri, sia che ci curino con regole scritte o senza di esse, purchè sappiano guarirci o migliorarci. Comandare con arte e per il bene dei governati, questo è dunque il solo canone che contraddistingue l’uomo politico e regio e la sua arte (p. 293 E).

A questo punto il giovine Socrate oppone una grave obiezione: come si può ammettere un governo senza leggi? Certo, risponde il Forestiero, il por leggi è pertinente all’arte regia, ma la legge provvede in generale e non a ciò che conviene caso per caso, e alla mutabilità delle cose umane male si conforma ciò che ha da essere fermo e stabile sempre. — E perchè allora le leggi si fanno? Si fanno perchè il re non può stare accanto a ciascun cittadino per dirigerlo in ogni suo atto giorno per giorno e ora per ora: non potendo far ciò, egli scrive delle norme perchè servano di direttiva in generale. Ma non già ch’egli si vincoli a non mutarle e a non dipartirsene, se trova di meglio; come un medico che dovendo allontanarsi scriva delle prescrizioni, non si tien punto obbligato a seguirle qualora tornando trovi ragione di mutarle (p. 296 A). Ma la gente dice che, se si hanno da mutare le leggi, bisogna prima persuaderne la città. Si risponde: e il medico che senza persuadere l’ammalato, sia esso un fanciullo o anche un uomo, faccia contro le regole scritte e lo guarisca, diremo che gli ha usato violenza a torto e contro arte? Del pari coloro che sono sforzati a far di meglio di ciò che le leggi prescrivevano, non possono dire di patire ingiustizia, chiunque sia colui che li sforza, persuada egli o non persuada. Così il pilota salva i naviganti tenendo per legge la propria arte, e così chi sa comandare deve ritenere l’autorità della scienza come superiore a quella delle leggi (p. 297 A).

Il governo perfetto in conclusione è soltanto il governo secondo scienza: gli altri saranno più o men buoni o più o meno cattivi secondo nell’imitarlo gli si accostino più o meno. Che se il governo perfetto, nella nostra contingenza, non è possibile e bisogna accontentarsi d’una di queste imitazioni, s’ha da preferir sempre quella che si tiene più stretta all’esemplare: questo sarà per noi governo buono. Ora, in questo governo buono, appunto perchè non è perfetto, di necessità si dovrà fare appunto quello che non abbiamo ritenuto per l’ottimo, cioè mantenere e applicare assolutamente le leggi (p. 297 E).

E per verità, con quel governo ideale e perfettamente ragionevole questo non avrebbe avuto senso comune. Sarebbe infatti assurdo e ridicolo che, perchè il nocchiero ed il medico hanno in mano la nostra vita, per guarentirci volessimo far delle leggi secondo le quali volta per volta e caso per caso si dovesse navigare o medicare, e poi giudicassimo non già se han navigato o medicato bene, ma se hanno fatto secondo i regolamenti. Chi vorrebbe far più il medico o il nocchiero a queste condizioni? Per esser consentanei poi bisognerebbe anche porre un’altra legge, cioè che fosse punito anche chiunque volesse indagare sulla medicina e sulla nautica indipendentemente dai regolamenti, come quello che volesse esser più savio delle leggi. In tal modo è chiaro che ogni scienza perirebbe. Ma posto che l’uomo non sia perfettamente ragionevole, ci può essere un guajo anche molto maggiore che a far così, ed è se colui che è messo a custodia delle leggi le violi, non in nome della scienza, ma secondo semplicemente che gli pare o gli piace (p. 300 A). Le leggi, quando non altro, sono frutto di scienza e d’esperienza, e se non posson mutarsi per scienza ed esperienza, pochissimi essendo quelli che l’abbiano, il meglio che resta a fare è mantenerle rigorosamente. Questo è quell’imitare la verità di cui s’è detto: il vero sapiente non ci dà imitazioni, ma ci dà lo stesso vero; gli altri possono imitare in bene o in male: imitar in bene è serbar le leggi, in male sovvertirle; quello è aristocrazia e governo regio, questo è oligarchia e tirannia (p. 301 B)13. Gli è che gli uomini pur troppo non trovano il vero reggitore, che veramente eccella di corpo e di anima, come lo trovano le api, e così vanno a caso dall’una all’altra di queste cinque forme e corrono alla loro rovina: che se alcuni Stati con tutto ciò durano a lungo, questo non prova altro se non che lo Stato è una cosa resistente molto per sua natura (p. 302 B).

Ora pur essendo tutte queste forme di governo cattive, resta a vedersi quale sia meno e quale sia la più pessima. Delle tre forme tipiche e fondamentali di governo abbiamo di sopra diviso le due prime; dividiamo dunque anche la terza, la democrazia, anche questa col criterio delle altre, se è conforme alle leggi o contro le leggi (cfr. p. 292 A), sebbene l’una e l’altra si chiamino con lo stesso nome14. Ciò posto, la monarchia con le leggi è delle sei la migliore, la monarchia senza leggi la più intollerabile; la democrazia con le leggi è delle tre forme legali la peggiore, la democrazia senza leggi delle tre illegali la meno cattiva; il governo di pochi, naturalmente, sta di mezzo (p. 303 B). Ad ogni modo, quando ne sia esclusa la scienza, queste non sono che imitazioni e falsificazioni di quell’unico governo ottimo, e gli uomini che vi appartengono non sono affatto i veri uomini politici ma contraffattori e ciarlatani e sofisti della peggiore specie, la turba variopinta di cui (cfr. p. 291 A) si è prima parlato (p. 303 D).

Eliminata così questa turba abbiamo fatto come quelli che purgano l’oro, che dopo averne escluse facilmente le scorie bisogna che lo sceverino dalle cose preziose che gli sono affini. E affini alla scienza politica restano l’autorità militare, l’autorità giudiziaria e l’eloquenza persuasiva e politica (p. 304 A). Ora come c’è la musica e prima di essa c’è un’altra scienza, quella che ci dice se si deva imparare la musica, così prima della scienza del persuadere c’è quella che indaga se si deva persuadere, e prima dell’arte della guerra c’è quella del se si debba guerreggiare: questa scienza antecedente e superiore alle altre è appunto la politica. Analogamente dicasi rispetto all’autorità giudiziaria, la quale non è che esecutrice delle leggi e perciò sussidiaria dell’arte regia a cui spetta di fissarle. Le altre arti fanno, la politica le dirige tutte, e questa è la differenza specifica tra essa e le altre (p. 305 E).

Stringiamo i nodi finalmente, e vediamo come la politica somigli all’arte testoria e che tela essa tessa.

Sebbene molti lo neghino, si dà però che alcune virtù sien diverse ed opposte di alcune altre. Come può essere? Il valore e la prudenza sono due cose opposte tra loro, eppure sono tutte due virtù. Tanto è vero che lodiamo spesso tanto l’uno quanto l’altra, come anche l’uno in opposizione dell’altra e viceversa (p. 308 B). Ora la scienza regia del vero politico sa scegliere e contemperare le qualità opposte come il tessitore fa con l’ordito e la trama, sa eliminare ciò che è guasto come fa il cardatore, e collega il resto nella tela dello Stato connettendo il tutto con legami divini ed umani (p. 309 C). Si spiega poi cosa sono questi legami. E prima i divini. Legame divino è la educazione delle anime, il far nascere e confermare in esse la retta opinione, l’avvezzare al contemperamento di tutte le buone disposizioni (p. 310 B). I legami umani poi son le leggi dei connubî, nei quali pure è da badare, più che al sangue e ai denari, a questo medesimo contemperamento. Seguendo questa norma anche in ogni altra cosa, la vita dello Stato si svolgerà felicemente nel consenso di tutte le virtù (p. 311 C).




  1. Cfr. nota a p. 223 C.
  2. Cfr. nota a p. 224 D-E.
  3. ἀντιλογικόν. Veramente a pag. 225 B-D dall’ἀντιλογική discende l’eristica o disputatoria, e da questa la disputatoria lucrativa, ed è quest’ultima quella propria del sofista: a ogni modo egli si può intendere sempre compreso nei generi da cui si deriva questa specificazione.
  4. In altre parole il Non essere non è concepibile come soggetto, e neanche è concepibile gli si riferisca alcun predicato (Apelt, nota a p. 237 C). Tutto ciò sempre secondo Parmenide, che Platone si prepara a confutare.
  5. Cfr. nota a p. 238 E.
  6. Questo, osserva il Grote, Plato ecc. II2 p. 436, torna al sofisma di Antistene, non potersi dire l’uomo è buono ma solo l’uomo è uomo. Non pare per altro che Platone possa essere accusato di incongruenza: tutte queste argomentazioni valgono quando sia posta l’ipotesi che le idee sieno insociabili tra loro: questa ipotesi si chiarisce falsa appunto per queste assurde conseguenze.
  7. Cfr. nota a p. 253 D.
  8. Veggasi la nota a p. 260 B.
  9. Cfr. p. 261 D e la nota.
  10. Per questa nomenclatura veggasi la nota a questo luogo.
  11. Cfr. p. 302 C e segg.
  12. Cfr. la nota a questo luogo.
  13. La democrazia era stata giudicata sommariamente di sopra, quando era stato detto non essere possibile che nei molti sia scienza ed intelligenza.
  14. Cfr. la nota a p. 302 D-E.
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