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Platone - Il Sofista e l'Uomo politico (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Giuseppe Fraccaroli (1911)
Capitolo III — La teoria del Sofista
II IV



CAPITOLO III.


La teoria del Sofista.




Sommario: 1. La teoria delle idee. — 2. La definizione del sofista e l’unità del dialogo. — 3. L’Essere e il Non essere. — 4. L’Essere e le idee. — 5. La comunicabilità delle idee.


1. Stringiamo meglio i nodi del nostro riassunto. Il Sofista consta di due questioni, l’una presentata come principale, che cosa è il sofista, l’altra introdotta come occasionale e quasi in servigio della prima, che cosa sono l’Essere e il Non essere. Il collegamento non è casuale: anche se l’importanza rispettiva delle questioni sarà del tutto al rovescio della loro apparenza, esse restano congiunte strettamente da nessi esterni ed interni, e l’una compie l’altra. Il nesso interiore infatti consiste nell’essere le due parti, per così dire, l’una teorica e l’altra pratica: l’una determina la natura del falso, l’altra descrive chi lo professa e come lo professi; ed è perfettamente normale e naturale che la pratica preceda la teoria: questo avviene in tutti i fatti umani, a cominciare dalla lingua. Il nesso esteriore è dato dalla settima definizione del sofista, la quale diceva ch’egli era uno che inganna imitando, che persegue ciò che pare ma non è: era necessario dunque indagare e definire che cosa è ciò che è, e che cosa è ciò che non è e solo pare.

E anche noi subito dobbiamo prendere Platone in parola: la definizione del sofista pare l’argomento principale del dialogo, ma non è. Essa non è altro che la buccia1; la polpa è dentro: è una buccia però che non si getta, ma si mangia: e buccia e polpa insieme costituiscono il frutto, l’unità che abbraccia le parti, il fondamento dell’una e dell’altra trattazione, e questa unità è la dialettica e il suo esercizio. Per chi non se ne fosse accorto, lo dice abbastanza chiaro il Politico, p. 285 D: “E alla sua volta ora la nostra ricerca dell’Uomo politico„, domanda il Forestiero, “ce la siamo proposta proprio per sè stessa, o non piuttosto per diventare dialettici più forti su tutte le cose?„. Anche questo, risponde l’altro, “è chiaro che su tutte le cose„. Che poi ciò che qui si dice del Politico si deva intendere su per giù anche del Sofista, non è chi possa dubitare.

Cominciamo dunque dalla parte davvero sostanziale. Essa si divide in tre momenti: 1) il Non essere, 2) l’Essere, 3) la comunione delle specie (κοινωνία τῶν γενῶν), cioè delle idee: importa dunque di conoscere e determinare innanzi tutto a quale punto del suo svolgimento era la dottrina delle idee, quando Platone si accinse a scrivere il Sofista.

Che il Sofista sia uno dei più tardi dialoghi di Platone, ormai nessuno, che non sia sofista, più dubita: ci dobbiamo dunque aspettare che il principio della partecipazione delle cose alle idee (μέθεξις) sia abbandonato2 e si applichi quello dell’imitazione (μίμησις). E così infatti è. Che quel primo principio non sia affatto più il presupposto del dialogo, risulta da ogni interna evidenza: soltanto poichè qui le idee non si studiano in relazione alle cose, bensì nei reciproci rapporti tra loro, era naturale che di un’affermazione esplicita in proposito mancasse affatto l’occasione. Che anzi la teoria delle idee nel Sofista sia effettivamente giunta già al secondo stadio, è positivamente provato dall’essere la tesi del dialogo un’ulteriore evoluzione di questo stadio secondo, e del non avere essa ragione di essere nello stadio primo. Finchè infatti le idee erano soltanto predicati e le cose acquistavano l’esistenza dal partecipare all’Essere connaturato a questi predicati, la questione della comunicabilità non poteva nascere3. Innanzi tutto ogni qualità era un’idea a sè, un’idea era il bianco, un’idea era il grigio; ma poniamo pure si fosse assurto al substrato comune dell’Essere (dalla qualità alla sostanza), come si fa qui, a dire il tal corpo è bianco, e insieme il tal corpo non è nero, non si fondevano con ciò l’Essere e il Non essere tra di loro, da diventare in certo modo l’Essere Non essere e il Non essere Essere: la cosa era come un terreno neutro nel quale gli opposti si potevano incontrare senza confondersi.

Questo è espressamente ammesso e ritenuto da Socrate nel Parmenide. Ivi infatti egli parla della partecipazione delle cose alle idee, e dice che possono partecipare anche di idee tra loro opposte, “poichè„, continua, “se la stessa uguaglianza uno la dimostrasse diventata disuguaglianza, o la disuguaglianza uguaglianza, questa, credo, sarebbe cosa mostruosa. Ma se le cose che partecipano dell’una e dell’altra me le dimostra esser passive di tutt’e due, non mi sembra, o Zenone, ciò punto strano, neanche se mi dimostrasse che tutte le cose sono una per ciò che partecipino dell’uno, e che queste stesse sono molte perchè partecipano della pluralità. Se mi dimostrerà invece che ciò che è l’uno, proprio questo, è molti, e viceversa i molti uno, di questo sono pronto a meravigliarmi„4. Ebbene, invece dalla discussione del Sofista la cosa è esclusa sempre: vi si studiano viceversa i rapporti che corrono tra le cinque idee o categorie — essere, moto, quiete, identico e diverso — considerandole sempre nei rapporti logici che sono tra loro (precisamente il quesito che il Parmenide lasciava insoluto), e non in rapporto alle cose in cui si manifestano. Aggiungi ancora che ad un certo punto del nostro dialogo si combattono anche gli amici delle idee5, dai quali, anche per ciò che ivi si dice, non è possibile escludere lo stesso Platone: ora ciò non vuol dir altro se non che il filosofo, mentre rifiuta certi dogmi di scuole affini alla sua, anche per sè implicitamente sottintende non doversi mantenere se non ciò che qui egli riconosce per vero e in quanto lo riconosca. Gli amici delle idee, dice, hanno torto, quando non consentono che il nostro partecipare per mezzo dell’anima all’Essere sia per l’Essere o fare o patire, perciò che l’Essere debba essere immobile assolutamente, e immobile non sia quando faccia o patisca. Hanno torto, dice, perchè se il partecipare dell’anima all’Essere non può esser altro che il conoscerlo, conoscere ed esser conosciuto, in un certo senso, non sono altro che attività e passività. L’argomentazione è sottile e può non persuadere; e perchè vi sarebbe Platone ricorso se ne avesse avuto un’altra più evidente? S’egli avesse mantenuto la teoria della metessi, egli avrebbe avuto in essa la prova del fare e del patire delle idee, fare e patire in senso ben più vero e più proprio del conoscere ed esser conosciuto: l’entrare e l’uscire delle idee nelle cose è infatti incompatibile assolutamente con la loro assoluta immobilità.

La speculazione del Sofista pertanto è una modificazione non della prima teoria delle idee, ma della seconda. La seconda teoria aveva separato nettamente il mondo del divenire da quello dell’Essere: badiamo bene, si avverte ora, ciò non importa che il mondo dell’Essere non deva essere un tutto collegato e comunicante seco stesso. Esso è appunto coordinato in specie, generi e universali6, e chi sa riconoscere quest’ordine è il filosofo: questa coordinazione d’altra parte e questa comunicabilità sono i presupposti necessari del discorso.

Su questo punto sono stato breve, ma forse anche così sarò stato superfluo, specie per chi va molto più oltre, come il Lutoslawski7, il quale addirittura, sopra tutto da p. 248 DE, conchiude che gli oggetti della conoscenza nel Sofista non sono più idee impassibili ed immutabili, ma solo nostre nozioni; o come il Ritter (per citare lo scrittore più recente), il quale dal confronto di tutti i luoghi dei nostri dialoghi in cui ricorrono le parole εἶδος e ἰδέα8 crede di poter inferire: che difficilmente si possan mantenere per le idee platoniche le conclusioni tradizionali da Aristotele in qua, cioè che esse sieno realtà soprasensibili esistenti di per sè (χωριστά); che in nessuno degli scritti platonici posteriori al Teeteto si trova nulla che costringa a intendere l’idea in alcun altro senso che non sia quello del fondamento ed appoggio oggettivo di ciò che ci si rappresenta in universalità concettuale9; che l’esistenza separata, che alle idee si vuole attribuire, negli ultimi dialoghi ce l’aggiungiamo noi, cui il suono del vocabolo ricorda il significato ch’esso ebbe nei precedenti10; in una parola, che le idee negli ultimi dialoghi non sono più forme ma concetti, qualcosa di molto simile alla teoria di cui si dà vanto ad Aristotele. Si può giungere fino a questo punto? Perchè io nol creda si vedrà più oltre in questo stesso capitolo.

2. I dialoghi di Platone non s’intendono a dovere a leggerli soltanto una volta. Essi rappresentano processi intellettuali che non è possibile sufficentemente apprezzare senza aver prima un’idea sommaria di tutto il loro svolgimento. Ogni nostra scoperta del resto, ogni nostra speculazione è prima intuita che provata: la intuizione sarà più deficente, la speculazione sarà più piena, ma certo è che nessuno consapevolmente volle mai ciò di cui non era in qualche modo consapevole. Or se neppur Platone poteva sottrarsi a questa legge del nostro pensiero, il conoscer la conclusione cui egli giunge serve a spiegare come vi giunga, meglio che non possa fare alcun ragionamento e alcuna più sottile riflessione. La conoscenza del fine spiega la scelta dei mezzi per raggiungerlo, e solo quando si sia conosciuto il complesso del suo pensiero ci troviamo in condizione abbastanza analoga a quella dell’autore, che pur lo avea presente nel complesso prima di accingersi a svolgerlo a parte a parte. Perciò alla seconda lettura del nostro dialogo molte cose si rischiarano che prima parevano avvolte nella nebbia.

Dei sofisti Platone aveva discorso molte volte fino dai primi suoi dialoghi socratici, e li aveva messi sempre in mala luce, considerandoli però di volta in volta sotto aspetti singoli e scelti tra i molti e svariati nei quali sogliono mostrarsi. Erano ancora, a rigore, impressioni e schizzi, talora di persone determinate, efficacissimi bensì a predisporre gli animi, ma non ancora dimostrazioni esaurienti. Ora siamo alla sintesi. “Tutte le cose alle quali diamo lo stesso nome, noi le comprendiamo sotto un’unica idea„, aveva detto già nella Repubblica11 ripetendo un concetto espresso anche altre volte: dunque anche il sofista. Una sola idea, e una sola condanna: egli è spacciatore di menzogna. Le condanne parziali e occasionali del Protagora, del Menone, dell’Eutidemo, del Gorgia, del Fedro, per toccar solo i dialoghi principali, si riassumono qui sotto un solo motivo: l’umorismo, lo scherzo, la vivacità polemica si inaspriscono o mutano natura: la dimostrazione razionale è tanto fredda quanto tagliente. Ma la conclusione a cui si vuol giungere informa del suo spirito anche i singoli argomenti: le definizioni provvisorie che si dànno del sofista, oltre metterne in luce gli aspetti vari, tutti ignobili, sotto i quali egli si manifesta, sia cacciatore, sia mercante, sia rivendugliolo di ciancie proprie o d’altrui, inchiudono ciascuna, palese o larvata, l’idea della menzogna e dell’inganno. Anche quando la definizione può per il sofista aver senso onorifico, anche allora non manca la frecciata: sarebbe forse il sofista, in quanto è professore di confutazione, un purificatore delle anime? Badiamo, dice, di non lasciarci ingannare, perocchè anche il lupo somiglia al cane12. Infatti anche qui può dirsi che pare ch’egli confuti, ma effettivamente non confuta, perchè pare che sappia, ma effettivamente non sa: egli è anche qui maestro di menzogna. Che più? Quando glielo avremo dimostrato, e crederemo così d’averlo preso nella rete, egli ci sfuggirà bravamente: — ma che? dirà, il falso non esiste. — Per uno che fa professione di confutare gli altri, cioè di dimostrare che gli altri dicono o pensano il falso, l’argomentazione è abbastanza sfacciata, ma il filosofo nostro sapeva bene che il suo uomo non diventava rosso per così poco.

Così se la lunga serie delle dicotomie alla prima lettura ci può colpire come casuale e arbitraria, quando si sia letta la discussione sul diverso e sull’identico e sul coordinamento in generi e specie, essa ci si illumina di nuova luce. Platone alla teoria premette la pratica, al deduttivo preferisce il metodo induttivo, l’unico che può esser fecondo di risultamenti non illusorî. Per ciò da principio si capisce com’egli vada un po’ a tentoni13: ma come dalla pratica assurge alla teoria, le incertezze scompaiono, gli errori si correggono, l’analisi si integra con la sintesi e si costituisce per la prima volta l’unità organica della scienza dialettica. Perciò mentre più oltre si discuterà che cosa sian l’Essere e il Non essere, nelle dicotomie si mette già in pratica, sebbene un po’ all’ingrosso, ciò che sarà poi determinato in teoria: ogni divisione è una determinazione, ed ogni determinazione è una negazione, una eliminazione di un Non essere. Chi è avvezzo praticamente a questo processo ha già il senso della legge ch’egli attua: le sue impressioni sono informate all’ordine prestabilito di essa legge, ed egli è per ciò stesso preparato a conoscerla razionalmente. La sua conoscenza non è quindi altro che la constatazione di una legge psicologica.

Per tal modo l’argomento che pare incidentale diventa la tesi generale e fondamentale, di cui la questione del sofista non è che un caso pratico, un’applicazione singola.

3. Falsità? inganno? Il sofista oppone la pregiudiziale: non esiste la falsità. Non è un’obiezione che Platone si immagini. Sensismo e scetticismo erano i fondamenti della filosofia dei sofisti. Combinando a modo loro la dottrina dell’Essere di Parmenide e quella del divenire di Eraclito, l’Essere lo tiravano dal cielo in terra e lo limitavano solo a ciò che i sensi percepiscono e nel solo momento che lo percepiscono, perchè il momento immediatamente dopo è diventato già un’altra cosa, e quindi argomentavano: se ciò che non si percepisce non è niente, poichè il Non essere non può essere percepito, il Non essere non è niente: il falso è Non essere; dunque il falso non esiste14. Questa del resto non era che un’applicazione singola d’un principio generale. Isolando i sofisti la cognizione all’istante immediato della sensazione, ne isolavano anche l’oggetto da tutti i predicati da esso differenti. “L’uomo è buono„ per loro non poteva dirsi, ma solo “l’uomo è uomo„. E fu questo il principio accettato dai Megarici e dai Cinici15.

Ma per porre la tesi nei suoi veri termini, vediamo innanzi tutto quale valore sia da dare alle parole; che cosa significhi Essere, e che cosa Non, e in che senso Platone le abbia usate.

Parmenide aveva affermato che l’Essere è, che è inseparabile dal pensiero, immutabile, eterno, assoluto; e Platone in sostanza muove da questo concetto. Ma poteva questo Essere, questa entità, essere estesa all’uso della logica comune, in modo da intendere in questo senso anche quell’è16 col quale congiungiamo il predicato al soggetto? O non ci ha niente da fare? O indica questo è la identità tra il soggetto e il predicato, come volevano quei sofisti che negavano potersi dire “l’uomo è buono„, come abbiamo appena veduto? Platone tenendo una via di mezzo tra le due prime elimina implicitamente quest’ultima questione. Quando egli riteneva che le cose dovessero la loro esistenza alla presenza in sè delle idee, la copula indicava non l’Essere ma la partecipazione del soggetto con l’Essere: quando ritenne che le cose fossero immagini delle idee, la copula indicò la somiglianza con l’Essere. La copula negativa pertanto non poteva indicare che la dissomiglianza: il Non essere non è dunque altro che il diverso. Platone lo dichiara espressamente17: alla negazione in questo dialogo egli dà il significato non di opposizione (ἐναντίον) ma di differenza (ἕτερον): ciò che non è, non è necessario che sia l’opposto di ciò che è, basta che ne sia differente.

Ebbe egli ragione di intendere cosi? Osserva l’Apelt18 molto acutamente che Platone confonde i giudizi veri e proprî coi semplici paralleli: che, per esempio, a dire “ricchezza non è bellezza„ si fa un semplice parallelo, e che per aversi un giudizio bisogna che il soggetto sia determinato con l’aggiunta di tutti, alcuni, questo, ecc. Verissimo. La logica di Aristotele, dopo aver vuotato la copula di ogni sostanza, era consentanea nel fermarsi a considerare il giudizio vero e proprio di fronte al più largo àmbito dei paralleli, la contraddizione di preferenza alla negazione semplice. Ma Platone, per il quale l’Essere era pieno, fu consentaneo alla sua volta nel considerare la generalità dei casi tutti, giudizi insieme e paralleli, e nell’affermare che l’elemento necessario e indispensabile del concetto di Non essere, anche nell’accezione comune, è semplicemente la diversità. “Ricchezza non è bellezza„ non vuol dir punto che bellezza sia il contrario di ricchezza, ma solo che è diversa, che è un’altra cosa. Nè questo importa che Platone non sapesse o intendesse di escludere che la negazione possa per di più valere anche contraddizione19: egli infatti insiste sulla necessità di esaminare innanzi tutto quali idee siano conciliabili tra loro e quali no, e ne fa la prova con quelle dell’Essere, del moto e della quiete, conchiudendo che il moto, in quanto è moto, con la quiete, in quanto è quiete, non si concilia; il che non può voler dir altro se non che nella proposizione “moto non è quiete„ presa a sè, la negazione, oltre che diversità, vale contraddizione20.

Importa anche notare che i giudizi o paralleli, a cui il nostro filosofo qui si riferisce, non sono affatto quelli tra cose e cose, o tra cose e idee, ma tra idee e idee, e che perciò il ragionamento non può estendersi a quei primi se non con molta discrezione e in quanto le idee dal Parmenide in poi sono gli archetipi delle cose, e perciò anche dietro al soggetto, e non soltanto al predicato, l’idea si trova sempre. È più vero anzi dire che egli qui discute propriamente una proposizione sola ed è questa: il Non essere non è l’Essere. Vuol dire questo contrarietà, come a dire: il moto non è la quiete? O diversità? Il ragionamento è semplice: il moto è; ma il moto non è quiete; dunque il moto parte è e parte non è; dunque esso potrà esser l’opposto dell’idea di quiete, ma è soltanto il diverso dell’idea di Essere: ma del diverso c’è un’idea, come c’è un’idea dell’identico; il diverso dunque è; e poichè il diverso dall’Essere è il Non essere, il Non essere è21. “Fenomeni negativi„ dice il Gomperz22, “oggetto di cognizione negativo, non si dà infatti: ogni fenomeno è in sè e immediatamente qualche cosa di positivo„.

Dopo ciò non avrebbe senso il dire che ritenuto per la negazione il significato mero della diversità, il sapere o il notare che una cosa è identica con se stessa e diversa da tutte le altre, che, per esempio, un cane non è un gerundio, non ha alcun interesse logico. La differenza che può essere oggetto di scienza è la differenza specifica, siamo ben d’accordo: ma è pur vero che anche questo principio Platone lo praticò e lo formulò: lo praticò nelle dicotomie, non ostante le incertezze e, diciamo pure, gli errori dell’esecuzione23: lo formulò nel Sofista24, quando limitò il diverso alla negazione del concetto contenuto nell’affermazione (p. es. bello e non bello), lo ribadì nel Politico25, quando affermò doversi distinguere che cosa è specie e che cosa è parte, e le divisioni fino a che sia possibile dover esser fatte tra specie e specie26. La classificazione delle cinque idee o categorie che nel Sofista egli esamina, non segue altro criterio.

La differenza insomma tra la logica di Platone e quella d’Aristotele mi pare si possa dir questa, che l’una è sostanziale, l’altra formale; l’una costruttiva, l’altra descrittiva; l’una metafisica, l’altra logica mera. Se dunque in Platone non sono distinti i giudizi e i paralleli, poichè egli richiede che debbano essere conosciuti prima gli elementi dei quali la proposizione si compone, se sieno conciliabili tra di loro o inconciliabili, questo in parte torna al principio d’Aristotele, in parte vale qualche cosa di più. Anche quando si ha una differenza specifica la negazione non esclude la conciliabilità dei contrari: quando diciamo, l’arte produttiva non è acquisitiva, affermiamo solo che la prima è un tipo diverso dalla seconda per le tali e tali caratteristiche, ma non impugniamo che la prima possa esser la seconda per certi altri rispetti: la conciliazione a ogni modo si troverà sempre nel genere immediatamente superiore, dal quale l’una e l’altra dipendono: tutt’e due infatti sono arti.

In altre parole, Platone fonde insieme il senso qualitativo e il senso modale della parola essere, la semplice copula e l’affermazione di sussistenza, il rapporto logico e l’esistenza metafisica. Per tal modo il concetto negativo del Non essere non è negativo in senso assoluto, così da essere destituito di ogni realtà, ma è correlativo e coestensivo a quello dell’Essere. La negazione, dice il Jowett27, non distrugge il significato positivo dell’idea che essa nega; la proposizione negativa realmente diventa una positiva indefinita. Essa esprime ciò che resta dell’Essere, detratta quella data specie: essa mette in evidenza la categoria della diversità, come la positiva quella dell’identità. E poichè la filosofia eleatica nel Non essere comprendeva il mondo sensibile, data questa associazione e ritenuto, come Platone riteneva, che il mondo sensibile sia l’immagine dell’intelligibile, ci possiamo meglio spiegare com’egli distinguesse il Non essere in specie diverse. L’Essere insomma è l’oggetto del nostro pensiero, e ciò che noi pensiamo anche è: se dunque noi pensiamo ciò che non è, questo Non essere, in quanto può essere pensato, acquista con ciò stesso l’Essere: il concetto negativo si muta sostanzialmente in positivo.

4. Che poi Platone in questo dialogo non ammetta l’identità tra l’Essere e le idee, è tanto evidente che a non volerlo riconoscere si toglie il fondamento a tutta la speculazione. Non v’ha dubbio che per Platone le idee sono: esse sono Essere, ma non sono l’Essere, soltanto ne partecipano28: l’abbiamo già veduto: il moto è, non perchè sia l’Essere ma perchè comunica con esso. Non v’ha dubbio perciò del pari che anche l’Essere in quanto è conoscibile, è idea: è l’idea più comunicabile o, come noi diremmo, più generale; ciò per cui tutti e materialisti e spiritualisti di volta in volta diciamo che una cosa è. A definire l’Essere anzi Platone comincia di qui, come da quel punto su cui non si può non esser d’accordo: anche questa definizione per altro è definizione dell’idea dell’Essere, badiamo bene, e non in generale delle idee. Vero è che, poichè anche le altre idee sono, in quanto sono e partecipano della natura dell’Essere, ciò che si dice per questo vale anche per quelle; non vale però in quanto ne differiscono.

La prima definizione dunque che Platone dà dell’Essere mettendosi nel punto di vista dei materialisti è29 che esso non sia altro che potenza o attitudine connaturata30 di fare o di patire. Perchè di patire? Evidentemente da una parte perchè i materialisti riferiscono l’Essere al mondo dei sensi, e il mondo dei sensi diviene, e divenire è fare e patire insieme, più patire che fare; dall’altra parte l’Essere qui è considerato non ancora come soggetto, ma come oggetto del conoscere; ed esser conosciuto, vedremo tosto, è esser passivo. Ma se i materialisti di questa definizione per ora si accontentano, non la accettano invece gli amici delle idee: se l’Essere, dicono, è diverso dal divenire, non è nella sua natura nè il patire nè il fare. Ma intendiamoci, risponde Platone, nel mondo intelligibile essere attivo ed esser passivo non s’hanno ad intendere in senso materiale: se l’Essere è l’oggetto della conoscenza (e questo è il dogma di Parmenide, che gli amici delle idee accettano e mantengono), chi conosce è attivo, e in un certo senso dunque fa, e chi è conosciuto è passivo, e in un certo senso dunque patisce31.

Badisi, ripeto: fino a qui l’Essere è considerato solo come conoscibile, non ancora come conoscente; come passivo, non ancora come attivo32. E questo basta per la presente questione. L’Essere, aveva detto, è ciò che ha capacità o di fare o di patire (εἴτε… εἴτε), non già e di fare e di patire. Dimostrato che patisce, non occorre dimostrare che fa: basta che possa esser conosciuto, perchè sia Essere. Le idee sono conoscibili (νοητά); dunque le idee sono33; ma, per ciò che così esse partecipino dell’Essere, non c’è necessità alcuna che abbiano ad essere anche attive, cioè devano altresì fare, in qualsiasi senso questo fare si prenda. L’attività, quindi il conoscere, l’esser νοερόν oltre che νοητόν, appartiene a ciò che compiutamente è34, e questa attività significa che in lui è e moto e vita e anima e intelletto; nè esso sarebbe ciò che compiutamente è, se gli mancasse qualcuna di queste cose. Se questa frase, ciò che compiutamente è, può in uno stadio precedente essere stata estesa a tutte le idee35, non può affatto comprenderle qui dove si conchiude espressamente36 che per ciascuna idea “è molto l’Essere, ma infinito di numero il Non essere„. Attività e vita e anima e pensiero non avevano certo le idee nei dialoghi precedenti, e ben lo vide anche il Gomperz37: come avrebbero potuto aver tutto ciò i paradimmi della tavola e del letto, di cui si parla nella Repubblica, o i concetti di relazione? Se non l’avevano allora, tanto meno l’hanno qui, dove l’essere loro non è più assoluto. Non era proprio affatto questo il luogo di far le meraviglie, se altri non attribuiva a queste idee e anima e pensiero38. Di necessità dunque questo Essere perfetto che concilia in se l’Essere e il Non essere, che ha in sè l’attività e la causalità dovea per Platone essere al di là e al di sopra delle idee39. Questo Platone si accontenta di asseverarlo senza indugiarsi a dimostrarlo, come cosa superflua e qui non a suo luogo.

Ora che cos’è questo Essere perfetto? Costantino Ritter40, per citar ancora soltanto l’ultimo interprete, dice che è il cosmo, il Dio sensibile (θεὸς αἰσθητός) del Timeo: io non me ne so persuadere. Ciò che è sensibile è di sua natura diverso da ciò che è intelligibile, quindi Non essere: esso è solo in quanto anche il Non essere è. Al sensibile perfetto perciò potrà appartenere e l’essere percepito e il percepire, ma solo all’intelligibile perfetto l’essere inteso e insieme l’intendere, l’essere, oltre che pensato, pensiero. In quanto è pensato esso è la più alta e la più piena delle idee; in quanto è pensiero è la causa finale ed efficente delle idee stesse41: ciò che perfettamente è ha in sè stesso la propria causa. Esso è dunque Dio42, in quanto è intelligenza; esso si manifesta come demiurgo in quanto è attività.

Che cosa sono dunque le idee secondo l’ultima dottrina di Platone? Certamente non si può disconoscere che negli ultimi dialoghi la concezione logica di esse prevalga di gran lunga sulla concezione ontologica, e posto questo sopravvento, era naturale che in tutta la trattazione il punto di vista si trasportasse, per cosi dire, dalla forma dell’idea al suo contenuto. Inclino anche al giudizio di parecchi moderni nel ritenere che il passo ulteriore che fece Aristotele non sia che una facile e quasi necessaria conseguenza di questa teoria del suo maestro, e che perciò il vero fondatore e creatore della logica non sia da ritenersi lui ma Platone. Ad ogni modo convien sempre riflettere che Platone, poichè promuove bensì, ma non ha fissato ancora un linguaggio tecnico, adatta ai suoi pensamenti i vocaboli usuali senza dipartirsi mai totalmente dal loro significato naturale. Nel senso preciso e proprio e tecnico di idea, quale intendiamo noi da Aristotele in qua, e che Aristotele, giustamente del resto, ritenne anche per la teoria di Platone, εἶδος e ἰδέα si usan da Platone di rado. Il significato fondamentale di aspetto o figura, che è proprio di questi vocaboli, è raro che si possa eliminarlo, e servì a tenere il filosofo fisso nella concezione oggettiva, oggettività intelligibile, non sensibile: a tradurre con delineazione43 (poichè definizione corrisponde piuttosto ad ὅρος) ci avvicineremmo forse molte volte al valore vero di questo concetto. Evolvendosi poi sempre più la teoria platonica, come si è detto, anche la parola modificò il suo contenuto attenuando sempre più l’elemento della plasticità, o venne addirittura sostituita da altra più propria (γένος): specie anche in italiano si adatta meglio che forma alla classificazione e alla coordinazione44.

Checche sia di ciò, ad ogni modo sostenere che Platone abbia abbandonato per le idee il concetto ontologico, non si può assolutamente45. O che è il paradimma sul quale il demiurgo nel Timeo crea il mondo? Nel cap. II de’ miei Prolegomeni a quel dialogo ho cercato di mostrare che avevano ragione i Padri della Chiesa, i quali furono d’accordo a sostenere che le idee platoniche non erano altro che i pensieri di Dio (“perfette nozioni di un essere perfetto„ le disse46 anche il Lutoslawski); ed ora non ho ragione alcuna di dipartirmi, ma ne ho molte anzi di confermarmi in queste conclusioni. Esse non sono esseri pensanti, ma esseri pensati; in quanto sono pensieri seguono le leggi della logica e secondo queste leggi sono coordinate fra loro; in quanto sono pensate dall’Essere perfetto sono esseri esse stesse; e in quanto sono, sono perciò oggetto della conoscenza.

5. Il risultato di tutta questa speculazione è la prova di quella comunicabilità (κοινωνία) delle idee fra di loro, che nel Parmenide47 era stata intravista e desiderata, ma non s’era potuta raggiungere. Esse non sono più entità separate o isolate, ma costituiscono un tutto organico e coordinato; e ora non solo sappiamo che esiste questo tutto, ma ne conosciamo anche nelle linee generali la struttura. Come Platone dimostra che nell’Essere si assommano e si conciliano tanto il moto quanto la quiete, così si potrà dire anche degli altri contrari: l’Essere così per il nostro filosofo, non che sia l’idea più vuota, è anzi la più piena; solo la si va vuotando provvisoriamente di determinazione in determinazione: omnis determinatio est negatio, diceva lo Spinoza; e così l’Essere di volta in volta non è ciò che viene escluso dalla definizione. Essere e Non essere insomma sono due concetti che si integrano e perciò si equivalgono: che se dal punto di vista del primo si può conchiudere che l’Essere è il Non essere; dal punto di vista del secondo si può con pari ragione affermare che ogni Non essere è Essere: omnis negatio est determinatio. Per tal modo, la somma del Non essere comprendendo tutte le determinazioni possibili, esso torna eguale all’Essere: soltanto l’Essere è la sintesi, il Non essere è l’analisi; l’Essere è l’uno, il Non essere è il più; l’Essere è il germe, il Non essere è il mondo. Per dirla col Campbell48, “quando l’Essere è riconosciuto come l’oggetto complesso delle determinazioni del pensiero, il Non essere diventa il lato o l’aspetto negativo di queste determinazioni, ed e perciò una parte dell’Essere„. In altre parole, se è vero che logicamente e astrattamente l’Essere puro può parerci un’idea vuota in quanto se ne escludano tutte le determinazioni, ontologicamente esso invece è la più piena in quanto assomma in unità quanto nel Non essere, che però è, è per così dire sbriciolato: esso è la categoria più alta nella quale si comprendono e dalla quale hanno la lor ragione tutte le altre, la potenza onde si derivano tutti gli atti.

Le idee dunque hanno un ordine gerarchico, secondo il quale comunicano e partecipano le une delle altre49. E il conoscere i limiti di questa comunicabilità vale saper distinguere secondo specie e secondo generi e saper collegare allo stesso modo50. Così il mondo sensibile e il mondo intelligibile si corrispondono come l’imitazione all’esemplare non solo nei loro elementi, ma anche nel loro organamento: così all’Essere unico e solitario degli Eleati è sostituito un intero mondo intelligibile51.

Questa della comunicabilità delle idee, non pare, a dir vero, una grande scoperta, nè distrugge il principio logico che i contrarî, in quanto contrarî, sono tra loro inconciliabili, ma salva il principio metafisico, e dalla logica nostra inesplicabile, che i contrarî coesistono. Il moto e la quiete, il continuo e il discontinuo, sono rispettivamente concetti opposti tra loro e tali che logicamente si escludono a vicenda; ma noi non possiamo concepire continuità senza discontinuità, nè moto senza quiete, e i famosi argomenti di Zenone sono più gravi che a molti non paja. Come questo avvenga non sappiamo, nè la nostra fisica può darci una risposta; ma per lo meno la teoria di Platone ci lascia aperto, per così dire, uno spiraglio sopra questo mondo di là, ci lascia il modo, se non di conoscerlo, almeno di argomentarne l’esistenza. Siamo con ciò al principio della ragione assoluta in cui si devono assumere, conciliare e spiegare quelle che pajono antinomie insuperabili nella logica nostra.





  1. Cfr. Gomperz, Griechische Denker, II, pag. 452, e Schleiermacher, Platons Werke, II2, 2, p. 134.
  2. Sull’evoluzione della dottrina delle idee veggasi il Timeo da me tradotto (Torino, Bocca, 1906), Prolegomeni, cap. II.
  3. Nel Protagora, p. 331 D, la difficoltà era stata girata riconoscendo tra le idee la possibilità d’una somiglianza: la giustizia era in qualche modo simile alla santità; e così anche quelli che pajono opposti, il bianco al nero, il duro al molle.
  4. Parm. p. 129 A-C. Bisogna badar bene che se poi nella lunga discussione che segue si considerano i rapporti delle idee tra di loro, non se ne trae per altro alcuna conclusione positiva, come invece si fa nel Sofista, il che basta a dimostrare che il Parmenide è ad esso anteriore: ciò vide già lo Schleiermacher, 1. c. pp. 144-145. Cfr. più oltre in questo stesso capitolo il § 5.
  5. Pag. 248 A. La frase generica è scelta a bella posta per comprendere tutti gli idealisti, sieno eleati, o pitagorici, o megarici (anche se non ammettevano che un’idea sola), o cinici, o anche accademici, in opposizione ai materialisti: sono i due capitali indirizzi del pensiero messi a confronto, come ben vide il Tocco (Del Parmenide, ecc. in “Studi ital. di filol.„ vol. II, p. 437). Forse con questa espressione amici delle idee, in quanto si riferisce ai propri fautori, Platone alluse ad un’adesione propensa e spontanea più che razionalmente ben salda, la quale avrebbe esagerato, e perciò frainteso, le dottrine del maestro.
  6. Cfr. p. 253 D e la nota. Una più precisa determinazione di questa coordinazione vedremo in Polit. p. 263 B, dove si fissa la differenza tra il concetto di specie (εἶδος) e quello di parte (μέρος).
  7. The origin and growth of Plato’s logic, pag. 424.
  8. Neue Untersuchungen ueber Platon, specie pp. 91 sgg. e più oltre nel lungo capitolo intitolato: εἶδος, ἰδέα und verwandte Woerter in der Schriften Platons, pp. 228-336. Cfr. le giuste osservazioni in contrario del Gomperz (O. c. I, pp. 596-97).
  9. O. c. p. 319: “als den objectiven Grund und Halt des in begrifflicher Allgemeinheit Vorgestellten„. Aggiunge però tra parentesi: “wobei die Feststellung ihrer genaueren Bedeutung noch als ungelöste Aufgabe vorschwebt„.
  10. Ibid. p. 241. Nell’altra sua opera, Platon, I, pagina 577, il Ritter nega l’attendibilità di questa teoria anche per questi dialoghi; e in ciò dissento totalmente.
  11. X. p. 596 A. — Il Campbell (O. c. Introduction to the Soph. p. xlviii) fa un’osservazione che mi par giusta solo in parte. Dice che un oppositore moderno avrebbe innanzi tutto fatto questione sul vocabolo sofista, se non fosse usato in più e diversi significati, ma che la possibilità di questo dubbio non passò per la mente di Platone. Io osserverei che l’equivocare sul significato dei vocaboli era spediente vulgato della sofistica, ben noto al nostro filosofo e da lui espressamente combattuto (cfr. per es. Euthyd. p. 278 A, dove Socrate fa appunto notare il doppio senso del verbo μανθάνειν, sul quale giuocavano Eutidemo e Dionisodoro), e perciò non direi che a Platone sfuggisse l’obiezione. Se Pindaro chiama sofisti i poeti, e Socrate altrove i geometri, a questa estensione di significato evidentemente qui Platone non giunse: egli qui vuol determinare che cosa si debba intendere per sofista, non che cosa volgarmente si intenda: il dialogo è scientifico e speculativo, e cerca l’idea, non la cosa: allo stesso modo il geometra definisce il cerchio, ancorchè a questa sua definizione non corrispondano sempre, o piuttosto non corrispondano mai, quelli che noi in pratica chiamiamo cerchi. Per tal modo si spiega come viceversa alla parola sofista Platone per un altro rispetto potesse dare un valore estensivo, che nell’uso forse non ebbe, comprendendovi in un certo senso il metodo eristico della scuola megarica, e il nuovo eleatismo di Antistene. Ciò poi che dice J. Eberz in “Archiv für Gesch. der Philos.„ XV, 4 (1909), pp. 456 sgg., aver voluto Platone qui nel sofista rappresentare Aristotele, che durante l’assenza del maestro gli aveva fatto un contro altare, è molto più acuto che persuasivo, e presuppone tra l’altro che il dialogo sia stato scritto dopo il ritorno dal terzo viaggio in Sicilia: prima di affermar ciò bisognava dimostrar falsa l’affermazione della Ep. XIII, da cui risulta esser stato questo dialogo o il seguente, almeno per estratto, mandato a Dionisio. Cfr. più oltre cap. V, § 3. Negar fede ai documenti e fabbricare su semplici ipotesi nostre mi pare una critica assai pericolosa.
  12. Poichè la confutazione è purificazione, Platone, dice bene il Campbell (l. c. p. lii), riconoscendo, sia pure provvisoriamente, questo merito ai sofisti, ha espresso sul pensiero contemporaneo il giudizio più acuto che si possa trovare nella filosofia antica.
  13. Nelle dicotomie che vanno da p. 218 E a p. 236 C per riprendere a pp. 264 C-268 D, come pure in quelle del Politico, le incongruenze sono molte ed evidenti, e ne abbiamo segnalate parecchie nelle note. Costantino Ritter, Neue Unters. pp. 1-9, crede che l’autore le abbia lasciate correre a bella posta, tanto più che l’evitarle gli sarebbe stato abbastanza facile: le avrebbe lasciate correre come scherzi ed esercizî dialettici. Non sarei di questo parere. Che lo scherzo in queste dicotomie faccia qua e là capolino, mi pare innegabile: ma che spirito ci possa essere nello spropositare, io non vedo: meno ancora so vedere che razza di esercizio dialettico possa essere lo sragionare. Io osserverei invece che gli errori qui si riferiscono in gran parte ai particolari, e non sono di tal sorta da mandare all’aria le conclusioni; osserverei ancora che, per esempio, l’incongruenza di p. 220 D (veggasi ivi la nota) e quella di 231 D, dove si citano come due definizioni ciò che a p. 224 D era stato dato per una sola, sono prova non già di intenzione di scherzare, ma di negligenza. Ne conchiuderei dunque invece, che Platone non diede l’ultima mano all’opera sua; che forse occupato dalla parte essenziale della sua tesi, non si curò troppo di rivedere le altre, la cui inesattezza non guastava la sostanza del resto, e si contentò per queste del primo abbozzo.
  14. Cfr. in Euthyd. p. 284 un sofisma affatto analogo sul non potersi dire il falso: cfr. pure Crat., p. 429 DE.
  15. Soph. p. 251 B. Questa questione, nota bene il Gomperz (O. c. p. 144 sgg.), non è così sciocca quanto pare. Nel medio evo essa si ripetè nella lotta tra Nominalisti e Realisti; e nei tempi moderni fu rimessa a nuovo da Giovanni Federico Herbart e dalla sua scuola.
  16. Non mi pare senza importanza il notare che l’Essere di Platone è sempre τὸ ὂν, e mai τὸ εἶναι: la stessa scelta costante dell’un vocabolo in confronto dell’altro indica come Platone ne intendeva costantemente il concetto: τὸ ὂν è sostanza, τὸ εἶναι potrebbe essere astrazione. La nostra parola ente ha il difetto di inchiudere il principio di personalità, e avendo perduto in italiano il carattere di participio, mal si presta molte volte a rendere il valore del participio greco.
  17. Nei dialoghi precedenti la cosa non è così chiara, il che mostra che questa teoria si maturò per la prima volta nel Sofista. Cfr. specialmente Parm., pp. 161 E-162 B.
  18. Platons Sophistes in geschichtl. Beleuchtung, in “Rhein. Mus.„ L (1895), pp. 407 e segg.
  19. Anche l’Essere e il Non essere possono essere, non che diversi, opposti, quando l’uno sia παντελῶς ὄν (p. 248 E.) e l’altro μὴ ὂν μηδαμῇ (del quale, p. 258 E, dice di non voler occuparsi), cioè uno sia l’Essere tutto intero e assoluto, e dall’altro ogni modo di essere sia escluso. Questa contraddizione, ammessa in de Rep. V, p. 477 A, non è nel Sofista punto disdetta: tutto il ragionamento anzi, da p. 237 B in poi, è diretto a provare che il Non essere assoluto è per noi inconcepibile appunto, perchè, essendo in contraddizione con l’Essere, non se ne può predicar nulla. Solo si può aggiungere che anche questa contraddizione è illusoria: se il Non essere assoluto non ammette predicati, non può ammettere neanche la contraddizione, che ne sarebbe uno. Lo intese bene dunque Simplicio, il quale, in Phys. I, 3, p. 135, l. 17 (Diels), riconosce appunto che Πλάτων οὐ τὸ ἀπλῶς μὴ ὂν, ἀλλὰ τὸ τὶ μὴ ὂν εἰσῆγεν. L’affermazione della diversità si limita dunque solo al Non essere relativo.
  20. Cfr. Soph. pp. 230 B e 259 D, nei quali luoghi è riconosciuto implicitamente l’assioma che l’affermazione e la negazione non possono insieme esser vere e false nello stesso senso e nello stesso rispetto.
  21. Pag. 258 B e segg.
  22. O. c. I, p. 453.
  23. La norma fondamentale del distinguere è già accennata incidentalmente nel Teeteto, p. 208 D, ov’è detto: “se di ciascuna cosa noterai la differenza là dove essa differisce dalle altre, te ne renderai ragione, come dicono alcuni: ma finchè ti fermerai su qualche cosa di comune, il tuo discorso sarà sopra quelle cose che abbiano questa comunanza„ (κοινότης, non però ancora κοινωνία).
  24. Pag. 257 D.
  25. Pag. 263 AB.
  26. Non altrimenti procedeva in sostanza l’Hegel. “Hegel vuole accentuare specialmente il concetto che l’idea stessa di limite significa che esso segna una linea di confine tra due specie di essere. È impossibile di concepire un limite che sia il confine di una cosa sola, perchè nel medesimo istante in cui segna il confine di una, la separa da qualche cos’altro. Perciò ogni essere determinato implica necessariamente che oltre il suo limite ci sia qualche cosa; questo qualche cosa Hegel lo chiama il suo altro... L’altro che si oppone a ciascun essere definito non è una qualunque altra cosa che venga accidentalmente a trovarsi fuori della sfera dell’essere definito in questione; ma deve essere quel particolare altro che è, quasi diremmo, il suo prossimo parente„. J. G. Hibben, La logica di Hegel: traduzione di G. Rensi (Torino, Bocca, 1910), p. 84.
  27. O. c. IV p. 296.
  28. Cfr. p. es. p. 256 A.
  29. Pag. 247 E.
  30. Questa definizione risale ad Ippocrate, com’è attestato dal Fedro, p. 270 C-E, e da Galeno nel commentario in Hipp. de natura hominis, XV, 102 (ed. Kühn). Che Platone poi non intendesse affatto questa definizione di farla sua, è tanto chiaro che pare impossibile si sia potuto porre in dubbio: egli dice infatti subito che la propone soltanto provvisoriamente, e realmente poi la modifica: la capacità di fare o di patire si riduce al conoscere ed esser conosciuto. Piuttosto mi pare degno di nota che la definizione introdotta dal punto di vista materialistico che nega l’esistenza del mondo spirituale, e perciò riduce tutto a materia e a forza, dapprima è posta in sostituzione del principio parmenideo, poi la si applica con qualche modificazione a questo principio, senza dimostrare prima che essa non basta ad eliminarlo, come i materialisti sostengono.
  31. Anche nel Teeteto, p. 153 B, l’imparare è movimento, mentre a p. 156 A il movimento del mondo fisico si distingue in due specie secondo che ha potenza o di fare o di patire. Del resto, nota giustamente il Gomperz (o. c. I p. 455), Platone non si cura di distinguere la passività vera e propria di ciò che è affetto da un’azione (p. es. “la corda è percossa„), da quella di semplice relazione (come “il sole è guardato„).
  32. Pag. 248 E. Per la questione del movimento che ne consegue veggasi l’ultima parte della nota a p. 249 D.
  33. Questo modo di presentare il problema importa l’affermazione dell’esistenza reale delle idee fuori di noi.
  34. Pag. 248 E: τῷ παντελῶς ὄντι. Non occorre notare che ciò che compiutamente è, è ben diverso dal nudo Essere: esso è τὸ καὶ τὰ γένη πάντα ἐν ἑαυτῷ συνῃρηκός, come ben lo intese anche Simplicio, in Phys. I, 3, p. 136 l. 24.
  35. De Rep. V. p. 477 A. — Cfr. sopra, p. 59 nota 1.
  36. Pagg. 256 E-257 A.
  37. O. c. I p. 598.
  38. Dice bene il Lutoslawski, o. c. p. 424, a proposito di questo luogo (p. 248 E): “Quelli che studiarono il Sofista col pregiudizio che il vero Essere non potesse per Platone significar mai altro che le idee, trassero da questo passo la curiosa illazione che Platone attribuisca alle idee vita ed anima, — e perchè non anche corpo?„
  39. Cfr. Bertini, Nuova interpretazione delle idee platoniche in Atti della R. Acc. delle Scienze di Torino XI (1876) pp 997 e segg. e specialmente pp. 1013-19. Di questo scritto notevolissimo ho fatto uso anche nel cap. II dei Prolegomeni al Timeo, ai quali qui mi richiamo come a opportuno complemento.
  40. Neue Unters. p. 53.
  41. Come la αἰτία del Filebo, p. 27 B, sulla quale cfr. i miei Prolegomeni al Timeo pp. 107-8.
  42. Quanto alle obiezioni che il Chiappelli (Sulla interpr. panteistica della dottr. plat. p. 158 n. 5) muove al Bertini per l’interpretazione del παντελῶς ὄν, credo d’avere risposto or ora sufficentemente.
  43. Il Bertini, o. c. p. 1010, dà come significato fondamentale fazione nel senso dei nostri trecentisti.
  44. Secondo gli studi del Ritter (O. c. pp. 223 e 245) nel Sofista, nel Politico, nel Filebo e nel Timeo γένος prevale su εἶδος, e si ha γένος rispettivamente 48, 53, 31 e 71 volte, contro 42, 25, 15 e 59 εἶδος.
  45. Nel Parmenide, p. 132 B, s’era affacciata anche questa ipotesi, che le idee sieno nostri pensieri e perciò non esistano se non nelle nostre anime; ma si era risposto essere impossibile darsi pensiero il quale sia pensiero di niente. Nè trovo prove che mi dimostrino che questa posizione qui sia mutata. Mi pare perciò che il Grote, l. c. p. 439, ecceda il concetto di Platone, se intende (come il Lutoslawski, o. c. p. 424) riferirsi alla mente nostra, quando gli fa dire che le idee “esistono solo in comunione e relativamente a un soggetto intelligente, non sono nè assolute nè indipendenti,… non sono niente senza il soggetto, come il soggetto non è niente senza di esse o di qualche altro oggetto; che l’oggetto dell’intelligenza implica un soggetto intelligente, l’oggetto del senso un soggetto senziente; e quindi gli oggetti dell’intelligenza e gli oggetti del senso esistono del pari relativamente a un soggetto, non assolutamente o indipendentemente„.
  46. O. c. p. 448.
  47. Pag. 129 D E: ἐὰν δέ τις… πρῶτον μὲν διαιρῆται χωρὶς αὐτὰ καθ’αὑτὰ τὰ εἴδη… εἶτα ἐν ἑαυτοῖς ταῦτα δυνάμενα συγκεράννυσθαι καὶ διακρίνεσθαι ἀποφαίνῃ, ἀγαίμην ἂν ἔγωγ’, ἔφη, θαυμαστῶς. Cfr. sopra, pag. 49-50. Non sarebbe del resto nessuna meraviglia se di questa comunicabilità si trovasse cenno anche in altri dialoghi anteriori: la verità è prima intuita e praticata che scoperta. I luoghi per altro che si soglion citare a proposito, non mi pare facciano al caso. De Rep. V p. 476 A parla della κοινωνία non delle idee pure tra loro, ma di quella accidentale che loro deriva dal trovarsi vicine nelle cose o nelle azioni (cfr. Phaedo, p. 104): siamo ancora alla teoria della μέθεξις. Cosi ibid. VII p. 531 D non si riferisce propriamente alle idee ma ai numeri che possono costituire un’armonia. Meno ancora ha che fare Parm. p. 135 B, che il Tocco adduce a questo proposito (o. c. p. 464); non che infatti vi si accenni a κοινωνία, dice anzi che senza ammettere la fissità delle idee non è possibile il ragionamento: non si può ragionare infatti di ciò che continua a sfuggirci di mano. Piuttosto in Phaedr. p. 265 D si può riconoscere un accenno alla subordinazione delle idee più particolari alle più generali, e quindi l’embrione, ma non più che l’embrione, della teoria del Sofista. Che poi il fondamento pratico della dialettica anche per Socrate stesse nel distinguere secondo specie (διαλέγειν κατὰ γένη), ce lo attesta anche Senofonte, Mem. IV, 5, 11-12. Cfr. Zuccante, Socrate, pp. 189-91. È del resto anche questo un fatto umano praticato prima che conosciuto: la teoria comincia soltanto con Platone. Cfr. Grote, Plato ecc. II2 pp. 402-3.
  48. O. c. Introd. to the Sophist, p. lxxx.
  49. Se in cima di tutte Platone intendesse di conservare l’idea del bene che vi avea posta nella Repubblica, VI, p. 598 E, è lecito più che dubitare negare. Qui l’idea madre è proprio quella dell’Essere; e il bene non può essere se non la sua prima determinazione.
  50. Pag. 253 E.
  51. Cfr. Windelband, Platon, p. 88.
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