Questo testo è completo. |
Traduzione dal greco di Giuseppe Fraccaroli (1911)
◄ | IV | Il Sofista | ► |
CAPITOLO V.
Autenticità e cronologia.
1. Sulla questione dell’autenticità dei nostri due dialoghi è superfluo spendere molte parole. Una piaga della filologia è il continuare a rimestare anche le cose che hanno il grado massimo di probabilità, pur essendo evidente che la certezza assoluta e indiscutibile non si può dare se non in matematica. Ora, per tacere che chi toglie a Plafóne questi dialoghi dimezza l’opera sua, mentre d’altra parte scopre tra i contemporanei di lui un altro grande filosofo anonimo, nuovo e originale, di cui non avevamo alcun sospetto, — il che è assai più difficile a credersi che non sieno le difficoltà, in massima parte immaginarie, che si voglion trovare contro l’autenticità di questi scritti, — il Grote, lo Zeller, il Campbell, il Jowett, l’Apelt, il Lutoslawski, per citare solo i maggiori, hanno già confutato esaurientemente le obiezioni del Socher e dello Schaarschmidt, le quali del resto in gran parte caddero di per sè, quando fu provato che il Sofista e il Politico non sono, come si credeva, dei primi dialoghi che Platone abbia scritto, ma degli ultimi.
Aristotele, innanzi tutto, li conosce: se non ne cita il titolo, vi accenna in più luoghi, e per il primo nomina espressamente Platone1, per il secondo “uno dei precedenti„2, la quale espressione non si può riferire alla scuola platonica, perchè gli scolari di Platone non erano prima, ma contemporanei di Aristotele.
Anche i ragguagli stilistici consentono per l’autenticità. La critica impressionista non voleva riconoscervi lo stile di Platone; la critica positiva vi ha constatato una estrema somiglianza con lo stile delle Leggi.
Ma più di tutte queste considerazioni esteriori, a prova della loro autenticità sta l’interna evidenza. Il Timeo e le Leggi presuppongono questi due dialoghi sia in luoghi singoli sia in generale come antecedenti della loro teoria, e senza di essi le obiezioni del Parmenide e la ἀπορία del Teeteto rimarrebbero senza risposta. Ma poichè la questione dell’autenticità qui s’intreccia con quella della cronologia, alla quale s’è accennato incidentalmente di sopra, diremo anche di questa qualche cosa, limitandoci ai punti che sono ancora in questione.
2. Dopo gli studi del Campbell, del Tocco3, dell’Hirzel4, del Ritter, del Lutoslawski, non vi può esser dubbio ragionevole che l’ultima maniera di Platone sia rappresentata dai dialoghi: Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Critia, Leggi5. Se però sieno stati scritti in quest’ordine, fu mosso qualche dubbio che sarà opportuno risolvere. In ispecie, il Sofista e il Politico sono essi anteriori o posteriori al Timeo?
Il Blass in una acutissima monografia, la più recente che tratti quest’argomento per disteso6, pone innanzi tutto le Leggi come prime della serie. Egli ammette bensì che sieno state pubblicate da Filippo di Opunte, ma crede che Platone le abbia cominciate a scrivere nel 366 e finite intorno al 360.
Al contrassegno stilistico dell’iato lasciato correre nelle Leggi e nel Filebo e sempre più evitato nel Timeo, nel Critia, nel Sofista, nel Politico7, il Blass naturalmente non dà un gran peso: io per le Leggi non gliene darei affatto nessuno. Queste ripuliture minute non si fanno di solito, specie in opere di lunga lena, se non nel rivedere, nel trascrivere, nello stampare, e Platone le Leggi non le trascrisse, se è vero che Filippo, come ci è tramandato, le copiò dalle tavole cerate8.
Di gran lunga più grave pare l’argomento ch’egli trae dal confronto con le Epistole Platoniche, ch’egli a ragione con Ed. Meyer reputa genuine9. Non si può infatti disconoscere una grande analogia tra la Creta delle Leggi e la Sicilia di Dione e di Dionisio, che Platone effettivamente aveva sperato riformare. È anche molto verisimile che non solo i proemi, di cui parla l’Ep. III, p. 316 A, ma anche altri schemi o progetti preparati in previsione della riforma sperata siano o possano esser stati adoperati poi dal filosofo ed inseriti nel corpo del suo maggior lavoro; anche la minuzia di certe disposizioni che vi troviamo può esser indizio d’un’origine meno speculativa che pratica. È del resto anche molto naturale che un’opera così lunga e particolareggiata non sia stata scritta currenti calamo, anzi non sia stata neppur pensata tutto ad un tratto. Della tesi del Blass pertanto io accetto una parte notevole, che cioè i materiali e i documenti per le Leggi si sian cominciati ad accumulare dal 366 in poi, e specie negli anni successivi fino al 360, per lo scopo pratico che Platone proponevasi, e che pochi o molti di questi materiali sieno stati poi inseriti, anche integralmente, nell’opera teorica. Che invece le Leggi, pur compilate in parte con questi materiali, sieno state redatte o compiute nella forma attuale fino dal 360, non me ne posso persuadere. Nell’Ep. III il filosofo ricorda i proemi che egli avrebbe elaborato, per certi disegni di legislazione, “oltre delle cose,„ continua, “che vi hai aggiunto tu [Dionisio] o qualche altro: perocchè sento che poi alcuni di voi li avete raffazzonati: ma sarà però evidente la parte di ciascuno, per quelli che sanno discernere il mio modo di fare„. Ora io non credo che si possa col Blass inferire che, se Platone aveva scritto i proemi, anche le leggi dovesse proprio scriverle lui. Egli anche nei proemi non era che un collaboratore, tutt’al più un relatore, tant’è vero che gli altri glieli alteravano; e se mettean becco nei proemi, tanto più nelle leggi vere e proprie: o che il re non era Dionisio? Ma poniamo pure che Platone abbia elaborato anche un progetto di leggi: se ciò fece, è naturale che lo abbia anche trascritto o fatto trascrivere: o che passò egli le tavole cerate al tiranno? A ogni modo se queste leggi dovevano effettivamente servire e applicarsi, sarebbe stata per lo meno una grande stramberia, ch’egli le avesse presentate nella forma di dialogo che ci fu trasmessa. Mi pare perciò che la ipotesi più semplice e più probabile sia sempre questa, che cadute le speranze di un principe filosofo, ciò che era stato pensato per la pratica sia stato dall’autore rifuso più tardi, a mente riposata, in opera teorica, rifuso, non semplicemente emendato, come prova la redazione trovata sulla cera: nè con questo si nega che nella rifusione si possa segnalare forse qualche distacco. Ciò che il Blass aggiunge a proposito di quel luogo singolare del libro VII, p. 811 C E, dove i discorsi tenuti da principio fino allora, e quelli che si prevede dover tenere fino alla fine, vengono rappresentati come un utile libro scolastico da consigliarsi per i giovani, e si soggiunge che perciò è opportuno che chi a discorsi tali o simili si trova presente abbia a metterli in iscritto, tutto ciò mi pare che faccia non a favore, ma contro la sua ipotesi. Se il libro era finito intorno al 360 e se doveva avere questo scopo, non si capirebbe perchè Platone non lo abbia pubblicato. Ebbene, dice il. Blass, lo pubblicò: lo diede appunto a copiare a Filippo d’Opunte, e Filippo lo copiò ancora lui vivo; egli non fece altro che risparmiare al maestro questa fatica. Gli è che le parole di Platone non dicono questo10; parlano di scrivere (γράφεσθαι), non di copiare (ἀπογράφεσθαι), e non consigliano se non quello che avrebbe fatto Euclide per il Teeteto: è un’ammonizione a sè stesso, o per meglio dire è una dichiarazione, analoga a quella di Euclide, del come e perchè quei discorsi sieno stati messi in carta.
Che se Diogene Laerzio dice che Filippo trascrisse (μετέγραψεν) le Leggi, ma non dice quando, egli aggiunge però che suo è l’Epinomide. E similmente dice Suida, che attribuisce a Filippo la divisione dell’opera in dodici libri, soggiungendo che suo è il tredicesimo. Ora questo è ben più che il semplice trascrivere; e se Filippo avesse fatto questo essendo vivo ancora il maestro, non l’avrebbe potuto fare che col suo consiglio e sotto la sua direzione: l’opera sua sarebbe stata allora affatto materiale, nè v’era alcun motivo di ricordarla. L’aggiunta dell’Epinomide in ispecie, che se non è di Platone, è però secondo il suo spirito, mostra invece ad evidenza qual sia stata la parte di Filippo: egli trascrisse ciò che Platone aveva scritto, egli integrò ciò che non aveva potuto scrivere; egli fece o volle fare precisamente nell’Epinomide ciò che Platone consigliava di fare nel citato luogo delle Leggi, mettere in carta ciò che aveva udito: egli fu insomma editore, non amanuense, degno perciò, e soltanto perciò, di essere espressamente ricordato.
Fortunatamente dunque non si può dire che dalle osservazioni del Blass quello che era stato finora il caposaldo della cronologia delle opere platoniche venga punto scosso o indebolito. Su questo fondamento esaminiamo ora dunque i rapporti degli altri dialoghi.
3. L’Epistola XIII, spedita da Platone a Dionisio il giovane intorno al 365, dice che gli manda τῶν τε Πυθαγορείων… καὶ τῶν διαιρέσεων11. Queste partizioni non può esser dubbio sien quelle del Sofista e del Politico: con questo stesso nome anche Aristotele si riferisce evidentemente a questi dialoghi12. E che sono le cose Pitagoriche? Il Timeo, risponde il Christ13; il discorso di Timeo (senza l’introduzione) o parte di esso, risponde il Blass, che spiega così il genitivo partitivo. A ogni modo è troppa roba, e l’enunciazione è troppo sommaria anche perchè il destinatario potesse riscontrarne la consegna. Ma Pitagorico, abbiamo visto, è anche il Politico, e prima che il Timeo fosse scritto poteva ben chiamarsi il dialogo pitagorico per eccellenza; oltre di ciò il Politico era sopra tutti il dialogo che a Dionisio allora poteva interessare. Aggiungasi che anche per le partizioni il genitivo partitivo διαιρέσεων pare indicare che Platone non le mandò tutte: mandò egli quelle del Politico sole e non quelle del Sofista? Non la direi conclusione troppo arrischiata: di tutte le ipotesi questa per lo meno pare la più ragionevole. Così avremmo determinato anche il tempo della composizione di questi dialoghi; non prima del 366, perchè quando Platone era in Sicilia non aveva bisogno di mandarli; non dopo, perchè osta la data della lettera. In questo periodo di tempo si capiscono anche molto bene le speranze di Platone in un tiranno filosofo: il Politico aveva dunque anche uno scopo pratico, preparar gli animi in favore di Dionisio.
Ad ogni modo, poichè dall’espressione dell’Epistola il Timeo non può essere escluso con certezza, per provarlo posteriore ai nostri due dialoghi bisognerà ricorrere ad altri argomenti.
Il Tocco e l’Apelt pongono il Sofista dopo il Timeo. Il primo14 pur riconoscendo prevaler nel Timeo la teoria dell’imitazione, in confronto di quella della partecipazione, crede di scorgervi tracce anche di questa, e perciò lo avvicina alla Repubblica: ma i luoghi che cita a prova dell’asserto non reggono: a p. 51 A infatti non si parla affatto della presenza delle idee nelle cose, ma, il che è tutt’altro, a spiegare la χώρα vi si dice che è una specie (εἶδος) invisibile e amorfa e che partecipa in un certo povero modo dell’intelligibile: non è dunque affatto una cosa. A pagina poi 27 C e 51 E la μέθεξις ha meno ancora che fare: che ivi il μετέχειν non si deva intendere in senso tecnico ma volgare, è chiaro dal senso, specie nel secondo luogo, dove è detto che gli Dei partecipano dell’intelligenza; chè non voleva certo Platone asserire che solo per effetto di questo lor partecipare gli Dei esistessero.
Più serie sono altre argomentazioni. E innanzi tutto questa dell’Apelt15: Dopo aver asserito16 che anche il Non essere è, non poteva, dice, Platone affermare nel Timeo (38 B) che “quando del nato diciamo che è nato, e di ciò che nascerà che è per nascere e di ciò che non è che è non ente, non parliamo per nulla esattamente„. Ma la contraddizione tra i due luoghi non è forse, per chi consideri il contesto, così grave come pare. L’affermazione del Timeo viene come conseguenza della teoria che il tempo è un’immagine dell’eternità, un divenire che imita l’Essere, ma non è l’Essere; dice per ciò bene che usar la parola essere per ciò che diviene non è parlar proprio: dell’Essere, insomma, non si può dire se non che è immanente, e non già che sia presente o passato o futuro, le quali limitazioni tutte importano un Non essere, e in tutti e tre i casi diremmo che è ciò che non è. Intendendo in questo senso non si può dire che con le conclusioni del Sofista ci sia assoluta inconciliabilità, in quanto anche nel Sofista il Non essere non è l’Essere, ma soltanto partecipa dell’Essere; è un Essere, per così dire, in deficenza: in un certo senso dunque il dire che il Non essere è torna inesatto. Si potrebbe affermare anzi che il luogo del Timeo è segno di uno sforzo per una maggiore precisione.
E analoga è un’altra obiezione del Tocco17. Nel Sofista (p. 258 D E), dice, si afferma enfaticamente che ciascuna parte del diverso che è in antitesi con l’Essere è veramente il Non essere18: nel Timeo (p. 27 D) invece si distingue “ciò che è sempre e non ha divenire, e ciò che diviene continuamente e non è mai„19. È conciliabile ciò? Il Sofista considera l’Essere logicamente, il Timeo ontologicamente: quindi la differenza: nel Sofista perciò son messe a confronto due idee (anche il Non essere è un εἶδος), due idee considerate astrattamente, come per sè stanti; nel Timeo due mondi: il Non essere del Timeo è il mondo sensibile, e il mondo sensibile non è; ma non perciò è l’idea del Non essere, come, poniamo, la neve è bianca, ma non è l’idea della bianchezza. Oltre di ciò anche qui, come nel caso precedente, il punto su cui l’attenzione è richiamata è il rapporto tra l’essere e il divenire, l’uno dei quali esclude l’altro: ciò che diventa, in tanto che diventa, non è: questo è ciò che qui si vuol notare e nient’altro: se poi ciò che non è, sia in sè stesso qualche cosa, è questione che resta impregiudicata, e la teoria del Sofista che il Non essere in certo senso è, non viene esclusa dal Timeo: in questo certo senso esso è tanto se è Non essere ora quanto se è Non essere sempre: l’ora e il sempre sono determinazioni relative al nostro modo di percepire e di concepire, non variazioni che si diano nel mondo delle idee20.
Per ritenere invece il Timeo posteriore ai nostri due dialoghi vi sono molti argomenti esterni ed interni che difficilmente si possono impugnare. Nei dialoghi più antichi l’esposizione dogmatica e continuata è assolutamente rifiutata: nel Protagora Socrate minaccia d’andarsene se il Sofista non si adatta a discutere botta e risposta. Per lo contrario nel Sofista sin dal principio Socrate stesso domanda al Forestiero se non preferisca disserire con un discorso continuo. Il mutamento sostanziale è avvenuto, e l’abbiamo già notato. Ma se però il Sofista, soppresso il breve interloquire di Teeteto, si potrebbe fondere in una dissertazione vera e propria, in realtà a ogni modo la forma dialogica è ancora conservata. La dissertazione vera la troviamo invece nel Timeo, nel Critia e in molte parti delle Leggi21. Pare dunque più probabile ammettere un’evoluzione graduale che non un salto e poi un ritorno; nè dopo il Timeo si vedrebbe perchè dovesse essere scelta la forma dialogata, nel mentre stesso che anzi fin dal principio lo scrittore mostra d’aver già capito come sia divenuta inopportuna.
E come per la forma, così per la sostanza: abbiamo già di sopra fatto notare come nel Sofista e nel Politico perduri ancora lo spirito socratico, con si può dir tutte le sue speciali caratteristiche all’infuori della majeutica, uno spirito che già tende a trasformarsi, ma che non è però ancora sostanzialmente mutato. Ebbene, nel Timeo di questo spirito non vi è più alcuna traccia22: la trasformazione è finita; il dogmatismo appare in tutta la sua compostezza.
Viceversa nel Politico comincia a mostrarsi l’elemento pitagorico, che nel Timeo è assolutamente predominante. La dottrina della misura e della proporzione nel primo è accennata, nel secondo è svolta: quella della metempsicosi nel Politico è sottintesa (p. 272 E), nel Timeo è descritta nei particolari; le idee pitagoriche di un passato infinito e della prevalenza del male nel mondo sono comuni all’uno e all’altro dialogo e rappresentate nei miti rispettivi; ma mentre i due miti sono analoghi, in quanto tutt’e due si propongono lo stesso problema, — i rapporti dell’Essere col Non essere, della libertà con la necessità nell’ordine del mondo fenomenico, — quello del Politico lo risolve con l’alternativa, quello del Timeo con la conciliazione; quello del Politico ammette una successione infinita di periodi di tempo, quello del Timeo pone chiara la nozione dell’eternità come paradimma e quella del tempo come imitazione ad essa parallela: quello del Politico fa prevalere il male periodicamente, quello del Timeo lo fa costantemente mescersi al bene. È egli possibile che il filosofo da questo concetto più logico e più pieno sia passato a quell’altro, che non è che un ripiego?
“La divinità del Timeo,„ dice il Campbell23, “eseguisce tutto senza muoversi dal suo posto, e quando i suoi comandi sono dati continua a rimanere nel suo proprio stato. Della divinità del Politico è detto figuratamente che lascia il timone dell’universo e si ritira nella sua altezza speculativa. La divinità del Timeo conferisce alle stelle un’assoluta immortalità: la divinità del Politico sopporta che l’intero universo visibile precipiti per la china della dissoluzione. L’universo nel Timeo, sebbene non esente da mali, è nel suo complesso molto buono: l’universo nel Politico copia il modello divino così goffamente che a lungo andare il bene è lì per essere soverchiato dal male„. Qual è di queste due concezioni la più piana, la più soddisfacente, la più logica?
Così, e vi abbiamo accennato già nel capitolo precedente, mentre nei nostri due dialoghi il politico e il filosofo son due tipi differenti, nel Timeo24 sono fusi ormai in uno; esso dunque rappresenta anche per questo rispetto una concezione sintetica che non solo di natura sua ha oltrepassato di molto l’analitica, ma raccoglie e conferma le conclusioni cui implicitamente il Politico era giunto, per le quali appunto, come s’è detto, il dialogo il Filosofo, proposto da principio nel programma, non ebbe più ragione di essere scritto.
Ma più decisiva di ogni altra considerazione mi pare questa, che senza l’antecedente dei nostri due dialoghi la speculazione del Timeo mal si spiega. Il Sofista aveva dimostrato la conciliabilità dell’Essere col Non essere; e la creazione del mondo secondo il Timeo non è che l’applicazione e la conseguenza di questo principio. Il mondo sensibile è Non essere; esso è per altro qualche cosa, perchè il Non essere è: l’anima stessa del mondo (p. 35 A), Platone dice espressamente che Dio la compose mescolando insieme l’Essere e il diverso; e appunto, solo dopo dimostrato che il Non essere non è il contrario25 ma soltanto il diverso dall’Essere, questa conciliazione era possibile26. Per questa ulteriore e più piena evoluzione di questo concetto rendevasi necessario un analogo più ampio svolgimento anche di altri: tale è quello dell’Essere assoluto come anima e intelligenza, che nel Sofista27 è accennato di sfuggita; tale la distinzione tra la causa finale e la causa materiale notata nel Politico28 e accettata nel Timeo come nomenclatura già fissa; tale l’azione del demiurgo nella creazione, che il Sofista29 afferma e che il Timeo determina a parte a parte in base agli esposti principî: data la larga e sicura applicazione di essi nel Timeo, non avrebbe avuto senso il tornar nel Politico a definirne gli elementi, qualora il Politico fosse posteriore. Tale è la ammissione del moto nella sfera dell’intelligibile dimostrata nel Sofista30 e svolta nel Timeo, determinandosi in esso quale sia il moto proprio dell’Essere e quale quello del diverso: tale il riconoscere nel Timeo che il Non essere è necessario perchè si abbia la generazione31.
Poichè anche il raffronto stilometrico32 concorda in questo risultato di porre i nostri due dialoghi anteriori al Timeo, possiamo ritenere le nostre conclusioni per sicure.
Men grave è la questione per il Filebo. Ch’esso sia anteriore al Timeo credo di averlo a sufficenza dimostrato nei Prolegomeni a quel dialogo, cap. III, § 5: che sia posteriore ai nostri due, senza far lungo discorso, basta una semplicissima considerazione a provarlo. In esso a pag. 64 E troviamo che il bene consta di tre idee: bellezza, proporzione e verità. Ora che altro vuol dir questo se non che la κοινωνία delle idee è ammessa come cosa già intesa?
- ↑ Met. XI. 8 p. 1064 b, 29:διὸ Πλάτων οὐ κακῶς εἴρηκε φήσας τὸν σοφιστὴν περὶ τὸ μὴ ὂν διατρίβειν. Cfr. Soph., p. 254 A. L’Apelt nei prolegomeni alla sua edizione del Sofista, pp. 32-37, cita d’Aristotele e discute con questo altri luoghi, in parte notati già da altri, qualcuno aggiunto da lui, che o certamente o con maggiore o minore probabilità si riferiscono a questo dialogo.
- ↑ Cfr. nota a pag. 303 A. Altri raffronti di Aristotele col Politico veggansi presso Zeller, II6. 1, pp. 459-60, e Campbell, O. c. “Intr. to the Statesman„ p. liv-lv.
- ↑ Ricerche platoniche, Catanzaro, 1876.
- ↑ Der Dialog, Leipzig, 1895.
- ↑ Questa conclusione nel suo complesso è così obbiettivamente sicura per ogni rispetto da rendere ormai del tutto superfluo riferirne i motivi. Perciò è del pari superfluo confutare la tesi contraria di F. Horn (o. c.) che pone la Repubblica dopo il Politico: ogni esercizio di eristica contro i fatti constatati, non che li smuova, serve piuttosto a dimostrare quanto cauti si deva essere nell’accettare quelle parvenze che un ingegno acuto e una dialettica sottile vorrebber far passare per verità vere.
- ↑ Ueber die Zeitfolge von Platons letzten Schriften, in “Apophoreton„, pp. 52-66. Berlin, 1903.
- ↑ Quest’ordine è il risultato delle ricerche di Walther Janell, Quaestiones Platonicae (Teubner, Supplem. der Jahrbücher, 1901, pagg. 265-336).
- ↑ Diog. Laert. III, 25. Proclo, Προλεγόμενα τῆς Πλάτ. φιλ. 25.
- ↑ Il Ritter (Neue Unters. pp. 327-424) tiene per legittime la III, la VII e la VIII; e impugna in ispecie la II e la XIII, ma non mi ha punto persuaso: veggasi la mia recensione in “Riv. di Filologia„, a. XXXVIII (1910), 3, pp. 451-52. La questione non è però ancora chiusa, e altri ne discussero contemporaneamente al Ritter; l’ultimo, di cui io abbia notizia, fu Rudolf Adam in “Archiv. für Gesch. der Philos.„, N. F. XVI, 1 (1909), pp. 29 sgg., il quale non è disposto a salvare che l’ep. VII, ha qualche indulgenza per la XIII, e scarta le altre: le ragioni che adduce del trovarsi in esse imitate delle frasi analoghe dei dialoghi platonici, non ha alcun valore. Un esempio: “l’apostrofe a Dionisio ὦ παῖ Διονυσίου καὶ Δωρίδος (p. 313 A) ha il suo modello in Alc. I, p 105 D: ὦ φίλε παῖ Κλεινίου καὶ Δεινομάχης„. Ma lo dice sul serio?
- ↑ Dopo lodati i discorsi fatti, il Forestiero Ateniese non crede si possa consigliare di meglio ἢ ταῦτά τε διδάσκειν παρακελεύεσθαι τοῖς διδασκάλοις τοὺς παῖδας, τά τε τούτων ἐχόμενα καὶ ὅμοια, ἂν ἄρα που περιτυγχάνῃ ποιητῶν τε ποιήματα διεξιὼν καὶ γεγραμμένα καταλογάδην ἢ καὶ ψιλῶς οὕτως ἄνευ τοῦ γεγράφθαι λεγόμενα, ἀδελφά που τούτων τῶν λόγων, μὴ μεθιέναι τρόπῳ μηδενί, γράφεσθαι δέ.
- ↑ Pag. 360 B.
- ↑ De part. an. I, 2, p. 642 B, che può alludere tanto a Soph. p. 220 A B quanto a Polit. p. 264 C D; e De gen. et corrupt. II, 3, p. 330 B, 15, che pare riferirsi a Soph. p 242 C D, sebbene si attribuisca a Platone una teoria che non è sua, come osserva Filopono nel suo commento a questo luogo, p. 226, ll. 16 sgg. (Vitelli).
- ↑ “Abh. der Münch. Akad.„, 1886, p. 482 sgg.
- ↑ Del Parm. ecc. p. 405.
- ↑ Rh. Mus. L. (1895), p. 429, n. 2.
- ↑ Soph. pp. 254 D, 258 B.
- ↑ L. c. p. 450.
- ↑ τοῦτό ἐστιν ὄντως τὸ μὴ ὄν: il che non è lo stesso che τὸ ὄντως μὴ ὄν, o τὸ παντελῶς μὴ ὄν, come forse avrebbe detto per indicare il Non essere assoluto.
- ↑ τί τὸ ὂν ἀεί, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον, καὶ τί τὸ γιγνόμενον μὲν ἀεί, ὂν δὲ οὐδέποτε.
- ↑ Ho esposto le obiezioni più salienti; esaminar tutte quelle che furono fatte anche occasionalmente e incidentalmente, oltre la difficoltà del raccoglierle, condurrebbe a lunghezza infinita con poca utilità. Molte di esse dipendono o da erronea interpretazione o da non giustificata estensione che si vorrebbe dare ai concetti del testo. Così, per es., il Tocco (l. c. p. 448) dice che nel Timeo, p. 52 A, “sono adoperate le più acconce immagini per indicare che nessuna idea agisce sull’altra: οὔτε εἰς ἑαυτὸ εἰσδεχόμενον ἄλλο ἄλλοθεν οὔτε αὐτὸ εἰς ἄλλο ποι ἰόν„, il che, se fosse vero, proverebbe senz’altro che il Timeo è anteriore al Sofista. Ma chi legge il contesto vede subito che esso non può significare ciò che il Tocco vorrebbe. Platone infatti qui non nega punto i rapporti che il mondo intelligibile possa aver seco stesso, ma nota le caratteristiche che nel suo tutto lo contraddistinguono dal mondo sensibile, e tra queste è la sua assolutezza, per la quale nè riceve in sè altra cosa diversa da sè nè esce mai di sè: il restare in sè però non esclude che possa avere un proprio organismo e conseguenti rapporti con sè stesso.
- ↑ Cfr. Lutoslawski. O. c. p. 417.
- ↑ L’ironia di p. 40 D E è quasi una stonatura, e quella di p. 91 D E pare ironia a noi, ma non era forse secondo le intenzioni dell’autore.
- ↑ O. c., “Introd. to the Statesman„, p. xxxviii.
- ↑ Pagg. 19 E-20 A.
- ↑ A proposito dei contrarî veggasi Phaedo, p. 103 A B.
- ↑ Volendo serbar meglio questo riferimento alle conclusioni del Sofista, nella mia versione del Timeo, qui e nelle pagine seguenti ora sostituirei forse ad opposto la parola diverso come corrispondente di θάτερον: ma non so poi se il guadagno valga a compensare la perdita, poichè nel θάτερον Platone intese di comprendere anche il concetto di antitesi (cfr. nota a Soph. p. 257 D) che nel nostro diverso si perde.
- ↑ Pagg. 248 E - 249 A.
- ↑ Cfr. ivi nota a p. 281 C.
- ↑ Pag. 265 D.
- ↑ Pag. 269 B.
- ↑ Vedi altri raffronti di luoghi particolari che confermano la posteriorità del Timeo nelle note a Soph. pp. 252 E, 263 E, Polit. p. 272 E.
- ↑ Cfr. Lutoslawski, O. c. pp. 178-81.