< Il Tesoretto (Laterza, 1941)
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XIX
XVIII XX

XIX

Or si ne va ’l maestro
per lo camino a destro,
pensando duramente
intorno al convenente
     2185dele cose vedute;
e son magior essute
ch’io non so divisare.
E ben si dee pensare
chi ha la mente sana
     2190od ha sale ’n dogana,
che ’l fatto è smisurato,
e troppo gran dittato
sarebe a ricontare.
Or voglio intralasciare
     2195tanto senno e savere
quant’io fui a vedere,
e contar mio viagio,
come ’n calen di magio,
passati valli e monti
     2200e boschi e selve e ponti,
io giunsi in un bel prato
fiorito d’ogne lato,
lo piú ricco del mondo.
Ma or parea ritondo,
     2205ora avea quadratura,
ora avea l’aria scura,
ora e chiara e lucente;
or vegio molta gente,
or non vegio persone,
     2210or vegio padiglione,
or vegio case e torre.
L’un giace, e l’altro corre,
l’un fuge, e l’altro caccia,

chi sta, e chi procaccia,
     2215l’un gode, e l’altro ’mpazza,
chi piange, e chi sollazza:
cosí da ogne canto
vedea gioco e pianto.
Però s’io dubitai,
     2220o mi maravigliai,
ben lo deon sapere
que’ che stanno a vedere.
Ma trovai quel sugello
che da ogne rubello
     2225mi fida e m’asicura.
Cosí sanza paura
mi trassi piú avanti,
e trovai quatro fanti
ch’andavan trabattendo.
     2230E io ch’ognora atendo
a saper veritate
dele cose trovate,
pregai per cortesia
che sostasser la via
     2235per dirmi ’l convenente
del luogo e dela gente.
E l’un, ch’era piú sagio
e d’ogne cosa magio,
mi disse in breve detto:
     2240«Sapi, mastro Burnetto,
che qui sta monsignore
ch’è capo e Dio d’Amore;
e se tu non mi credi,
passa oltra e sí ’l ti vedi;
     2245e piú non mi toccare,
ch’io non t’oso parlare».
Cosí furon spariti,
e in un punto giti,
non so dove né come,

     2250né la ’nsegna né ’l nome.
Ma io m’asicurai,
e tanto inanzi andai,
che io vidi al postutto
e parte, e mezzo, e tutto.
     2255E vidi molte genti,
cui liete, e cui dolenti.
E davanti al segnore
parea che gran romore
facesse un’altra schiera.
     2260E ’n una gran carriera
io vidi dritto stante
ignudo un fresco fante,
ch’avea l’arco e li strali,
e avea penne ed ali.
     2265Ma neente vedea,
e sovente traea
gran colpi di saette,
e lá dove le mette
convien che fora paia
     2270chi che periglio n’aia.
E questi, al buon ver dire,
avea nome Piacere.
E quando presso fui,
io vidi intorno a lui
     2275quatro donne valenti
tener sopra le genti
tutta la segnoria;
e dela lor balia
io vidi quanto e come,
     2280e so di lor lo nome:
Paura, e Disianza,
e Amore, e Speranza.
E ciascuna in disparte
adovera su’ arte
     2285e la forza e ’l savere,

quant’ella può valere:
ché Disianza punge
la mente, e la compunge,
e sforza malamente
     2290d’aver presentemente
la cosa disiata:
ed è sií disviata,
che non cura d’onore,
né morte, né romore,
     2295né periglio ch’avegna,
né cosa che sostegna,
se non che la Paura
la tira ciascun’ora,
sí che non osa gire,
     2300né solo un motto dire,
né far pur un senbiante;
però che ’l fino amante
riteme a dismisura.
Ben ha la vita dura
     2305chi cosí si bilanza
tra tema e disianza.
Ma fino Amor solena
del gran disio la pena,
e fa dolce parere
     2310e leve a sostenere
lo travaglio e l’afanno
e la doglia e lo ’nganno.
D’altra parte Speranza
aduce gran fidanza
     2315incontra la Paura,
e sempre l’asicura
d’aver buon compimento
di suo innamoramento.
E questi quatro stati
     2320son di Piacere nati,
con essi sí congiunti,

che giá ora né punti
non potresti contare
tra loro ingenerare.
     2325Ché quando omo ’namora,
io dico che ’n quell’ora
disia, ed ha temore,
e speranza, ed amore
di persona piaciuta.
     2330Ché la saetta aguta
che move di piacere
lo punge, e fa volere
diletto corporale,
tant’è l’amor corale.
     2335Cosí ciascuno in parte
adovera su’ arte,1
divisa ed in comuno;
ma tutti son pur uno,
cui la gente ha temore
     2340sí ’l chiaman Dio d’Amore,
perciò che ’l nome e l’atto
s’accorda piú al fatto.
Assai mi volsi intorno
e la notte e lo giorno,
     2345credendomi campire
del fante, che ferire
lo cor non mi potesse.
E s’io questo tacesse,
farei magio savere;
     2350ch’io fui messo in podere
e in forza d’Amore.
Però, caro segnore,
s’io fallo nel dittare,
voi dovete pensare
     2355che l’om ch’è ’namorato
sovente muta stato.
Poi mi tornai da canto,

e in un ricco manto
vidi Ovidio magiore,
     2360che gli atti del’amore,
che son cosí diversi,
rasembra e mette in versi.
E io mi trassi apresso,
e domandai lui stesso
     2365ched elli apertamente
mi dica ’l convenente
e lo bene e lo male
del fante e delle ale,
deli strali e dell’arco,
     2370e onde tale incarco
li venne, che non vede.
Ed elli in buona fede
mi rispose in volgare
che la forza d’amare
     2375non sa chi no lla prova.
«Perciò s’a te ne giova,
cèrcati fra lo petto
del bene e del diletto,
del male e del’errore,
     2380che nasce per amore.»
E cosí stando un poco,
io mi mutai di loco,
credendomi fugire;
ma non potti partire,
     2385ch’io v’era sí ’nvescato,
che giá da nullo lato
potea mutar lo passo.
Cosí fui giunto, lasso,
e messo in mala parte.
     2390Ma Ovidio per arte
mi diede maestria,
sí ch’io trovai la via
ond’io mi trafugai.

Cosí l’alpe passai
     2395e venni ala pianura.
Ma troppo gran paura
ed afanno e dolore
di persona e di core
m’avenne in quel viagio,
     2400ond’io pensato m’agio,
anzi ch’io passo avanti,
a Dio ed ali Santi
tornar divotamente,
e molto umilemente
     2405confessar li peccati
a’ preti ed ali frati.
E questo mio libretto,
e ogn’altro mio detto
ch’io trovato avesse,
     2410s’alcun vizio tenesse,
cometto ogne stagione
in lor correzione
per far l’opera piana
cola fede cristiana.
     2415E voi, caro segnore,
prego di tutto core
che non vi sia gravoso,
s’io alquanto mi poso,
finché di penitenza
     2420per fina conoscenza
mi possa consigliare
con omo che mi pare
vêr me intero amico,
a cui sovente dico
     2425e mostro mie credenze,
e tegno sue sentenze.

  1. [p. 379 modifica]v. 2336. Non «adoverar», ma «adovera» credo si debba stampare; tutto il periodo ne trae miglior significato.

Note

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