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Traduzione dalla lingua d'oïl di Bono Giamboni (XIII secolo)
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]ILLUSTRAZIONI
LIBRO NONO
In tutto il Tesoro, che è favo di mele estratto da molti alveari, come l’ autore protestò fln da principio, il libro più originale è questo.
Fu accennato dal Chabaille, che i tre ultimi capitoli hanno molta somiglianza coll’ordinanza del 1254 di s. Luigi IX di Francia, al quale Brunetto dedicò il suo Tesoretto.
La lettera dei governatori di Roma a Carlo d’Anjou sembra autentica^ e da Brunetto ricopiata da qualche cronica, o raccolta di documenti. Si crede perciò, che diligentemente frugando negli nrchivi, si possono rinvenire le prove di altri simili plagi.
Il Mussafia avverte « che almeno una piccola parte della scrittura di Brunetto deriva da un’opera
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latiua scritta verso l’aimo 1222. È questa l’ Ocuìus jìasioralis, di autore anonimo, della quale parliamo più sotto.
Giusei)pe Ferrari ne’ suoi Scritiori politici italiani, parla di questo Ocidus. È un frammento di una versione del trecento di questo Oculus, nella Marciana, edito in Venezia nel 1865 dal Ferrato col titolo: Trattato sopra l’uffizio del Podestà.
Il Mussafia nel suo Studio sul Tesoro, offre un confronto tra il latino dell’ Ocidiis e l’ italiano del volgarizzamento del Tesoy^o.
Capitolo I.
Daniele in cattività nella metropoli di Babilonia, non dimenticava punto la patria, e chiuso nella solitaria sua stanza, col volto rivolto verso Gerusalemme, meglio diremo, verso il luogo dove era già stata Gerusalemme, pregava al suo Dio: Inaridisca la lingua nelle mie fauci, prima che io mi dimentichi della cara mia patria ! (Salmo LXXXVI). Brunetto esule in Francia, ha sempre mai rivolto l’ affetto all’ Italia. Nel suo grande Tesoro usa la lingua straniera, perchè noi siamo, |egli dice, in Francia, dove i signori feudatarii vendevano a chi pagava più la dignità di governatore delle terre, e con ciò tradivano i popoli in balia di chi avendo comperato, sopra essi avrebbe voluto quasi di neces-
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sita ricattarsi con usura. Insegna partitameute il modo col quale sono eletti nelle repubbliche italiane i podestà, e le norme secondo le quali debbono diportarsi. Questo libro ha l’interesse, ed il movimento dramatico di un romanzo storico. Sembra di essere presenti, e di prender parte alla sua elezione in comizio popolare, alla sua. entrata nella città che lo elesse, alla trattazione delle cause civili e delle criminali, e finalmente al sindacato nel quale agli amministrati dee rendere rigorosa ragione del suo governo. Le note vicende di alcuno di codesti podestà, provano la verità storica delle politiche dottrine di ser Brunetto.
S’egli avesse rivolto lo sguardo alle provincie dell’Italia superiore, che riconoscevano l’alto dominio del sacro romano impero, avrebbe veduto di sovente ripetersi nella elezione del podestà il turpe e doloroso spettacolo da esso deplorato in Francia. Lo straniero e lontano monarca, mandava un suo fedelissimo servo, anzi che un padre del popolo. Da ciò legali concussioni, rapine, assassinii’, sedizioni, ribellioni, guerre: divisione, e rovina d’ Italia.
Nelle doti eh’ egli desidera nel governatore italiano, travediamo l’ imagine di quel sospirato messia politico per tutta la nazione, che sarebbe poi con taato zelo invocato del suo immortale discepolo. Componendo il suo volume in mezzo a gente straniera, per carità di patria ne lascia travedere dai rimedii che suggerisce, i travagli e i dolori. Pennelleggiando
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]eoa tanto studio il ritratto del Ijuou sif^nore, implicitamente confessa che troppi erano i tristi:
Che le terre d’ Italia tutte piene Son di tiranni, ed un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene
(Purg. VI).
Tra le linee di qualche capitolo, scopriamo con ribrezzo indicati quei legalizzati Verre del medio evo italiano, quei sicari in toga e spada
Che dier nel sangue, e nell’aver di piglio.
(Inf. XII).
Brunetto, additandoci il ritratto del suo signore, in più luoghi proclama:
Questi non ciberà terra, né peltro
(Inf. I.)
Dal ritratto ideale del perfetto governatore di città iti3liaue saprà pociii anni appresso il suo divino alunno elevarsi alla concezione, alla speranza, al vaticinio di un principe redentore, il quale
Di queir umile Italia lia salute
(Inf. I).
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]la miracolosa divisa del quale sarà:
Sapienza, e Amore, e Virtute.
(Inf. I.)
Ancora sul Capitolo I.
La prima parte di questo libro della politica, è compendiata dal Trattato: Oculus j^cistoralis jJasceìis officia, et continens radium dulcihus pomis suis, edito dal Muratori nel volume IV Antiquitates Italicae medi aevi, pag. 96.
Brunetto lo compendia, ma avvezzo a governo di popolo abbrevia il testo dove parla degli offlcii e del salario del podestà: lo amplifica dove ragiona dell’accorgimento che debbono usare i cittadini nella scelta di esso. Il confronto ira il testo latino e la parafrasi italiana, in parte si legge a pag. 56 dello Studio di Adolfo Mussafla sopra il nostro Teso?^o, citato più volte.
Nel buon secolo della nostra lingua, un anonimo tradusse una parte del Trattato latino, che nella grande raccolta del Muratori non è pure compiuto.
La traduzione fu pubblicata dal prof. Ferrato coltitelo: Trattato sopra V ufficio del Podestà, scrittura itiedita del buon secolo. Padova coi tipi del Seminario, 1805 in 8. Il Trattato fu estratto da
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]uà codice della biblioteca del Farsetti, ora in quella di s. Marco di Venezia.
Per l’illustrazione bibliof^rafica leggansi Le Opere volgari a stampa dei secoli XIII e XIV indicate e descritte da Francesco Zamhrini, edizione quarta. Bologna tip. Zanichelli, 1878, colonna 1017.
Capitolo Vili.
Brunetto raccomanda che i notari « sieno buoni, e savi di legge, che sappiano ben parlare, ben leggere, e bene scrivere carte e lettere, che siano buoni dettatori, e casti di corpo. »
Fra queste doti, non dee recar maraviglia, che sia pur quella della buona lettura. Prima di tutto, dovevano leggere gli atti d’ufïicio, con voce alta, chiara, ed intendevole, come ricorda il maestro due volte. Inoltre dovevano dicifrare le varie carte dai litiganti loro presentate. L’arte di falsare i documenti, con quelle scritture uniformi, quasi una stampa a mano, era più agevole che oggi.
Doveva infatti essere molto usata, dacché Dante cantava come di fatto notissimo
Del no per li denar vi si fa ita.
Inoltre ogni notaio doveva essere, ora diremo, (laleografo, per la retta e pronta intelligenza di
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]tutti i caratteri usati nei documenti. Dal solo carattere latino erano derivati, come tuttogiorno ababbiamo innanzi degli occhi, nei codici di quell’età, r onciale, il minuscolo, il diplomatico, il corsivo, il prolungato, il tremolante, il misto, il demionciale, e che so io, oltre le variazioni che introduce nella grafia qualunque scrittore secondo le sue opinioni, capricci.
Le abbreviazioni richiedevano un’ istruzione speciale, confortata di grande esercizio. Erano varie, frequenti, difficili. Da queste note, vuoisi che appunto i notarli avessero il nome.
Se nei libri di letteratura, dopo gli studii di tanti eruditi, per queste e simili altre ragioni intorno alla scrittura, sono ancora tante controversie: quante più. dovevano essere nelle questioni d’interesse privato? Quanto era dunque necessario, che il notaio con prontezza e sicurezza sapesse decifrare quelle cifre quando le parti litiganti ad esso presentassero i legali loro documenti ?
Capitolo XX.
Brunetto usa sempre la parola pleyes, che Bono traduce: mallevadore. La parola è antiquata in Francia, anche presso il tril)unale, dice l’ Alberti, alla voce: pleye. In Italia abbiamo: 2neggìo, pieggian’.
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jìieggieria, vocal)oli manifestamcnto derivati rl.i (inolia radice. la basso latino abbiamo: plegiiim, jìlcgiare, Xìlegiiis, plpgagiiiin, plegeria, applegiai^e, contraplegiamentum, eco. ecc.
Scrive il Du Gange alia voce pluvina: Lo Spelmann opina, che l’ etimologia ne sia il sassone: Pleoh, che vuol dire: danno, o pericolo, avvegnaché il plegius, assume sopra di se ogni danno, o pericolo. Il Salmasio la deduce dal latino, pìraes, quasi plegius, per iwegius, o prejus.
I Latini dicevano: peìliceor, eris, nel medesimo significato, accennando ad uno dei molteplici gesti simbolici latto da essi col pollice, col quale per una tal qual formula di giuramento invocavano la divinità quale testimonio della loro promessa. Polliceor intatti vale assai più di promitto.
II nostro mallevadore, mallevare, mallevarla, sembra es()rimere il concetto medesimo, al giuramento fatto col pollice, sostituendo quello significato coir alzar della mano verso del cielo. Si promette dando la destra (mano per antonomasia): dare, jungere, cum-trahere dexteras (contratto): si giura, innalzandola al cielo: Coelum hoc, et conscia sydera testor (Virgil. Aeneid.)
Ancora sui Capitolo XX.
Le terribili scene dell’ Inferno di Danio, erano ispirate dalla vista o racconto quotidiano dello car-
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]neflcine usate da belve uraaue contro dei loro fratelli, in quel tempo, nel precedente dei barbari, e prima di quella nell’età delle persecuzioni contro gli adoratori del Crocifisso. Quanto è piiì da apprezzarsi in tal tempo la voce dell’esule italiano, che raccomanda umanità e giustizia nei tribunali criminali, e restringe la sevizie della tortura ad alcuni casi ? È la teoria di accontentarsi del minor male, quando non si ha j’agionevole speranza, ne per preghiere, ne per ragioni, di poter ottenere di più.
Capitolo XXIII.
L’ antico popolo di Dio ne’ giudizii criminali bastonava di santa ragione. Il fascio romano di verghe portato dal littore innanzi a’ primarii magistrati, non tanto simboleggiava che nell’ unione è la forza, quanto minacciava ai malvagi Ja flagellazione, fino anche alla morte. Euribiade prescelto, perchè re, a generalissimo della flotta greca alleata che doveva sbaragliare la Persia a Salamina, istizzito degli appunti che gli faceva, innalzò innanzi a lui il bastone del comando; e Temistocle soggiunse: Batti, ma ascolta ! Anche i Greci adunque disciplinarmente bastonavano. Xuu parliamo se bastonassero i barbari nei tempi di mezzo, se fino a jeri bastonavano gli inciviliti loro nipoti. Dante, poeta civile per eccellenza, bastonava il mugnaio, che canticchiandoli
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]sconciava i suoi versi. Non facciamo dunque il viso (IcH’armo a ser Brunetto, se prescrive al signore la verga, per persuadere la buona morale a’ suoi serventi.
Non senza ragione manca queir inciso in due codici francesi del Chabaille. Fra una pretesca dei due scrittori, che si sentivano uomini e non giumenti.
Capitolo XXIV.
Il maestro insegna a chi siede in tribunale, o in trono: « Sovvenga loro, che nostro Signore comanda: Amate la giustizia, voi che giudicate la terra. » Mirate albero meraviglioso, surto da questo evangelico granello di senape!
Il discepolo poeteggia nel canto XVII del Paradiso, dove contempla la gloria beata de’ giusti padri dei popoli:
E come augelli surti di riviera, Quasi congratulando a lor pasture, Fanno di sé or tonda or lunga schiera.
Sì dentro a’ lumi sante creature Volitando cantavano, e faciensi Or D, or I, or L, in sue figure.
Prima cantando a sua nota moviensi, Poi, diventando l’ un di questi segui. Un poco s’arrestavano, e taciousi.
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]Mostrarsi dunque hi cinque volte sette Vocali e consonanti, ed ic notai Le parti sì come mi parver dette.
Diìigite jiistitiam primai, Fur verbo e nome di tutto il dipinto: Qui judicatis iej^ram, fur sozzai.
Poscia neir M del vocabol quinto Rimasero ordinate, sì che Giove Pareva argento lì d’oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove Era il colmo dell’ M, e li quotarsi Cantando, credo, il ben che a sé le move.
Capitolo XXV.
Omnium autem rerum nec aptius est quidquam ad opes tueudas qnam diligi, nec alien ius quam timori. Praeclare enim Ennius.
Quem metuunt oderunt; quem quisque odit, periisse expetit. (Brunetto lesse: ex; edit).
Multorum autem odiis nullas opes posse obsistere. Malus enim custos diuturmitatis, metus.
(Cicero, II De Offic. VII.)
Qui se metui volunt, a quibus metuentur eosdem metuant ipsi, necesse est....
Nec vero uUa vis imperii tanta est, quae, premente metu, possit esse diuturna.
(Ibid.)
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Quirl ergo opponitur clerneatiae? Crudelitas, quao nihil aliiid est qiiam atrocitas animi in exi geridis poenis Illos ergo criideles vocabo, qui pu niendi caiisam habeat, modum non habeiit.
(Seneca, II De clementia, IV.)
Clementia est teraperantia animi in i)otestate
ulciscendi Vtqiii hoc omnes intelliguat clementiam
esse, quae se flectit citra id quod merito constitui posset.
(Id. ibid. III.)
Varia in tot animis vitia video, et civitati curandae adhibitus sum, pro cuiusque morbo medicina quaeratur. Hune sanet verecuudia, hune peregrinatio, hune dolor, hune egestas, hune ferrum. Itaque etsi perversa induenda magistratui vestis, et convoeanda classico concio est, procedam in tribimal non furens, non infestus, sed vultu leni, et magis gravi quam rabida voce illa solemnia verba concipiam; et lege agi jubebo non iratus sed saverus. Et quum cervicem noxio praecidi imperabo, et quum Tarpejao proditorem hostemque pubblicum iraponam, sine ira, eo vultu auimoque ero, quo serpentes et ammalia venenata percutio.
(Id. I. De ira, XVI).
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]Capitolo XXXI.
Scrisse P. Chabaille a pag. 14 della Introduzione alla sua edizione del Tesoro: « Les derniers chapitres présentent un curieux reprochement avec un article de l’ordonance de saint’ Louis de 1254, per la réformation des moeurs. Ces chapitres ont été imprimés dans l’Appendice du Liv7^e de Jostice et de Plet, pag. 345.
Questo fatto prova con maggiore verisimiglianza, come fu detto nella Prefazione, che Brunetto guelfo dedicasse a quel santo martire delle crociate il suo Tesoretto. Egli aveva protestato fin dal primo capitolo della sua grande opera, di essere eclettico, e far ghirlanda di ogni bel flore che lungo la via gli venisse fra le mani.
Fine itei, Quarto ed Ultiinio Volume
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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Il Tesoro IV{{padleft:Illustrazioni al Libro IX|3|0]]nsrnDiCE
PARTE TERZA
LIBRO OTTAVO
Cap. I. Tratta della retorica, che
c’insegna a ben parlare Pag. 7
» IL Della retorica, che cosa è, e di suo ufficio, e di suo fine » 15
» III. Delle cinque parti della retorica » 21
» IV. Di due maniere di parlare,
con lettere, e cou bocca. » 24
» V. Del contendirnento che na sce dalle parole scritte.. » 28
» VI. Come tutte contenzioni na scono in quattro cose.. » 29