< Il Trecentonovelle
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Novella CCXII
CCXI CCXIII

D’una grande sperienza che ’l Gonnella buffone al tempo del re Ruberto fece verso Napoli, traendo da uno ricchissimo e avarissimo abate quello che mai da alcuno non fu possuto trarre; e per questo n’ebbe e dal re e da’ suoi baroni grandissimi doni.

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Giunto il Gonnella una volta a Napoli, andò a fare la reverenza allo re Ruberto; e là, essendo conosciuto e dal re e da’ suoi baroni, al tutto si disposono di non darli alcuna roba o dono se elli non trovasse modo di farsi donare a uno abate ricchissimo e avarissimo di Napoli alcuna cosa; considerando che mai dal detto abate alcuno non poté trarre solo un bicchiere d’acqua. Il Gonnella, udendo e lo re e’ baroni, per fare prova di sé, non se ne scontentò però molto. E saputo dove stava questo abate, subito pensato il modo, si vestí assai poveramente come pellegrino. E partendosi dallo re e da’ baroni, disse:
- Santa corona, poiché cosí mi comandate con la vostra baronía, io vo dov’è di vostro piacere, e metterommi alla ventura.
E mettesi in via, e va in verso la Badía; e giunto alla porta, domanda dello abate, dicendo che avea gran bisogno di favellarli. Il portinaio andò all’abate, e disse:
- Alla porta è giunto uno pellegrino che dice che ha gran bisogno di favellarvi.
L’abate, ciò udendo, dice:
- Serà qualche gaglioffo che vorrà limosina -; e muovesi, e va nella chiesa, e dice: - Digli che vegna a me.
Ciò detto, e ’l pellegrino n’andò nella chiesa a lui, e inginocchioni lo pregò che lo dovesse confessare. L’abate rispose che li darebbe uno de’ suoi monaci che lo confesserebbe. Il pellegrino dice:
- Padre santo, io vi prego per misericordia che voi mi confessiate voi, però che io ho uno peccato sí grande che io non lo direi, se non a persona di maggior dignità che monaco; e però contentatemi di questo; e io ve ne prego per l’amor di Dio.
L’abate, udendo costui, gli venne voglia d’esaudire a’ suoi preghi per sapere che peccato fosse quello che era sí grande; e disse s’aspettasse un poco, tanto che andasse alla sua camera: e cosí s’aspettò. E stando un poco, l’abate viene vestito d’una bellissima cappa paonazza, con li cordoni di seta dinanzi e con alcuni monacelli drieto; e andato a una sedia del coro, chiamò il pellegrino, il quale subito fu presto; e inginocchiatosi a piede dello abate, cominciò la sua confessione; e fondossi sopra il peccato avea sí grande che quasi non ardiva di dirlo, e non credea che Dio mai avesse misericordia di lui.
L’abate come fanno, il confortava che dicesse sicuramente. Aliora il pellegrino dice:
- Messer l’abate, io ho una natura o condizione sí perversa, che spesse volte io divento lupo, con sí gran rabbia che qualunche persona m’è innanzi io divoro, e non so da che né donde proceda; e perché l’uomo fosse armato, cosí lo divoro come se fosse gnudo; e piú e piú volte questo caso m’è avvenuto, e come io sono per diventare lupo, io comincio a sbadigliare e a tremare forte.
L’abate, udendo costui, si cominciò tutto a cambiare, avendo grandissimo timore. Il Gonnella, che avea gli occhi d’Argo, come ciò vede, comincia a tremare e sbadigliare forte, dicendo:
- Oimè, oimè! che io comincio a diventar lupo! - e aprendo la bocca verso l’abate.
All’abate non parve scherzo; levasi in piede e fugge verso la sagrestia. Il pellegrino, come accorto, avea afferrato la cappa, e non lasciandola, sull’entrare dell’uscio della sagrestia l’abate, sfibbiandosi il cordone, lasciò la cappa di fuori, e serrossi dentro all’uscio. Gli altri monaci per la paura s’erano dileguati chi qua e chi là. Il pellegrino, messasi la cappa sotto, se ne va quanto piú puote nella Corte del re, dove avea lasciati li sua panni; e spogliatisi li panni peregrini, si vestí di quelli che piú portava, e andò nella presenza del re e de’ suoi baroni, e disse in credenza quello che avea fatto, e ciò che seguíto era.
Lo re e’ baroni con grandissime risa si maravigliarono della industria e sagacità del Gonnella; e lo re con tutti li baroni li donorono grandemente, sí che acquistò per la cappa dell’abate molto piú che con li stronzi di cane venduti a Salerno. E spacciate in Napoli le sue faccende, si partí, e andò a suo viaggio. L’abate, tutto stordito con li suoi monaci, credea per certo essere colui stato il nimico di Dio che in forma di peregrino era venuto a mordere la sua avarizia; e disse questa novella con alcuni, sí che pervenne alli orecchi del re. Il quale mandò per lui, e domandollo se fosse vero quello ch’egli avea udito. L’abate affermava di sí, e che veramente credea fosse stato il diavolo, e in fine soffiava e sospirava della sua cappa. Lo re e’ baroni, che ciò sapeano, udendo l’abate, ne presono doppio sollazzo; e in fine credo che l’abate il sapesse, benché mai non mostrò di saperlo per non arrogere li scorni e le beffe al danno.
Molto dee essere caro a’ piú de’ lettori, quando si fatte beffe veggono fare agli uomeni cosí avari e spezialmente a’ cherici, ne’ quali ogni vizio di cupidità regna, avendo sempre gli animi per quella a dire menzogne, a fare escati, a tendere trappole, a vendere Iddio e le cose sacre. Sallo Elli medesimo, che a loro gli ha conceduti, chi sono o da che sono li piú che hanno a governo li suoi templi; ché serebbe meno male che quelli rovinassono che essere fatti ostelli di sí viziosa gente.

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