< Il Trecentonovelle
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Novella CLIII
CLII CLIV

Messer Dolcibene, andando a vicitare uno cavaliere novello, ricco e avaro, con uno piacevol morso il desta a farsi fare qualche dono.

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E’ mi conviene pur tornare a messer Dolcibene, il quale in piú novelle a drieto è stato raccontato, però che fu il da piú uomo di corte che fosse già è gran tempo, e non sine quare Carlo di Buem Imperadore il fece re dei buffoni e delli istrioni d’Italia. Essendosi fatto in Firenze uno cavaliere, il quale sempre avea prestato a usura ed era sfolgoratamente ricco, ed era gottoso e già vecchio, in vergogna e vituperio della cavalleria, la quale nelle stalle e ne’ porcili veggo condotta: e se io dico il vero, pensi chi non mi credesse s’elli ha veduto, non sono molti anni, far cavalieri li meccanici, gli artieri, insino a’ fornai; ancora piú giú, gli scardassieri, gli usurai e rubaldi barattieri. E per questo fastidio si può chiamare cacalería e non cavalleria, da che mel conviene pur dire. Come risiede bene che uno judice per poter andare rettore si faccia cavaliere! E non dico che la scienza non istea bene al cavaliere, ma scienza reale sanza guadagno, sanza stare a leggío a dare consigli, sanza andare avvocatore a’ palagi de’ rettori. Ecco bello esercizio cavalleresco! Ma e’ ci ha peggio, che li notai si fanno cavalieri, e piú su; e ’l pennaiuolo si converte in aurea coltellesca. Ancora ci ha peggio che peggio, che chi fa uno spresso e perfido tradimento è fatto cavaliere. O sventurati ordini della cavallería, quanto sete andati al fondo!
In quattro modi son fatti cavalieri, o soleansi fare, che meglio dirò: cavalieri bagnati, cavalieri di corredo, cavalieri di scudo e cavalieri d’arme. Li cavalieri bagnati si fanno con grandissime cerimonie e conviene che siano bagnati e lavati d’ogni vizio. Cavalieri di corredo son quelli che con la veste verdebruna e con la dorata ghirlanda pigliano la cavallería. Cavalieri di scudo sono quelli che son fatti cavalieri o da’ popoli o da’ signori, e vanno a pigliare la cavallería armati e con la barbuta in testa. Cavalieri d’arme son quelli che nel principio delle battaglie o nelle battaglie si fanno cavalieri. E tutti sono obbligati, vivendo, a molte cose che serebbe lungo a dirle; e fanno tutto il contrario. Voglio pur aver tocco queste parti, acciò che li lettori di queste cose materiali comprendano come la cavallería è morta. E non si ved’elli, che pur ancora lo dirò, essere fatti cavalieri i morti? che brutta, che fetida cavallería è questa! cosí si potrebbe fare cavaliere un uomo di legno, o uno di marmo, che hanno quel sentimento che l’uomo morto; ma quelli non si corrompono e l’uomo morto subito è fracido e corrotto. Ma se questa cavallería è valida, perché non si può fare cavaliere un bue, uno asino, o altra bestia che hanno sentimento, benché l’abbiano inrazionabile? ma il morto non l’ha né razionabile né inrazionabile. Questo cotal cavaliere ha la bara per cavallo, e la spada e l’arme e le bandiere innanzi come se andasse a combattere con satanasso. O vana gloria dell’umane posse!
E ritorno al cavaliere novello di sopra; al quale andando messer Dolcibene, come i suoi pari fanno, per acquistare o dono di roba o di danari, lo trovò stare malinconoso e pensoso, come se facesse mestiero di qualche suo parente, e poco farsi lieto della cavallería e meno della sua venuta.
Di che messer Dolcibene comincia a dire:
- O che pensate?
Que’ soffiava come un porco; e non rispondendo se non a stento, disse messer Dolcibene:
- Doh, messer... non vi date tanta malenconia, ché per lo corpo di Dio se voi ci avete a vivere, voi ne vedrete fare de’ piú cattivi di voi.
Il cavaliere disse:
- O pur bene, voi me n’avete appiccata una.
Disse messer Dolcibene:
- Se voi ne sete fuori per una, buon per voi; ma se voi non pigliate altro partito, io ve n’appiccherò piú di quattro.
Il cavaliere si sta, e non dice piú parola; se non che fa venire i confetti e da bere, e ad altro non riesce. Alla per fine veggendo messer Dolcibene che questo cavaliere non riescía ad altro, comincia a dire:
- Io sono venuto a voi, però che ’l Comune ha posto una gabella che ogni cattivo debba pagare lire dieci; e io per lo detto Comune son venuto, per riscuoterla da voi.
Dice il cavaliere:
- Se io debbo pagare cotesta gabella, io sono contento; ma fatevi pagare a questo mio figliuolo, il quale è qui presente, il quale è due cotanti cattivo di me, che a quella medesima ragione ha a pagar lire venti.
Messer Dolcibene si volge al giovane:
- Fa’ tosto quello che tu déi -; e abbreviando le parole, e’ non valse lo scontorcere, ché messer Dolcibene per lire trenta tra amendue ebbe fiorini otto, e anco non gli cancellò del libro della detta gabella; però che con bocca per grande improntitudine gli assannò in quelli dí, empiendosi il corpo come poteo.
E ’l cavaliero, o che si pentisse del sogno avea fatto o come che s’andasse, fu piú misero nella cavallería che non era stato prima; e questo incontra sempre, però che chi nasce cattivo, non ne guarisce mai.

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