< Il Trecentonovelle
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Novella CLXXV
CLXXIV CLXXVI

Antonio Pucci da Firenze truova esser messo in uno suo orto di notte certe bestie, e con nuovo modo s’abbatte a chi l’ha fatto.

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Io non voglio per ora raccontare piú dell’opere del Gonnella, però che mi conviene dar luogo agli altri; e ancora, perché Antonio Pucci, piacevole fiorentino, dicitore di molte cose in rima, m’ha pregato che io il discriva qui in una sua novella; la quale, perché con risa se la portò in pace pensando ancora chi gli la fece, è da prenderne ancora un poco di trastullo.
Antonio Pucci avea una casa dalle fornaci della via Ghibellina, e là avea uno orticello che non era appena uno staioro, e in quello poco terreno avea posto quasi d’ogni frutto e spezialmente di fichi, e aveavi gran quantità di gelsomino; ed eravi uno canto pieno di querciuoli e chiamavalo la selva. E questo cosí fatt’orto, con le proprietà sue, avea messo il detto Antonio in rima, in capitolo, come Dante e in quello trattava di tutti li frutti e condizioni di quell’orto, né piú né meno come se fosse ubertoso, come la piazza di Mercato Vecchio di Firenze, della quale già mise in rima tutte le sue condizione, magnificandola sopra tutte le piazze d’Italia. Era in questi tempi certi piacevoli uomeni in Firenze, l’uno de’ quali era un Girolamo che ancora vive, uno Gherardo di... e Giovanni di Landozzo degli Albizi, e uno che avea nome Tacchello tintore, e altri, li quali erano piú nuovi l’uno che l’altro. Erano costoro cosí nuova brigata come ne’ loro tempi fosse nella nostra città.
Udendo costoro tanto e per prosa e per versi dire ad Antonio di questo orto, si posono in cuore di mettervi una notte certe bestie dentro che ’l pascessono, e Antonio facessono smemorare; e brievemente, una sera al tardi al prato del Renaio vidono un muletto e due asini magri e vecchi alla pastura. Trovorono modo che uno di loro gli mise in uno luogo di drieto a questo orto, là dove era uno uscetto serrato con legname e ancora di fuori murato a secco, e dentro con chiavistello e toppa serrato a chiave che gran tempo non era stato aperto. E sul primo sonno, andando due innanzi a smurare il muro di fuori, e altri su per le mura entrati dentro, aprirono, o con grimaldello o con altro artificio, il detto serrame, sí che l’uscio e smurato e aperto rimase. Fatto questo, i due micci e ’l muletto furono ivi menati e messi dentro. Il quale muletto era stato adornato a casa il Tacchello, prima che ve lo menassono, d’una gorgiera di cuoio e altre cose assai maravigliose. E poi che fu introdutto nell’orto, di quello gensomino gli feciono e posoliera e briglia in grande adornamento e là il legorono a’ piedi d’un lastrone tondo dove Antonio cenava la sera; e su quello lastrone missono molti cavoli, i quali nel dett’orto aveano colti, acciò ch’egli avesse buona profenda. E fatto questo, subito serrano l’uscio con ingegni per modo che non parea mai stato aperto; e sequentemente murorono di fuori, come prima era, e vannosi con Dio.
La mattina vegnente Antonio, che avea una cameretta sul detto orto, dall’altra parte dove era la casa, e ivi dormía, levandosi la donna prima ed elli poi, e andandosi affibbiando per l’orto, ebbe vedute queste tre bestie selvagge, e oltre a ciò che non aveano lasciato filo di buona opera, avendo ogni cosa e roso e guasto, quasi uscí di sé, dicendo:
- Che vuole dir questo? - e andato all’uscio, dond’erano entrati, trovando serrato come prima era, maggior maraviglia si diedono; e piú ancora che andò di fuori e videlo murato come prima.
Brievemente, la malenconia dell’orto guasto fu grande; ma maggiore era il pensiero donde fossono entrati. E fra l’altre cose, veggendo il mulo cosí addobbato co’ cavoli innanzi, ancora piú si maravigliavono dicendo:
- Che inghirlandamento è questo?
Dicendo Antonio Pucci:
- Io credo pur essere nato di legittimo matrimonio -; e volgendosi alla moglie, dicea: - E cosí credo che sia anco tu; questa è una nuova cosa e non so quello che io me ne creda! percuotere ne potrei il capo al muro e altro non avrei; pur m’ingegnerò con ogni sottigliezza trovare chi m’abbia fatto questo, e diàncene pace.
Detto questo, s’ingegnorono mettere il bestiame fuori dell’orto; il quale convenne passasse per una cameretta dove dormía Antonio e la moglie; e convennesi disfare la lettiera, perché potessino passare: e messigli nella via, si ritornorono a pascere al Renaio; e cosí rimase la cosa.
Quel dí medesimo il detto Antonio pensò un sottil modo per trovare chi avesse fatto la faccenda; e qualunche trovava suo domestico, salutandosi con lui, dicea:
- Ben t’ho.
Colui che era salutato da lui e non era stato a fare quella faccenda, s’andava con Dio, sanza dire altro. Scontrossi in quello dí nel Tacchello tintore, il quale disse:
- Addio, Antonio.
E Antonio rispose:
- Addio Tacchello, ben t’ho.
E Tacchello risponde:
- Alle guagnele, Antonio, che io non fu’ io.
Allora Antonio s’accosta al Tacchello e dice:
- O chi fu altri che tu?
E quelli rispose:
- E’ furono i tali e tali.
E per questa maniera seppe di qualunche v’era stato; e a uno a uno dolutosi, costò a ciascheduno una cena e fu fatta la pace: facendo poi Antonio Pucci uno sonetto di tutto questo fatto che non fu meno piacevole che la novella.
Un altro averebbe abbaiato tre mesi e in su ogni canto averebbe detto: «E’ m’è stato fatto sí e sí: per lo corpo e per lo sangue, che converrà che sia Roma e Toma». Costui, come saggio, sanza dire o mostrare alcuna cosa, con uno ben t’ho chetamente seppe chi gli avea messo le bestie nell’orto, e dall’altro ebbe migliore pastura che non furono i cavoli che furono dati al mulo; e poi dicendo la novella a molti, piú tempo se ne risono.

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