< Il Trecentonovelle
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Novella CLXXXVI
CLXXXV CLXXXVII

Messer Filippo Cavalcanti calonaco di Firenze credendo avere la sera d’Ognissanti una sua oca cotta, per nuovo modo gli è tolta.

*

Una novella d’un’altr’oca mi viene a memoria di raccontare, la quale, con gran diligenza essendo piena, non di capo di gatta ma d’allodole e d’altri uccelletti grassi, venne alle mani di certi che se l’ebbono, come la fu cotta; e colui, di cui l’era, si stette alla musa la sera d’Ognissanti. Non è molti anni che in Firenze in Porta del duomo furono certi gioveni, li quali si pensarono tra loro di fare uno Ognissanti, sanza fatica e sanza costo, alle spese altrui. E avviatisi la sera d’Ognissanti a certi forni, tolsono alcune oche a’ fanti e alle fanti che le portavono a casa. E giugnendo molto tardi al forno della piazza de’ Bonizi, stando di fuori assai nascosi, veníeno i servi al forno, e diceano:
- Dammi l’oca del tale de’ Ricci.
Quando udivano dire de’ Ricci, diceano:
- Questa non è l’oca nostra -; se diceano de’ Medici, o degli Adimari, diceano il simile.
Avvenne che uno fante bergamasco giugne e dice:
- Dammi l’oca di messer Filippo Cavalcanti - (che era calonaco di Santa Reparata).
La brigata dice l’uno all’altro:
- O questa è l’oca nostra.
E aúto che ’l fante ebbe la detta oca nel tegame, come è consuetudine, s’avviò d’andare a casa messer Filippo con essa, che stava in quella via appiè del campanile; dove sempre v’era taverna, e luogo assai oscuro. Come i gioveni vidono mosso l’amico, cosí gli s’inviano dirieto; e giugnendo il fante all’uscio che era serrato, come cominciò a picchiare, e due s’accostaro; l’uno dà d’uncico all’oca, e l’altro il tiene dirieto, e lasciatolo, e fuggendo tutti come cavriuoli, fu tutt’uno. Il fante comincia a chiamare messer Filippo con alta boce, ché ancora non avea aperto:
- O messer Filippo, l’oca sen va, o messer Filippo, l’oca sen va.
Messer Filippo ciò udendo, si muove dicendo:
- Come sen va l’oca, che sie mort’a ghiado? non è ella morta, e cotta?
E ’l fante spesseggiava:
- Io vi dico ch’ella sen va, venite tosto.
- Come sen va, che sia tagliato a pezzi? è ella viva? - e con questo giugne all’uscio, e apre.
E ’l fante dice:
- Oimè, messere, certi ghiottoni m’hanno rubato l’oca.
Dice messer Filippo:
- O non potevi tu dire: l’oca m’è tolta? che sia impiccato, come seranno ellino.
E cosí detto, andò ben cento passi gridando:
- Pigliate i ladri.
Trassono fuori de’ vicini.
- Che è, che è?
Ed e’ risponde:
- Come diavol: «che è?»; èmmi stata tolta l’oca che venía dal forno.
Dice il fante:
- Voi dite villania a me, perché io dicea che l’oca se n’andava; e voi dite ch’ella venía dal forno; o come venía, s’ell’era morta, e non era viva?
Messer Filippo guata costui, e dice:
- O questo è ben peggio che ’l fante vuole loicare meco, quando s’ha lasciato tòr l’oca: va’, fa’ che noi abbiamo degli agli a cena, che Dio ti dia il malanno e la mala pasqua.
Alcuni vicini che scoppiavono al buio, diceano:
- O messer Filippo, pazienzia.
E quelli rispondea:
- Come pazienzia? che è cosa da rinnegare la fede!
L’altro dicea:
- Volete cenar meco?
Egli era sí infiammato che non udía e non intendea; avea l’animo a quelli uccelletti che erano nell’oca che l’aiutorono a volare; e poi se n’andò in casa, e tutta sera gridò col fante, e ancora dicea:
- S’io posso sapere chi me l’ha tolta, mai non vederà oca che di quella non gli venga puzzo.
Elle furono parole: e’ convenne che facesse sanza l’oca, e mangiasse altro; e molto stette che pace non se ne diede.
E perché dice: «Una pensa il ghiotto, e l’altra il tavernaio». E la pazienza dicono che noi seguiamo, e per loro poco o niente la vogliono.-

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