< Il Trecentonovelle
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Novella CXCIII
CXCII CXCIV

Messer Valore de’ Buondelmonti di Firenze, andando a uno corredo di Piero di Filippo, il morde con nuove parole, e Piero assai bene se ne difende.

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Ancora ritornerò a un nuovo uomo raccontato a drieto in certe novelle, il quale, come che fusse novissimo e matto sciocco tenuto da gran parte degli ignoranti, dagli intendenti non nuovo, ma vecchio e savio e reo era reputato, e spezialmente in questa novelletta, la quale ebbe forte e del savio e del reo.
Fu costui messer Valore, cavaliere de’ Buondelmonti, fiorentino; il quale, avendo sentito che Piero di Filippo degli Albizi di Firenze, savio e notabile cittadino e grande quanto mai avesse la sua città, avea invitato molti cittadini e forestieri a un grande convito; la qual cosa sentendo messer Valore sanza essere invitato, la mattina a desinare, come gli altri, andò al detto corredo, e portò seco in mano un grande aguto spannale; il quale giugnendo tra la brigata, e Piero, veggendolo, gli si fece incontro, pigliandolo per la mano, dicendo:
- Deh, come avete ben fatto a essere venuto a farmi onore a questo mio convito!
Messer Valore, che era in gonnella, che sempre andava senza mantello in cappuccio a foggia, avendo l’aguto in mano, che tutto il cerchio de’ convitati il vedea, disse:
- Piero, io vegno per mangiar teco e con questi nobeli uomeni e per ricordarti alcune parole, che come elle ti parranno fatte, io te le dirò, credendo ti siano molto utili; e mise l’aguto sopra uno camino, sí che ciascuno il vedea. Tu déi avere letto per le croniche de’ Romani che quando alcuno consolo tornava con gran vittoria sul carro trionfale, perché non si lasciasse assalire alla superbia, era messo in mezzo di due rubaldi, i quali li diceano villania, sputandoli talora nel viso e facendo altre cose assai vituperose. Fa’ ragione, Piero mio, che io sia uno di quelli rubaldi e tu sia in sul carro del gran trionfo; però che, se io considero bene, tu se’ il maggiore cittadino che mai fosse in questa città, e dentro e di fuori sei il piú savio che avesse questa terra per alcun tempo; se’ stato in Puglia e in molti luoghi del mondo: in ogni parte se’ stato reputato savissimo oltre a tutti gli altri. Sí che io non veggio che tu non sie sí alto che piú non puoi andare in su; io veggio troppo bene che tu se’ nel colmo della rota e non ti puoi muovere, che tu non scenda e capolevi. Per questa cagione io t’ho recato quello aguto che tu vedi a quel camino, acciò che tu conficchi la rota; e se ciò non fai, volgendosi com’ella fa, e’ ti converrà cominciare a scendere, e forse venire al di sotto.
Piero, che intendea bene il tedesco, rispose:
- Messer Valore, io mi credea che voi venisse a mangiare con questi valentri uomini per mangiare delle vivande che io dava loro, e voi sete venuto e avetemi dato delle vivande vostre, sí che io posso dire che io desino con voi istamane; ma almeno me l’aveste voi date alle frutte, che serebbono state migliori che quelle di frate Alberigo. Ma, come ch’io non sia a mezza via giunto, là dove voi mi ponete, e’ mi pare che, se la rota si potesse conficcare, la libbra del ferro tornerebbe alla valuta d’oro, però che sono tanti che la vorrebbono conficcare, che ’l ferro tutto intrerrebbe in quella rota. E oltre a ciò, se pur si potesse conficcarla, serebbe fare grandissima ingiustizia a quelli che sono di sotto e nel mezzo e da lato, che vogliono ch’ella volga, per migliorare stato.
Disse allora messer Valore:
- E per lo dire che tu hai fatto incontro alle mie sciocchezze, costoro che mangiono qui con teco ti possono tenere molto da piú che io non ho detto; e pertanto sono meglio contento d’esserci venuto per la evidente pruova che nel tuo parlare hai dimostrata a tutti costoro.
E cosí l’uno all’altro dissono assai cose di sentenzia, e puosonsi a mensa. Dove mangiato che ebbono, messer Valore pigliando comiato, Piero gli disse:
- Togliete l’aguto vostro, ché io nol potrei conficcare dove dite; però che Cesare e Alessandro e molti altri nol poterono conficcare, non che io che sono un piccolo uomo: e potendolo fare non voglio, acciò che ’l mondo non perisca.
Messer Valore tolse lo aguto e disse:
- Et tu es Petrus, et super hanc petram è edificata la sapienzia; e fatti con Dio.
E cosí finirono e ’l convito e’ ragionamenti.
O qual cosa è piú certa che questa rota, la cui velocità nel volgere mai non ebbe posa, e quanti re, e quanti signori, e quante sètte de’ populi e de’ comuni l’hanno già provato! Quanto piú si vede, meno si crede. Chi è in alto stato non pensa mai al calare; e quanto piú va in su, di maggior pericolo è la caduta. Non voglio mettere tempo in allegare le fortune degli antichi signori; guardisi pur una canzonetta che colui che la fece, ve ne mise una gran parte, la qual comincia: «Se la fortuna e ’l mondo, Mi vuol pur contastare, ec.». E non dirò come fu in cima della rota Troia, e come Priamo, e come fu grande Tebe, e come fu alta Cartagine, e ’l suo Annibale, e la setta Barchina, e l’altra; e lascerò stare Roma che signoreggiò tutto l’universo, e ora quello ch’ella tiene; e qual furono i cittadini suoi, e qual sono oggi: ogni cosa è volta di sotto e attuffata nella mota.
Che vo io cercando le cose antiche che si potrebbe dir: forse non fu cosí? diciamo di quelle che ieri vedemmo quanto volubilmente la rota mandò sul colmo re Carlo terzo, e essere re di Puglia e d’Ungheria, e come subito il mandò in alto, tanto subito o piú il volse a basso. Come condusse questa in superiore stato messer Bernabò signore di Melano, per farlo venire nella inferiore parte, là dove sanza ritegno fu disfatto. I signori della Scala come sono arrivati? I Gambacorti signori di Pisa al tempo di Carlo imperadore esser disfatti, e poi disfatto chi signoreggiò dopo loro; poi ritornare messer Pietro Gambacorti e’ suoi nella signoria; e in fine essere morti e cacciati. Non è questo un fare all’altalena? non è questo un farsi certo che sempre questa rota giri? Quanti sono quelli che l’hanno provato e d’ogni stato e d’ogni condizione! non caperebbe in questo volume a raccontarli; e alcuno non pensa, purché abbia ricchezza stato o signoria. E non considera una cosa essere certa, che la ricchezza corre al suo fine, che è la povertà; lo stato ha spesse volte fine di morte o di suggezione, che gli è tolto da un altro che ’l conduce in miseria; la signoria viene infine in servitute. Adunque chi volesse vedere dirittamente, o miseri mortali, quelli è beato che non è sottoposto alle ricchezze, che non ha mai il dolore d’averle perdute; ché, come dice Dante, non è nel mondo alcun maggior dolore. Colui è beato che non ha paura di perdere grande stato, e similmente chi non ha la signoria, che non istà con sospetto e con paura di perderla, sí come rispose un filosofo a un che ’l domandò chi fosse il piú avventurato uomo d’una terra; e quelli rispose:
- Colui che tu credi che sia in maggiore miseria.
Chi notasse questo detto, e considerassi bene con gli occhi della mente, serebbe molto meglio a nascere e vivere e morire povero che nascere ricco e vivere ricco e in grande stato, con grande sollecitudine e sospetto, e poi forse nella fine vivere in miseria. Affatichisi dunque chi ha voglia di stato, o di ricchezza, che nella fine il mondo paga ciascuno della sua fatica.

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