< Il Trecentonovelle
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Novella CXIV
CXIII CXV

Dante Allighieri fa conoscente uno fabbro e uno asinaio del loro errore, perché con nuovi volgari cantavano il libro suo.

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Lo eccellentissimo poeta volgare, la cui fama in perpetuo non verrà meno, Dante Allighieri fiorentino, era vicino in Firenze alla famiglia degli Adimari; ed essendo apparito caso che un giovane cavaliere di quella famiglia, per non so che delitto, era impacciato, e per esser condennato per ordine di justizia da uno esecutore, il quale parea avere amistà col detto Dante, fu dal detto cavaliere pregato che pregasse l’esecutore che gli fosse raccomandato. Dante disse che ’l farebbe volentieri. Quando ebbe desinato, esce di casa, e avviasi per andare a fare la faccenda, e passando per porta San Piero, battendo ferro uno fabbro su la ’ncudine, cantava il Dante come si canta uno cantare, e tramestava i versi suoi, smozzicando e appiccando, che parea a Dante ricever di quello grandissima ingiuria. Non dice altro, se non che s’accosta alla bottega del fabbro, là dove avea di molti ferri con che facea l’arte; piglia Dante il martello e gettalo per la via, piglia le tanaglie e getta per la via, piglia le bilance e getta per la via, e cosí gittò molti ferramenti. Il fabbro, voltosi con uno atto bestiale, dice:
- Che diavol fate voi? sete voi impazzato?
Dice Dante:
- O tu che fai?
- Fo l’arte mia, - dice il fabbro, - e voi guastate le mie masserizie, gittandole per la via.
Dice Dante:
- Se tu non vuogli che io guasti le cose tue, non guastare le mie.
Disse il fabbro:
- O che vi guast’io?
Disse Dante:
- Tu canti il libro e non lo di’ com’io lo feci; io non ho altr’arte, e tu me la guasti.
Il fabbro gonfiato, non sapendo rispondere, raccoglie le cose e torna al suo lavoro; e se volle cantare, cantò di Tristano e di Lancelotto e lasciò stare il Dante; e Dante n’andò all’esecutore, com’era inviato. E giugnendo all’esecutore, e considerando che ’l cavaliere degli Adimari che l’avea pregato, era un giovane altiero e poco grazioso quando andava per la città, e spezialmente a cavallo, che andava sí con le gambe aperte che tenea la via, se non era molto larga, che chi passava convenía gli forbisse le punte delle scarpette; e a Dante che tutto vedea, sempre gli erano dispiaciuti cosí fatti portamenti; dice Dante allo esecutore.
- Voi avete dinanzi alla vostra Corte il tale cavaliere per lo tale delitto; io ve lo raccomando, come che egli tiene modi sí fatti che meriterebbe maggior pena; e io mi credo che usurpar quello del Comune è grandissimo delitto.
Dante non lo disse a sordo; però che l’esecutore domandò che cosa era quella del Comune che usurpava. Dante rispose:
- Quando cavalca per la città, e’ va sí con le gambe aperte a cavallo, che chi lo scontra conviene che si torni adrieto, e non puote andare a suo viaggio.
Disse l’esecutore:
- E parciti questo una beffa? egli è maggior delitto che l’altro.
Disse Dante:
- Or ecco, io sono suo vicino, io ve lo raccomando.
E tornasi a casa, là dove dal cavaliere fu domandato come il fatto stava.
Dante disse:
- E’ m’ha risposto bene.
Stando alcun dí, il cavaliere è richiesto che si vada a scusare dell’inquisizioni. Egli comparisce, ed essendogli letta la prima, e ’l giudice gli fa leggere la seconda del suo cavalcare cosí largamente. Il cavaliere, sentendosi raddoppiare le pene, dice fra sé stesso: «Ben ho guadagnato, che dove per la venuta di Dante credea esser prosciolto, e io sarò condennato doppiamente».
Scusato, accusato, che si fu, tornasi a casa, e trovando Dante, dice:
- In buona fé, tu m’hai ben servito, che l’esecutore mi volea condennare d’una cosa, innanzi che tu v’andassi; dappoi che tu v’andasti, mi vuole condennare di due -; e molto adirato verso Dante disse: - Se mi condannerà, io sono sofficiente a pagare, e quando che sia ne meriterò chi me n’è cagione.
Disse Dante:
- Io vi ho raccomandato tanto, che se fuste mio figliuolo piú non si potrebbe fare; se lo esecutore facesse altro, io non ne sono cagione.
Il cavaliere, crollando la testa, s’andò a casa. Da ivi a pochi dí fu condennato in lire mille per lo primo delitto, e in altre mille per lo cavalcare largo; onde mai non lo poté sgozzare né egli, né tutta la casa degli Adimari.
E per questo, essendo la principal cagione, da ivi a poco tempo fu per Bianco cacciato di Firenze, e poi morí in esilio, non sanza vergogna del suo Comune, nella città di Ravenna.

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