< Il Trecentonovelle
Questo testo è completo.
Novella CXXXIII
CXXXII CXXXIV

Uberto degli Strozzi, essendo de’ Priori, al tempo che lo Imperadore Carlo passò a pigliare la corona, in uno dí con due piacevoli detti quella tristizia fa convertire in risa.

*

Quando lo imperadore Carlo re di Buem passò in Italia a pigliare la corona, essendo in Italia molto prosperato, e spezialmente in Toscana, avendo Pisa e Siena e Lucca, a’ Fiorentini parea stare assai male. Era fra quelli tempi de’ priori Uberto degli Strozzi e Salvino Beccanugi, e altri loro compagni; li quali facendo un consiglio di richesti, ed essendo molti cittadini ragunati nella sala, e confortandosi per li savi la gente; dicendo alcuni esso, per non aver denari, convenirsi tosto partire di Toscana; altri diceano: «Di maggiori pericoli siamo campati»; e confortavasi la brigata molto con gli aglietti, Uberto degli Strozzi che era de’ priori, era uno uomo antico e piacevolissimo quanto avesse la nostra città, e con questo era molto povero; Salvino Beccanugi era anco poverissimo. Di che essendo nel consiglio de’ richiesti per li consiglieri detto quanto facea di bisogno; Uberto degli Strozzi per l’ufficio de’ priori si levò su, e disse:
- Savi consiglieri, i Signori hanno udito li vostri consigli, e veggendogli molto uniti n’hanno preso grandissimo conforto, pensando tosto metterli ad esecuzione. Una cosa vi voglio dire come Uberto: il diavolo non è nero come si dipigne. Questo imperadore ci può star molti dí, come volare per aria; però che veramente sappiamo ch’egli è piú povero che non è Salvino Beccanugi, che è qui nostro compagno.
Salvino era molto antico: sente dire questo a Uberto, levasi e faglisi incontro, dicendo:
- Che di’ tu, che di’ tu di me? che povero? io sono piú ricco di te.
Ed era sí infiammato che Uberto non potea fare conclusione al suo dire; e dice:
- Per dire il vero, non sono lasciato dire: Salvino m’interrompe il dire; apri la porta, e andatevi con Dio.
Or di questo Salvino non si potea dar pace, perché rimase tutto scornato, contendendo con Uberto. E Uberto li dicea:
- Deh, Salvino, dattene pace; che cosí foss’io ricco io, come tu se’ de’ piú poveri uomeni ch’io sappia.
E Salvino piú infiammava. E durò la detta questione tanto che, tornati nella udienza, fece il proposto venire un buon vino e de’ confetti, e fece far pace insieme a quelli due poveri gentiluomeni. E quel dí medesimo, essendo andato Rosso de’ Ricci, che poi fu messer Rosso, a provvedere alle castella, tornò dinanzi a’ Signori, e ragionando e rapportando: il tale castello ha bisogno della tal cosa, e lo tale della tale, disse come al castello di Fucecchio bisognava vi si mandassono tre bombarde. Come Uberto l’ebbe udito, alza la gamba e lascia andare una gran coreggia, dicendo:
- Eccon’una, fatti dare a’ compagni l’altre due.
Rosso, sentendo la bombarda, ristrignesi nelle spalle, ed esce fuori dicendo:
- Io sono pagato pur di buona moneta da questi mie’ Signori; se io avessi tal onore dell’altre cose, io potrei star molto lieto.
I priori smascellavano delle risa, e fra quelle riprendeano Uberto; e spezialmente Salvino che dicea:
- Io fo bot’a Dio; Uberto... tutti gli uomini per asini tu troverrai... che ti farà di quello, che ben ti... -
Dice Uberto:
- E’ non ne poteva andar di meno... una brigata si vanno trastullando alle spese del comune; e poi tornano, e per mostrare abbiano fatte cose maravigliose dicono che si mandino le bombarde a Peteccio. Io torrei a sostenere che Aristotile non averebbe meglio risposto, e che in questo palagio mai non si fece piú bella risposta a simile materia.
E’ priori con le risa pensarono forse Uberto non avere il torto; e a Rosso dissono che metterebbono ad esecuzione quello che a loro avea rapportato; e ancora il commendavano che ottimamente avea fatto. E Uberto dicendo:
- Non guardare, Rosso, alla risposta che io ti feci, però che ’l male del fianco m’ha assalito già fa due dí: non te ne curare.
Rosso rispose come si convenía, e nel commiato disse:
- Ogni acconcio d’Uberto è mio, e spezialmente essendo de’ miei Signori; però che le cattive cose non si vogliono tenere, ma voglionsi lasciare andare -; e andossi con Dio.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.