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Un Vescovo dell’ordine de’ Servi al luogo della chiesa loro di Firenze, dicendo le piú nuove cose del mondo, e le piú stolte, tira a sé di molta gente.
La novella passata mi tira a dire quello che, fra l’altre nuove predicazioni che facea, disse un dí un Vescovo dell’ordine de’ Servi nella loro chiesa in Firenze in sul pergamo predicando. Questo Vescovo lavaceci, vogliendo ammaestrare nel vizio della gola, riprendea gli Fiorentini dicendo:
- Voi siete molto golosi; e’ non vi basta magnare le pastinache fritte, ché voi le mettete ancora nell’agliata cotta; e quando mangiate li ravazzuoli, non vi basta, quando hanno bollito nel pignatto, mangiarli con quel buglione, ché voi gli traete del loro proprio brodo e friggeteli in un altro pignatto, e poi gli minestrate col formaggio.
E molte altre cose simili che tutte veníano dalla sua profonda celloria.
E in questa medesima predica, che credo fosse quel dí della Assunzione, venendo a dire come Cristo n’andò in cielo, comincia a dire:
- E’ n’andò ratto piú che cosa che si potesse dire. Come n’andò ratto? andonne come uccello che volasse? piú; andonne come freccia che uscisse d’arco? piú; o come strale che uscisse di balestro? piú; come n’andò? Come se mille paia di diavoli ne l’avessino portato.
Udendo questa cosí bella predica, mi ritrovai in quel dí col Priore dell’ordine, e domandolo qual scrittura dicesse quello che quel Venerabile Mellone aveva detto in pergamo; ed egli rispose ch’egli era de’ piú valenti uomini che avesse l’ordine, ma ch’elli credea che per infirmità ch’egli avea aúto fusse alcun’ora impedito nella mente; e io risposi che quella infirmità era continua e ch’ella durava troppo, però che in ogni predica che facea, dicea cose simili a quelle o vie piú nuove, per sí fatta forma che la gente correa piú al detto frate per avere diletto delle sue dolci parole, che non andavono per divozione alla Nunziata per avere da lei grazia. Riconobbono il loro errore, che ’l faceano predicare, e la stoltizia di colui che predicava; e disposono lui della predica, e feciono predicare un altro. E pensa tu, lettore, che frate costui potea essere; ché passando io scrittore poi ad alcun dí per Mercato Vecchio, costui era sopra un paniere di fichi, e dicea alla forese:
- O donna, quante fiche date vui per un dinaro?
E comprandole le mangiava in piazza.
Le cose stratte fuori di forma, e nuove di scienza, e con sciocchezza adornate nelle sue prediche, furono tante che lingua appena le potrebbe contare, non che io scrivere. Tanto dico che, essendo costui cosí scorto, la gente lasciava l’altre predicazioni, e correano alla sua; essendogli fatte alcuna volta di nuove cose, e fra l’altre gli vidi un dí conficcare la cappa su le sponde del pergamo, e altre cose assai; e tanto se n’avvedea dell’altrui beffe quanto farebbe una bestia.
E questi tali ci ammaestrano spesse volte, e noi cosí appariamo che manco fede abbiamo l’un dí che l’altro.
Questo frate tenea oppinione che quando il nostro Signore andò in cielo che n’andasse cosí veloce e ratto come avete udito. Uno mio amico veggendo il dí dell’Ascensione all’ordine de’ frati del Carmine di Firenze, che ne faceano festa, il nostro Signore su per una corda andare in su verso il tetto, e andando molto adagio, dicendo uno:
- E’ va sí adagio che non giugnerà oggi al tetto.
E quel disse:
- Se non andò piú ratto, egli è ancor tra via.