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SUGLI ACCENTI TÒNICI
come sussídio all’insegnamento della rètta pronuncia
Nòta pei Maèstri e le Maèstre di Lingua italiana.
Fuòri di qualche emendamento di sole paròle sono due soltanto le novità introdotte in questa quinta edizione, e fûrono entrambe suggerite dal fatto che questo libro è giá, e dalla speranza che continui ad èssere, adoperato nelle scuòle come libro di lettura. La prima è quella d’una tale riduzione di prezzo, da rènderlo accessibile anche alle ìnfime classi, cosí che anche per le scuòle rurali non si pòssa trovare facilmente altro libro che, a parità di mòle e bellezza d’edizione, si venda per sí pòca moneta.
La seconda novità consiste nell’introduzione degli accènti tònici sulle paròle, secondo il sistèma già proposto e adottato dai migliori maèstri, allo scopo di facilitare e universalizzare la rètta pronúnzia della lingua italiana.
L’uso di questi accènti non è più dunque nemmeno una novità per sé stesso; sicché egli potrèbb’èssere per questa vòlta dispensato dal subire la sòrte inevitàbile di tutte le novità, per quanto buòne, ragionévoli ed útili; quella d’essere accòlte con indifferènza dal pùbblico, per natura tradizionalistico, e, se occorre, anche d’esser combattute da quei medésimi che dovrèbbero èssere i piú interessati a favorirle. Qualche riflessione in propòsito non tornerá tuttavia inopportuna.
— L’unitá della lingua è o non è uno dei coefficiènti dell’unitá d’una nazione? —
— Cèrto lo è; anzi, tra i molti, uno dei prìmi.
Una d’arme, di lingua, d’altare, |
— Ditemi ora di grazia se tra i costitutivi dell’unitá della lingua non ci dève èssere anche l’unitá della pronúnzia?
— Pare di sí. —
— Dite sí adirittura; e státemi ad udire.
Perché mai l’unitá della lingua ha tanta importanza nell’effettiva costituzione di un pòpolo a nazione? Perché condizione prima per costituirsi, pòi per mantenersi nazione, pòi ancora per isvòlgersi, per progredire, per diventare una grande nazione, è quella sèmpre che gl’indivìdui costituènti s’intèndano; e s’intèndano bène fra loro; possano cioè comunicarsi a vicènda le pròprie idèe, tanto che non si arrisichi di rinnovare, e sarèbbe pur tròppo per la millèsima vòlta, la stòria della famosa Torre.
Dalla necessitá che i singoli pòssano comunicarsi, scrivèndo parlando, le singole idèe, se vògliono intèndersi, deriva la necessitá di un único sistèma di segni per esprímerle. Prima base dell’unitá della lingua è quindi l’unitá del lèssico, ossia l’unitá delle singole paròle o segni esprimènti le singole idèe: questo s’intènde. Ma siccome in concrèto lingua viva non esiste se non è scritta e parlata, ne viène di conseguènza che unitá di lingua non s’ottiène, se le singole paròle non sono da tutti nell’eguál mòdo scritte e pronunziate. Non c’è dunque unitá di lingua scritta, senza unitá d’ortografia; né unitá di lingua parlata, senza unitá di pronúnzia. Noi non ci occupiamo ora che di quest’última.
Nella lingua parlata il suòno è tutto; poiché non è che un suòno la paròla, sia che trasmetta un’idèa ad un solo uòmo, sia che nello stesso momento lo comunichi ad un’adunanza di migliaja di persone. In prática dunque l’unitá della pronúnzia finisce ad èssere della stessa importanza, per l’unitá d’una lingua, e quindi di una nazione, che l’unitá del lèssico.
Non faccio nemmèn questione del dove in Itália si debba andar a prèndere quel mòdo di pronúnzia, a cui deva cercare almeno d’accostarsi, come a tipo, chiunque lègga o parli, onde sia unica la pronúnzia dell’italiana favèlla. Se (lasciando pur sèmpre apèrta la partita per tutto ciò che v’ha ancora di discutibile ragionevolmente) ormai è ammesso, anche dai piú restii al pensièro manzoniano, doversi, in via di mássima, riconóscere anzitutto nella parlata toscana il tipo dell’italiano idiòma; ne viene di conseguènza che la Toscana divènti anche la legislatrice dell’italiana pronúnzia. Ma qui sta il busillis. Se alcune règole di pronúnzia pur ci sono anche per una parte della lingua italiana, io credo che per la mássima parte essa ne difètti ancora, e non sia nemmeno possibile stabilirle; onde, se l’usus te plura docebit sèrve a riempire qualche vuòto nelle règole della prosodía latina, finisce ad èssere per l’italiana la règola generale per non dire l’única.
— Manderemo dunque d’ora innanzi tutti i nòstri bambini in Toscana, perché colle vérgini orécchie s’imbévano delle dolcezze della lingua italiana parlata? ovvero faremo una legge che a nessuno, il quale non sia toscano, sia permesso d’insegnare la lingua italiana?
Nò; non dubitate che si vòglia uscir mai dal campo prático. Non vogliamo nò confóndere la música, e quasi vorrei dire voluttuosa melodía, della parlata toscana, quale ci fa rimanere a bocca apèrta, quando il caso ci pòrti su per le pendici del pistoiese Appennino, affaticate dal Giusti e dal Giuliani; non vogliamo confóndere quanto v’ha in Toscana di veramente nativo, di essenzialmente orgánico nella parlata (che non lascia anche talora d’èssere difettoso e sgradévole), nelle inflessioni della voce, nella modulazione delle paròle, in quella vocalizzazione compléssa, la quale troverebbe, non giá negli accènti, ma a mala pena nelle nòte musicali la sua gráfica espressione; non vogliamo, dico, confóndere tutto questo con ciò che per noi si chiama semplicemente rètta pronúnzia. Quella rètta pronúnzia, la quale consiste, piú che in altro, nel fare una síllaba piuttòsto brève che lunga, nel pronunziare cèrte vocali piuttòsto apèrte che chiuse, insomma nell’uniforraarsi all’uso dei bèn parlanti, cosí anche giovando alla perfètta intelligenza delle paròle.
I Maèstri e le Maèstre, a cui sono specialmente rivòlte queste considerazioni, non hanno bisogno certamente d’esser richiamati a qualcuno dei mille casi, in cui basta una sillaba che si pronunzi lunga piuttòsto che brève, una vocale che suòni apèrta piuttòsto che chiusa, perchè vada a ròtoli il concètto, quando pure la cosa piú sèria non día luògo per avventura al mássimo del ridicolo.
Ad ottenere qualche còsa di piú che una rètta pronúnzia mirano probabilmente le cattedre di bella pronúnzia, fondate prèsso alcune delle scuòle superiori, i prèmî a chi sa mèglio lèggere proposti ai maèstri ed alle maèstre, ed altri mezzi, a cui si èbbe o si potrá avèr ricorso, i quali pói, a giudizio di persone prátiche ed esperimentate, appròdano a pòco dappertutto. Ma intanto non v’ha dúbbio che, ad ottenere modestamente il sèmplice effètto d’una rètta pronúnzia, com’è intesa dall’autore di questo libro, possono bastare gli accènti, secondo il sistèma in esso seguito, od altro migliore, che altri potrebbe in sèguito proporre.
— Ma è pòi tale realmente il danno, e tanto efficace il rimèdio, perchè valga la pena d’infarcire di tanti pennacchietti le págine degli stampati? Uno sdrúcciolo di piú o di meno, un’o od un’e che si pronúnzî piuttòsto chiusa che apèrta, non sono pòi tali sconci da rèndere, come sembra volersi minacciare, inintelligibili gl’Italiani gli uni agli altri. —
Pròprio non c’è peggiór malato di quello che del suo male non s’accórge. Bisognerebbe peraltro diffóndersi tròppo, entrare in tròppi particolari per dimostrare come attualmente, spècie nelle province d’Itália forse piú popolose e colte, infinitamente maggiore del bisogno d’imparare a bène scrivere, sia quello di apprèndere a bèn parlare. Me ne appèllo a chiunque siasi occupato un pò’ della matèria, o ábbia anche soltanto avuto occasione di istituire semplicemente a orècchio un paragone tra i divèrsi mòdi di parlare la lingua italiana, di quelli che predicano, insegnano, arringano, o semplicemente convèrsano secondo i divèrsi paesi, o secondo le persone che ai divèrsi paesi appartengono. Che babilònia pel sèmplice dato e fatto d’una cattiva pronúnzia! Intanto è piú facile trovare, per esèmpio a Torino Milano, cènto persone che pronunziano benissimo il francese, che una la quale pronunzi tollerabilmente l’italiano.
Quelli che hanno fatto un corso di studî, e son venuti su in contatto con gènte molto educata, tanto tanto, o per udito, o per qualche stúdio a propòsito, si sono formati l’abitúdine d’una pronúnzia un pò’ meno infelice, e sòrton fuori meno facilmente con cèrte idiotággini, con certi qui pro quo di pronúnzia, specialmente di piane e di sdrúcciole, che fanno ridere i polli. Non cosí la gran maggioranza, che ha finito la sua carrièra di studi colle elementari, dove si cominciava coll’a-bi-ci-di, insegnando a lèggere a-be-ce-de, e si tirava innanzi coll’u lombardo, inesorabilmente acuto come una lancia, e via col rèsto come veniva, sotto il dettato del piú imperterrito tradizionalismo. Parecchi di questa grande maggioranza, continuando ad erudirsi colla lettura di libri o di giornali, sono giunti a levarsi ad un cèrto grado di coltura, e sanno a tèmpo e luògo sciorinare il loro bravo discorsetto nell’aula del consiglio comunale, o del comizio agrário, della congregazione di caritá; e sarebbero usciti con pláusi anche da qualche púbblica assemblèa, se lo scòglio di quella lunga o di quella brève non avesse fatto naufragare d’un tratto in una púbblica risata tutta la loro eloquènza. Giá per questi, come per tutti quelli che, al pari dell’autore di questo scritto, hanno oltrepassato da tròppo tèmpo l’etá della discrezione, non c’è che incrociare le braccia e ripètersi — oportet studuisse. — Ma ora dobbiamo pensare a rèndere migliore della nòstra in tutti i sènsi la nuòva generazione che va crescèndo nelle scuòle e nelle famiglie.
E ai forastièri non ci pensate?... Noi ci lagniamo che la lingua italiana non sia abbastanza popolare all’èstero, come lo sono da noi il tedesco, l’inglese e specialmente il francese. Molte saranno le ragioni di tale trascuratezza da parte dei forastièri; ma si sa per cèrto che essi quando cominciano ad imparare la nòstra lingua, s’indispettíscono per la difficoltá della pronúnzia; difficoltá che, sfido io, se esiste per altra ragione che pel difètto di règole, o di sussidî che suppliscano a questo difètto. E tanto piú s’indispettíscono quelli i quali, dopo aver studiato amorosamente per anni la nòstra lingua e imparato a scriverla lodevolmente, sapendo a memòria i nòstri migliori autori, appena aprono bocca venendo tra noi, si accòrgono che tratteniamo a stènto gli scòppî di ilaritá.
— Dunque, per finirla, se sta quanto volete dimostrare, bisognerá che d’ora innanzi non si stampino piú nè libri, nè gazzette, che non portino gli accènti tònici, secondo il sistèma adottato nella quinta edizione del Bèl Paese. —
Còsa molto desiderábile certamente; ma l’autore è persuaso che sarèbbe una sciocchezza sperarla quando e dove si sa che nessuno gli darèbbe rètta. Peraltro, se la proposta si riducesse a quella dell’accentatura dei libri destinati all’insegnamento della lingua italiana, specialmente nelle scuòle primárie, ginnasiali e normali, mi pare che nessuno dovrèbbe farle il viso dell’arme, e gridare, come pure s’è fatto in altri tèmpi, all’inútile, all’impossibile, all’assurdo. Se volete ottenere qualche còsa di durèvole, cominciate senz’altro dagli Abbicci e dai primi gradi di lettura: in sèguito, un buon Dizionário, una buòna Grammática, una buòna Antologia e alcuni libri di lettura piú popolare e piú in uso nelle scuòle, come p. es. i Promessi Spòsi, che venissero opportunamente introdotti coi rispettivi accènti, basterèbbero ad iniziare, con certezza di buòn succèsso, questa campagna di nuòvo gènere, dirètta a combáttere dovunque si tròvi la tradizionale barbárie della nòstra cattiva pronúnzia.
A tale ridotta, la proposta dell’autore è certamente modèsta, ma per compènso molto prática; nè pare un eccèsso di supèrbia la sua speranza che il suo libro, dopo l’esaurimento di quattro copiose edizioni, pòssa aspirare a quel grado di popolaritá, che valga la spesa di sottoporlo al proposto sistèma di accentatura. E appunto una pròva della generale deficiènza in cui si trovano gl’italiani di ciò che riguarda l’uso dello scrívere e del parlare la pròpria lingua, e del bisogno in ispècie di apprèndere per qualunque via a pronunziarla rettamente, sta nel fatto che l’autore medèsimo, benchè non abbia risparmiato fatica per ispogliarsi della rozza vèste nativa in fatto di lingua, benchè abbia avuta la sorte di passare parecchi anni nella Capitale toscana, e fin quella, sia pure non meritata, di venir aggregato all’Accadèmia della Crusca, trovándosi al punto di dar effètto all’idea vagheggiata da lungo tèmpo di pubblicare un’edizione popolare accentata del Bel Paese, dovette confessare a sè stesso che l’èssere convinto che una còsa è buòna, non basta per avere la capacitá di farla. Chè! mèssosi all’òpra, manco una página del suo libro sentí di potere arrischiarsi ad accentare per la stampa; e siccome si fa prèsto a convincersi che, nell’era attuale almeno, non altri che un Toscano potrèbbe sobbarcarsi senza pericolo all’improba fatica; cosí si vòlse a cercarlo, ed ebbe l’insperata fortuna di trovarlo nell’òttimo amico suo prof. Ulisse Pòggi, sperimentato maèstro ed istitutore dell’italiana gioventú; il quale l’incárico accettato adempí con tale paziènza ed affètto, che l’animo commòsso dell’autore del Bel Paese non potrebbe mai trovare paròle adeguate per manifestargli la sua riconoscènza. I Maèstri e le Maèstre giá lo conòscono come autore di òpere scolástiche accentate e come vècchio commilitone del compianto Luigi Sáiler, con cui iniziò e sostenne per òtto o nòve anni col periòdico Le Prime Letture quella gloriosa campagna contro la reazione che continuò a ferirle e contro l’indifferènza che l’ha lasciate morire.
Dunque del prof. Ulisse Pòggi è la fatica, suo il mèrito, e a lui è dovuta tutta la gratitúdine degli insegnanti e degli allièvi, se questo libro, con altri che l’hanno preceduto o si spèra lo seguiranno, servirá a promuòvere, a facilitare, a rèndere normale e sicuro l’insegnamento dell’italiana pronunzia, a corrèggere alquanto le tròppo inveterate cattive abitúdini, a vincere cèrti pregiudizî, ed a conciliare, mediante l’evidènza dei buòni effètti, col nuòvo sistèma i vècchi ritrosi, a divulgarlo, e sopratutto a farlo adottare nelle scuòle; il che non potrá èssere che sommamente favorèvole all’italiana coltura.
Séguono le règole dettate espressamente dal prof. Ulisse Pòggi per l’uso ed il valore degli accènti.