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SELVA SECONDA
DISTICHON
Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe; |
HEXASTICHON
Mintiadas inter fulicas mihi sueta phaselus |
PREFAZIONE
TRIPERUNO.
D’errori, sogni, favole, chimere, «Tria sunt difficilia, quarum penitus ignoro: viam aquilae in coelo, viam colubri super petram, viam viri in adolescentia sua». Eccles.
fantasme, larve un pieno laberinto,
ch’un popol infinito, a larghe schiere,
assorbe ognora, tien prigione e vinto,
voglio sculpir non ne l’antiche cere,
non ne le nove carte; anzi depinto
di lagrime, sudor, di sangue schietto
avrollo in fronte sempre o ’n mezzo ’l petto.
In fronte o ’n mezzo ’l petto, ovunque io perga,
terrò qual pellegrino mie fortune;
datimi, o muse, una cannuccia o verga,
ch’io, scalzo e cinto ai fianchi d’aspra fune,
veda come ’l sol esca e poi s’immerga
ne l’Oceàno, e come ardendo imbrune
qua li etiòpi e lá di neve imbianchi
tartari e sciti del bel raggio manchi.
Ma poi che di mia sorte il duro esempio
mostrato abbia del mondo in ogni clima,
fia cosí noto, appeso in qualche tempio «Me tabula sacer | votiva paries indicat uvida | suspendisse potenti | vestimenta maris deo». Horat.
od in polito marmore s’imprima,
che chi mirando ’l cosí acerbo ed empio,
considri ben qual sia buon calle, prima
che l’un d’ambi sentieri d’esta vita
si metta entrare a l’ardua salita.
Oh, ben saggio colui che ’l suo dal mio
voler avrá diverso ne’ prim’anni
di nostra sí dubbiosa etade, ch’io
volendo scorsi ne’ miei stessi danni,
travolto in vie sí alpestri dal desio,
ch’anco ne porto il viso rotto e’ panni,
fin che mia sorte, poi che assonto in alto
m’ebbe, giú basso far mi fece un salto!
TRIPERUNO.
D e l’innocente ninfa l’aurea etade, Pueritia.
I l bel giardino, le colline, i fonti
V annosi omai, ché ’l tempo invidioso «Dannosa quod non imminuit dies est». Hor.
I n un istante quelli s’ingiottisse.
B andito dunque sol per l’altrui fallo,
E rrava quinci e quindi ove pur l’alma
N atura mi torcea con fidel scorta.
E ra quella stagion quando Aquilone, Lex naturae, quae omnia in medium ponit.
D a l’iperboree cime sibilando,
I n vetro i fiumi, in latte cangia i monti;
C ácciomi dentro un bosco tutto solo;
T anto vi errai, ch’al fine mi compresi
I n le capanne de’ pastori giunto.
R iposto s’era Febo drieto un colle,
E la sorella con sue fredde corna
G iá percotea le selve ed ogni ripa.
V ago di riposarmi su lor fronde,
L a porta chiusa d’una mandra i’ batto:
A l sesto e nono cenno fummi aperto. Pulsanti aperitur, Evangelio teste.
S tarsene quivi ben rinchiusi e caldi
V idi quei pegorari, al foco intorno,
B ere acque dolci e pascersi de frutta.
Q ual stato mai per che si sia sublime,
V’ ha pare al pastoral di contentezza?
A ltri di strame rifrescar ed altri
M onger vidi gli armenti, altri purgarli.
I ntenti ancor son altri gli agnelletti
P ortar di luogo a luogo e ritornarli
S otto lor madri, ed altri con virgulti
E gionchi acuti tessono sportelle.
M a parte ancora, di piú verde etade, «Apparet nullam aliam spem vitae homini esse propositam nisi ut, abiectis vanitatibus et errore miserabili, Deum cognoscat et Deo serviat». Lact.
I ntenti sono a giovenili giochi,
L otte, salti diversi e slanzar dardi.
I n altra parte s’usan dicer versi,
T occar sampogne e contrastar di rime.
A ltri, de’ piú attempati, di lor gregge
T rattano, s’han piú spesa che guadagno.
V adon e riedon altri, piú robusti,
R icercando le mandre, ove ben spesso
V olpe, lupi selvaggi e piú gli umani
S oglion discommodar lor santa pace.
I n ogni lor impresa vanno lieti,
A mandosi l’un l’altro con gran fede,
M ercé che ’l capo lor sa l’arte a pieno.
I vi raccolto fui nel dolce tanto Iam per reminiscentiam, ingruente rationis aetate, homo suam in se recolit naturam et dignitatem.
N umero lor e fatto di sua prole.
G iá in mezzo al corso di sua lunga via
R otavasi la notte, passo passo:
E cco, dal sommo d’una capannella,
D ove molti pastori guarda fanno
I nsieme al grande armento con lor cani,
O desi, dentro una mirabil luce,
R esonar canti e dolce melodia.
P orgon l’udita e sentono che — Gloria
I n excelsis — dicean i bianchi spirti;
E d avvisati dove ’l Salvatore
N asciuto giace, lá, con allegrezza
T osto da noi partiti, s’avventaro
I n quella banda che fu lor mostrata.
S ol io ritratto in parte for de gli altri
S edevami pensar tal novitade,
I n fin che, ritornati, cose orrende,
M ai non udite piú, d’un fanciullino
A noi contaron di stupor insani.
E cco, senza far motto alcun ad elli, «Tu autem quum oraveris intra in cubiculum tuum, ubi, clauso ostio, patrem tuum in abscondito ora». Evang.
T utto soletto quinci mi diparto,
E sollevando gli occhi al ciel sereno
V idi una stella rutilar fra l’altre,
A nti scorgendo sempre il mio sentero,
N é mai fermossi fin che al santo loco
G iunto non mi vedesse e poi smarritte;
E d una voce ancor dal ciel mi venne,
L a qual dicea: — Felice criatura,
I o son quella verace e schietta donna
C he vai cercando in terra e stommi ’n cielo. Veritas in coelo moratur, quia omnis homo mendax.
A ltea mi chiamo: or entra qui sicuro. —
E poi ch’ebbe parlato, un bel concento
S’ udiva d’arpe, cetre, plettri e lire.
T acendo poscia, fu non so chi disse:
TERSICORE
Or tienti fermo e non girar altrove, «Turpe est cedere oneri quod semel recepisti». Sen.
o spirto avventuroso, di tal guida;
ma cauto va’, ché un lupo non t’uccida,
lo quale altrui dal dritto calle smove.
Né da l’antiche leggi, per le nove,
sia mai, se non Iesú, che ti divida,
lo qual non pur è saggia scorta e fida,
ma via che da vertú non si rimove.
Ben vedi a quanta gloria il ciel ti degna,
ché Dio (qual nome dirsi può maggiore?)
volse adempir sua legge in tuo conforto. «Omnia quaecumque voluit Dominus fecit in coelo et in terra». Dav.
Egli farsi uomo sol per te non sdegna,
e guida tal, che ’n questo uman errore
conduceratti di salute in porto.
TRIPERUNO
Io ben intesi di tal voce il sòno;
ma, lasso, che servarla fui poi tardo!
E so che quanto tuttavia ragiono
non vien inteso; ma sotto ’l stendardo
de l’Orso grande, ove posto mi sono,
spero dir chiaro senza alcun risguardo.
Or dunque in una grotta entrai soletto,
con passo lento e colmo di sospetto.
Qui la piú bella, onesta, saggia, umile Omnium miraculorum praestantissimum est quum virgo sine floris verginei detrimento Deum hominem parit, qui complectens universum angusto praesepio patitur includi.
donna che mai Natura, col sopremo
suo sforzo e col di rado usato stile,
finger potesse in questo ben terreno,
avea sul strame, in loco abbietto e vile
(trovavasi al bisogno troppo estremo)
riposto un suo nasciuto allor infante,
nudo, a la rabbia d’aquilon tremante.
E se d’un bianco e liggiadretto velo,
levandosi ’l di testa, non fatt’ella
qualche riparo avesse al crudo gelo,
pensato avrei che ’l parvolino in quella
paglia mancar dovesse, e lui, che ’n cielo
volge coi giri soi ciascuna stella,
stringesse la stagion orribil: tanto
prender gli piacque di miseria il manto!
Con quel contratto volto ed alto ciglio
ch’alcuno mira cose strane e nove,
stavami prono a contemplar quel figlio,
sí di me stesso for, che men del bove, «Cognovit bos possessorem suum et asinus praesepe domini sui, Israël ante me non cognovit». Esaias.
de l’asinello men, ebbi consiglio
di riconoscer lui che ’l tutto move
essersi carne fatto, non per boi,
non altri bruti, no, ma a servar noi.
Un for di stile e d’uso uman sembiante,
una celeste angelica figura
di quel nasciuto allor allor infante
fu, ch’al veder mi tolse ogni misura.
Ché s’al visibil sol non è costante,
or che al divin potea nostra natura?
Bench’era in carne ascoso, pur non pote
di fora non aver de le sue note.
Non che ’ntendessi allora la cagione
ch’io fussi in quel fanciullo sí conquiso;
ma, vinto da non so qual passione,
piú tosto che ritrarmi dal bel viso
lasciato avrei non pur le belle e bone «Unguentum suave et optimum est amor summi boni, quo pestes mentis sanantur et cordis oculi illuminantur». Basil.
cose del mondo, ma anco il paradiso.
E finalmente io, sciocco (temo a dirlo!),
stetti piú volte in voglia di rapirlo;
rapirlo meco in parte ove sol io,
nutrendol prima, l’adorassi dopo,
sperando non mai fôra ch’altro Dio
maggior di lui mi soccorresse a l’uopo;
quando che ’l mundo tant’era in oblio,
che l’indo, il mauro, il scito e l’etiòpo
cingevan il gran spazio, ove chi ’l sole,
chi ’l mar, chi un sasso, chi ’l suo rege cole.
Ma, forse accorta del pensier mio folle
in far tal preda, la pudica donna,
levatolo di paglie, sí sel tolle
in grembo e ’l ricoperse ne la gonna;
ché esser d’uomo veduta giá non volle
mentre li porge il latte. Poi l’assonna, «Lacta, mater, cibum nostrum; lacta panem de coeli arce venientem et pone in praesepium velut piorum cibaria iumentorum». Aug.
ed assonnato il bascia, e tornal anco
sul strame, a lato un vecchio grave e bianco.
Ma non sí tosto giú posato l’ave,
ch’un giovenetto a lato, in veste bruna,
qui sotto entrando porta un grosso trave
di ponderosa croce, ed altri d’una
colonna carco; e dopo loro grave
e longa tratta d’angioli s’aduna
intorno del presepio, lagrimosa,
ciascun in man avendo una sol cosa:
questo di spine una corona, quello
sopra la canna una spongia bibace;
chi un chiodo, chi una sferza, chi ’l martello,
chi l’asta, chi la fune, chi la face.
La donna, quando i vide, in atto bello
presto si leva e vereconda tace.
Quelli non men di lei onor le fanno,
poi taciti al fanciullo intorno stanno
(dorm’egli) in atto di basciarlo mille
e mille volte, né esserne satollo: «O iugum sancti amoris, quod dulciter capis, gloriose laqueas, suaviter premis, delectanter oneras, fortiter stringis, prudenter erudis!» Bernard.
par che nettar, ambrosia e manna stille
da gli occhi soi, dal mento, fronte e collo!
Eran le cose in modo allor tranquille,
ch’al mondo non sentivi un picciol crollo,
come se con la notte l’universo
stesse nel sonno, co’ l’infante, merso.
Ma dopo alquanto indugio, ecco ’l piccino
subitamente non so chi disturba.
Egli alza il guardo e vedesi vicino
cinger intorno la celeste turba,
ch’ognun sta penseroso e ’n terra chino,
con quelle orribil armi; onde si turba
nel volto il bel sembiante e di spavento
piange, tremando come fronda al vento.
Sí come al vento foglia, trema e piange,
né ’l viso piega mai da quella croce;
e mentre qui si dole, cruccia ed ange,
quattro angioletti in lagrimosa voce
incomenciar un inno detto il Pange; Divi Ambrosii hymnus.
il qual pensando, ancor m’incende e cuoce
de l’amoroso foco, il cui soggetto
spezza di fiera non che d’uom un petto.
Non fu giá pietra in quelle mura (pensi
un cor gentil ch’esser dovea la madre!)
che non s’ intenerisse ai forti intensi
gemiti del fanciullo, a le leggiadre
rime di que’ cantori. Ond’io con densi
sospiri m’avvicino al bianco padre,
col qual piangendo mi proposi allotta
non mai distormi piú di quella grotta.
Grotta gioiosa, che degnossi ’l cielo
partir de le sue cose in mia salute!
grotta felice in cui di carne il velo
intorno vidi aver l’alta virtute!
grotta salúbre, ove servato il stelo
di pudicizia nacque, tra le acute «Veritas de terra orta est et iustitia de coelo prospexit». David
mondane spine, il fior tant’anni occulto,
di terra uscito senza umano culto!
Poscia che i quattro spirti bianchi fine
poser al Punge lingua gloriosi,
quel da la croce, c’ha l’aurato crine,
d’avolio il viso e gli occhi sí amorosi,
l’ale tessute d’oro e perle fine,
dritto si leva in piedi con ritrosi
guardi ver’ me, stendendo la man destra,
e la croce sostien con la sinestra.
GENIO
Uomo, animale — disse — fra gli altri solo de la ragione capace, che de gli eterni piaceri con meco sei ad essere felicissimo consorte (non giá perché né tu né di tua natura alcuno giammai facesse impresa veruna per la cui dignitade ciò guadagnar si potesse, ma l’infinita d’Iddio bontade cosí a dover avvenire nel principio dispose); or odi quale e quanta verso voi uomini sia stata di lui la benevolenzia. Lo quale, da l’antico legame di perdizione per scatenarvi, giá non sofferse aver a schivo se istesso condennare ad essere un simile vostro di carne, una vittima, un sacrificio, un miserabilissimo spettacolo, dovendosi egli sottomettere a la severa legge, «Finis legis Christus ad iustitiam omni credenti». Paul. di lei non pur conditore ma distretto osservatore, mostrandovi, con esempio prima e con dottrina poi, per quanto piacevole sentiero ciascuno di voi, le sue vestigia seguendo, potrebbe al lume di veritá pervenire. Da la quale, per l’infiata soperbia «Tota vita Christi in terris per hominem quem gessit, disciplina mortis fuit». Aug. de gli ignoranti dottori e saviezza mondana, tutti omai sète miserabilmente sotto l’empia potestade d’un tiranno traboccati, lo quale sepolti, non che imprigionati, nel puzzo d’ogni scelleraggine sin ad ora v’ha ritardati. Vedi tu cotesto bellissimo fanciullino, questa leggiadretta sopra ogni altra criatura? questo uomo di spirto e carne testé nasciuto? Lo quale so che ti pare soave tanto, che giá di non voler indi partire tu ti sei fermamente deliberato. Se io, che sol spirito sono, cosí fussi agevole di ragionar la lui potenzia, la lui maiestade, la lui smisurata benignitade, come tu, uomo carnale, manco idonio sei ad ascoltare, potrei quivi acconciatamente dar principio. «Quo autem Deus pater genuerit filium, nolo discutias nec te curiosius ingeras in profundo arcani». Hier. Ma debilissima è pur troppo de noi angioli la natura, e vieppiú la vostra umana, in comparazione di quella profundissima, incomprensibile e impenetrevole divina. Dilché sciocchi e presontuosi furono pur troppo alquanti dottori, che cosí leggermente a tal cosa isperimentare si sono abbandonati.
Ora dunque saperai prima qualmente la intelligenzia del Sempiterno Padre, la quale noi similemente «prima sapienza e divino sermone» con grandissimo tremore nominamo, tanto di vostra salute le calse, tanto l’incommutabil sua natura si commosse verso di voi a pietade, che non me, non alcun altro di angelica stirpe si elesse per vostro redentore e de l’inferno distruggitore, ma da se medema, volendo oggimai la divinitade sua con la umanitade vostra conciliare, discese occultamente da l’empireo nostro in questo vostro passibile stato, constituendosi ad essere con essi voi fratello, compagno e servitore; quando che non volse il benignissimo figliuolo vestirsi la forma d’alcun potente signore, ma ben gli piacque con perfettissima umilitade sottoporsi a vile servitude per confutare l’alterigia de’ sapienti mondani. Eccolo quivi d’una polcella, mediantovi la vertú del Spirito Santo, poverissimamente nasciuto. Dimmi, uomo, dimmi, animal di ragione, qual umiltade di cotesta maggiore potriasi unqua imaginare? Páronti forse quelli duo animaluzzi vilissimi, fra li quali sul feno lor egli giace, convengano a la omnipotenzia di sua profundissima maiestade? parti ch’un diversorio immondo, un presepio de bovi, la diroccata stanza, lo notturno pellegrinaggio, la freddissima stagione siano al divino trono, a la celeste beatitudine, a le ierarchie d’infiniti spiriti convenevoli e corrispondenti? parti che questa diminutezza d’un infante a la grandezza del criatore e fondatore de l’universo s’adegui? Ma quanto piú di maraviglia prenderai tu, se mai fia tempo che l’instrumenti orribili, li quali con questa croce intorno a lui miri essere portati, tu veda crudelmente adoperati ne la innocentissima sua persona! O gran fortezza di pietade, la quale puote l’altissima giustizia Pater noster, ut liberaret servimi, tradidit filium. cosí piegare, che ’l padre, per riscotere il servo, traditte l’unico figliuolo, che avesse ad essere tra gli suoi domestichi un bersaglio di mille onte, ingiurie, bestemmie, derisioni, contumelie, scorni, guanciate, battiture, flagelli, sputi, lanciate e finalmente un vituperoso spettacolo, tra li doi scellerati, su la contumeliosa croce inchiavato! O affocato amore, o benivolenzia verso noi uomini ardentissima! Iddio fassi omo per te salvar, o uomo: offende sé, difende te; ancide sé, vivifica te! O mansuetissimo agnello! Vedi, vedilo lá, uomo, vedi lo tuo salvatore, vedi la via, la veritade, vedi come lagrimoso dal presepio ti mira e guata, vedi come gestisse d’abbracciarti in foggia di caro germano! Egli ben sa che per te, uomo, solo in questa miseria fu dal Padre mandato, discese in terra per guidarti al cielo, s’ha fatto famiglio per costituirti signore! Or dunque chi renderá mai guiderdone a tanto beneficio eguale? qual grazie, qual lode a «Deus noster purgari homines a peccatis maxime cupit, ideoque agi poenitentiam iubet. Agere autem poenitentiam nihil aliud est quod profiteri et affirmare se ulterius non peccaturum». Lact. tanto premio? fia forse di oro, di gemme, di porpora, di altri beni temporali cotesto premio? anzi del preciosissimo suo sangue. Con questo ti laverá, ti monderá de le peccata, de le tante scelleraggini; con questo ti pascerá e nudrirá, lasciandotilo, con la carne sua propria, ad essere tuo cibo di vita eterna. Stattene dunque, uomo, nel santo proposito in cui testé amorosamente ti ritrovi; e quando pur sotto ’l gravissimo peso di questa tua carne avverrá che ne trabocchi, lévati presto, chiama dal ciel aiuto, non ti addossar in terra, non vi far le radici. L’abito solo è quella peste, quel morbo se non per grandissima misericordia d’Iddio sanabile, quell’inferno d’ignoranzia, quel laberinto d’errori, ove dubito non sii finalmente per tua inavvertenzia dal sfrenato desio tirato.
TRIPERUNO
Finitte appena l’angelo divino questo sermone, che quattro de gli piú vaghi angioletti cantando cosí dolcemente incomenciaro:
Un aspro cuor, un’empia e cruda voglia,
una durezza, impresa giá molt’anni,
se altrui depor contende, non s’affanni
sperar ch’altri ch’Iddio mai vi ’l distoglia.
E s’uomo stesso il fa, dite che spoglia
non riportâr tirannide tiranni
di questa mai piú bella e che piú appanni
ogn’altra gloria, ch’uomo al mondo invoglia.
Ma il ciel di stelle e d’acque il mar fia manco, «Difficile est resistere consuetudini, quae assimilatur naturae». Arist.
qualor accaschi in uomo tanta forza,
ch’ei vecchio stile da sé levi unquanco.
Però convien ch’al bon Iesú si torza,
mercé attendendo, ed anco il prieghi ed anco,
fin che qual serpe lásciavi la scorza.
TRIPERUNO
V enuti al fine de l’orribil metro
E ran li cantator empirei, quando
R uppesi un sòno fuor de la capanna,
U n sòno di percosse e battiture
M eschiate con minacce ed altri gridi.
I n quell’instante (ah mio crudel destino!)
G iunsevi un altro frettoloso genio
N on senza gran spavento, e disse: — Or presto
A ffrettati, Iosefo, prendi ’l figlio:
T u, con la madre sua, scampa in Egitto;
I nsta giá ’l tempo ch’un fier mercenaro
I nsanguinar si vol di questo agnello. Novum Herodem supprimit.
F ra gli pastori ha ricondotto d’empii
L upi cotanta rabbia, che gli agnelli
O morti verran tutti o lacerati.
R isse, discordie, gare, aspri litigi Ambitio et divitiae sunt principia et fontes seditionum.
E sser fra lor non odi ancor diffora?
N on piú dramma d’amor, non piú di pace
T ra quelli omai si trova; di che scampa
I n altre bande ove giá nacque Móse.
N é quindi fa’ ti parti, fin che a tempo
I o venga darti avviso del ritorno. —
T aciuto ch’ebbe il nunzio, vidi gli altri
A ngioli su le penne al ciel salire, Pacem et litem convenire absurdum est.
N é pur un solo a dietro vi rimane:
T anto le liti, le contese e zuffe
A la corte d’iddio son odiose!
— A rme, arme! — cosí chiaman tuttavia;
M a stavami sol io ne l’antro ascoso,
B attendomi gran téma sempre il cuore.
I n su quel punto similmente un’atra
T empesta, con gran vento e spessi lampi,
I ncomenciò tonando farsi udire
O ve ’l contrasto cresce ognor piú acerbo. Fuit.
V inse una parte finalmente, e l’altra Ratio corruptae naturae succumbit.
T rassesi ne la grotta per suo scampo.
I o mi discopro e la cagion di tanta
L ite fra loro cerco di sapere.
— L asso! — rispose un vecchio — non m’accorsi
A vvolto in un agnello esser un lupo!
LAMENTO DI CORNAGIANNI
P iangeti meco, voi fiere selvatiche,
V oi sassi alpestri, voi monti precipiti,
R ipe, virgulti e stipiti:
I esú da noi si parte, ché le pratiche
T rovate fra pastori tanto crebbero,
A imè! ch’al fin non ebbero
S e non forza di far le gregge erratiche.
A hi mercenaro e lupo insaziabile, Imminet erranti furque lupusque gregi.
N ato d’inganno e mantellata insidia!
I n cui tanta perfidia
M ai puote luogo aver? O incommutabile,
O giustissimo Dio, perché non subito
R isguardi a noi? deh! dubito
V ani sian nostri prieghi, ché stoltizia
M aggior non è s’un reo chiede giustizia.
TRIPERUNO
P arlava il vecchio lagrimando forte,
E poi le labbra cosí chiuse, ch’egli
N on mai piú volse aprirle; ma co’ gli occhi
I n un parete fissi, geme e piagne
T anto che fece l’ultimo sospiro.
— V attine al ciel, alma d’ogni ben carca! —
S’ udí una voce dir — vanne felice! —
C osí di que’ pastori giacque il padre,
O rbato d’esta vita, ma in ciel suso
R apito a l’altra; e l’empio mercenaro
R imase de gli armenti possessore,
V olgendo e’ be’ costumi de gli antichi «Omnium legum est inanis censura nisi divinae legis imaginem gerat». Aug.
P astori audacemente in frode e furti,
T anto che le sampogne e dolci rime
A ndati sonsi e d’arme sol si parla.
D eposto dunque fu lo gran pastore
E ntro d’un cavo sasso; e a quello sopra,
C armi leggiadri e rime di gran sòno
I nscritte fûrno da pastori e ninfe.
D ond’io piangendo ancor questi vi posi:
TUMULO DEL CORNAGIANNI
«E cco, del monte congrega — ciò nella
R uppe — gran pianto pel suo cor Narciso.
I l fior anti no fu sua morte fella».
T al fu ’l mio verso, ma, per téma, scuro.
TRIPERUNO
Io da’ pastori alquanto dilungato,
con quali esser mai giunto ancor mi dole,
d’un monticello in largo e verde prato
mi porto, giú, fra rose, gigli e viole;
poi dentro ad un antico bosco entrato,
tanto vi errai che sul montar del sole
si m’appresenta un’ampio e bel palaccio:
cerco l’entrata e presto vi mi caccio.
Nòve cose giammai non anti viste
veggio fra quelle mura in un vallone, «Fidelis Deus est qui non patietur vos tentari supra id quod potestis». Paul.
di urtiche, vepri, spine e lappe miste
densato sí, che mai non vi si pone
piede senza lacciarlo a l’erbe triste,
e farsi, o voglia o no, di lor prigione;
ma sí mi preme l’ira d’una donna,
ch’io scampo e lascio a squarzi la mia gonna.
Perocché, ne l’entrar, quella soperba, Tentatio.
pallida in volto, magra e macilente,
con voce altéra minacciante acerba
seguivami gridando: — Mai vincente
uomo non fia, se l’animo non serba
a’ miei flagelli forte e paziente! —
Io allor m’offersi al suo comando, e presto
scorro di qua di lá, né unqua m’arresto.
Dov’ ir mi deggia segno non appare
di bestial non che d’uman vestigio;
di che sovente fammi traboccare
de panni co’ miei passi gran litigio,
fin tanto che, sul lido accosto il mare
giunto, m’assisi stanco a gran servigio
di nostra fragil vita, e poi mi levo,
e del cammin doppio pensier ricevo.
Se al dritto o manco viaggio me ne vada
non so, ché nòve m’eran le contrate.
Ma, tra ambi doi mentre ’l voler abbada,
ecco a le spalle, co’ le labbra infiate
di sdegno, m’è la donna tutta fiada
quanto mai fusse nuda di pietate.
— Tu vòi pur anco — dice — chi t’accolga,
rubaldo, e ne’ capei le man t’involga! —
Io, dal spavento piú che mai commosso,
lungo la manca spiaggia formo e stampo
miei passi, lor frettando quant’ i’ puosso,
sin che dal suo furor mi fuggo e scampo.
Cosí infelice non piú aver riposso
giammai vi spero; e d’uno in altro campo,
qual timidetta lepre, uscendo, un fosco
antro di spine trovo e vi me ’mbosco.
Ma ne l’entrar (ah quanta mia sventura!),
ecco si mi raffronta un uomo strano,
anzi doi, sgiunti fin a la cintura:
piú mostro assai che finto non fu Giano
o Proteo falsator di sua figura;
tal anco è scritto Castor e ’l germano,
ché sol due gambe quel corporeo peso
di duo persone tengono sospeso.
Ei, quando avanti lui giunto mi vide,
scosse le membra e tutte si li ruppe.
Stupido, il guardo ch’ei digrigna e ride
e par che ’n altri volti s’avviluppe.
I’ non era né Teseo né anco Alcide
o chi nel ventre il gran Piton disruppe, Febo.
che fronteggiar bastassi un mostro tale;
onde spiegai pur anco al corso l’ale.
Per un sentier (sol un sentiero v’era)
sferzo me stesso, e gran téma mi punge.
Ma poi che da l’incerta e ’nstabil fiera
esser mi vidi al trar d’un arco lunge,
fermo mi volgo; ed egli, sua primera Bis fugienti laqueus inicitur
forma cangiando, in doi corpi si sgiunge:
questo di donna, vago, pronto, ameno;
quel d’un formoso e bianco palafreno.
Oh qual mi feci a l’apparir di loro
sí grata vista e dolce leggiadria!
Mill’altre prime facce assai mi fôro
moleste in cui cangiato egli s’avia,
ché né orso né leon né pardo o toro
né cervo né animai chi chi si sia,
gradir mi puote, anzi mi fe’ spavento:
di questi doi sol ne restai contento.
Ella, succinta in abito gentile, «Templum est super cloaca aedificatum». Sen.
tra fiori a l’aura si rendea piú degna.
Vidi anco intorno lei (si ’l feminile
aspetto valse) con lor verde insegna,
stesi per l’erbe e fronde, Marzo e Aprile
la terra far d’assai colori pregna,
e su per folte macchie lieti e snelli
facean cantando errar diversi augelli.
Piú bello, altero, candido e vivace «Bona domus, malus hospes». Socr.
nullo animai di questo vidi mai;
tanto mi piacque allora, che ’l fugace
e timido desio presto frenai,
volgendol tutto ove sperava pace
in duo begli occhi, anzi potenti rai,
ch’umilemente alzati sol d’un cenno
quanto temea davanti obliar mi fenno.
Tratto dal mio voler giá torno in dietro
e di mai non partirmi da lei bramo.
Ella quel bel destrier c’ha’l fren di vetro
è giá salita, e d’un frondoso ramo
di mirto il tocca e contra un folto e tetro
bosco lo caccia. Io che pur troppo l’amo,
correndo a tergo, me ne doglio e strazio,
e luntanato son da lei gran spazio.
Per un sentier, colmo di tòsco e fèl va
battendo sempre il palafren da tergo,
tanto che scórse ne l’oscura selva
e mi si tol di vista; ond’io sol m’ergo
de l'orme ai segni (ché si vaga belva «Malorum esca». Plat.
perder non voglio), e tutto mi sommergo,
non, pur d’averla, ne le insane voglie,
ma ne’ intricati rami, sterpi e foglie.
Tanto durai nel corso a quella traccia,
ch’al fin del bosco, fra tre alte colonne,
la via par che ’n duo branchi vi si faccia,
qual oggi e’ greci fingon l'ipsilonne;
di che dubbio pensier l’andar m’impaccia,
fin ch’una turba di polite donne «Voluptates blandissimae dominae maiores partes animae virtute detorquent». Cic.
mi fûr in cerco, e losingando parte
di loro a manca man mi tranno ad arte.
Quivi d’accorte e ladre parolette
foggia non è che non mi circonvenga;
ma l’altra parte di luntano stette
pensando in quale guisa mi sovvenga.
Io, che fra tanto sono entro le strette
d’abbracciamenti e garrula losenga,
irmene al manco viaggio mi delibro; «Genus servitutis est coacta libertas». Arist.
ma donna mi vietò, c’ha in man un cribro.
Un cribro in mano la dongella tiene,
d’acqua ripieno, e goccia non si versa,
che di la turma luntanata viene,
gridando forte: — Non far, alma persa,
non far; se ’l fai, tu sol n’avrai le pene,
ché non sai quella via quant’è perversa.
Ma qui piuttosto volge a la man destra,
che da l’errante volgo altrui sequestra. —
A la cui voce giá lo entrato piede «Consilio, non impetu opus est». Cur.
ritrassi al modo di chi un serpe calca.
— Deh! saggia ninfa, dimmi per mercede,
— risposi a lei — dove ’l mio ben cavalca?
Perché fra voi questo altercar procede?
perché tanto di tempo mi diffalca?
Quella sen fugge e tuttavia non cessa,
onde non spero mai piú veder essa.
— Lascila gir — diss’ella, — ché la truce «Tristes voluptatis exitus». Boët.
e pestilente donna, tuo malgrado,
de l’improba Fortuna ti conduce
al seggio incerto ed a l’instabil guado.
Ma se tu segui me, ti sarò duce
nel destro calle, ove di grado in grado
montando, e non col volo di fortuna,
vedrai quel ben che ’n sé vertú raguna.
Or viemmi dopo, ché su l’alte cime
di sapienza trovarai l’ascesa.
Fuggi costoro, perché al fin de l’ime
valli d’errore mostran la discesa. —
Allor io per costei lascio le prime
e seco me ne vo; ma gran contesa
ecco nascer fra l’una e l’altra turba,
che ’l mar, la terra e sin al ciel disturba.
E prima di parole tanta rabbia
si sullevò tra quelle donne e queste,
che non bastò menar con scura labbia
la lingua e denti, ma l’ornate teste Mens nostra quae in dubio pendet, huc illuc facile agitatur.
vengon a scapigliarsi, e su la sabbia
giá molte veggio, per l’orrende peste
de’ calci e pugna, traboccar avvolte.
Ma presto vien chi via l’ebbe distolte.
Ché a l’apparir di donna antica e grave Eleutheria.
tosto la pugna fu da lor divisa:
chi si racconcia il sino e chi le flave
chiome si annoda e chi di dar sta in guisa.
Ma la matrona con parlar soave
voltossi a me dicendo: — Qui s’avvisa
per me qual porta entrar deve chi brama
o quinci o quindi racquistarsi fama.
Quinci Vertú, quindi Fortuna alloggia,
i’ ti l’ho detto: va’, ch’ambo le porte «Quid autem est libertas nisi potestas vivendi ut velis?». Quintil.
ti mostro aperte. — E detto ciò, s’appoggia
sul petto il viso di Vertute e sorte
fra le colonne. Ed io ne stava in foggia
di chi non sa de le dua porte apporte
quale si prenda, s’una prender deve;
e mentre dubbia, gran duolo riceve.
La destra via mi elessi finalmente:
cosí movea di Nursia il saggio spirto.
Ma le sinistre donne, triste e lente,
trasser a l’ombra insieme d’un suo mirto.
Quivi tra loro un lupo immantenente
comparse (onde non so) minace ed irto,
del quale una di lor, se ben rimembro,
svelse sdegnando il genitale membro.
Poscia chi per il piè, chi per l’orecchia
lo tranno a terra giú quelle fanciulle,
mentre l’altare e ’l foco una apparecchia.
Ciascuna par che ’n quello si trastulle
svenarlo, e qui s’accoglie e si sorbecchia
tanto del sangue suo, che ’n tante mulle Omnis mappa redditur ad stuppam.
le vidi esser cangiate a me davante,
e ’l foco stesso le arse tutte quante.
E ’l mirto similmente in altra forma
mutarse vidi, ch’ogni suo rampollo
contrasse al tronco dentro, e si trasforma
in bella donna, e gambe e braccia e collo;
e ’l lupo, il qual sul lido par che dorma,
prende a l’orecchia, e dritto sullevollo,
cangiato omai di lupo in un destrero:
sáltavi addosso e sgombra via ’l sentiero.
Io la conobbi, aimè! nel sguardo acuto,
acuto sí, ch’anco smovermi puote
dal bel proposto e farmi sordo e muto
a le preghiere d’ogni effetto vòte
de l’ altre donne; anzi mi faccio un scuto Praecipiti animo nullum est consilium.
d’infamia contra il ben che mi percuote,
e gridami nel capo, mi urta ed ange,
ma nulla fa, ché ’l suo voler si frange.
Onde le donne insieme neghittose,
poi ch’e’ soi prieghi gittaron a l’aura,
in un pratel de gigli, viole e rose,
sott’ombra de la petrarchesca Laura,
stetter in cerchio contra me sdegnose;
ed un quadrato altare qui s’instaura,
sul qual, mentr’arde un tenero licorno,
ivan quelle piangendo intorno intorno.
Io pur, quantunque l’ascoltassi invito,
la fin volsi veder del sacrificio,
ch’un nuvol bianco su dal ciel partito
sí mi l’ascose, e per divin giudicio
tal tono seco fu, che tutto ’l lito
tremò d’intorno, e sparve lo edificio,
le donne, la matrona e ’l nuvol anco,
restando pur la via del lato manco.
Stavami, su quel punto che la terra
tutta tremò, non men for di me stesso
che ’l viandante, il quale mentre ch’erra
cercando un tetto, perché un nimbo spesso
li tona in capo, il fulmine si sferra
dal ciel gridando e piantasigli appresso,
ché un’alta pioppa in sua presenzia tocca
e tutta in foco e fumo la dirocca.
— Non temer d’alcun ciel che ti minaccia,
ché bella botta non mai colse augello! — Epicuro conveniens sententia.
A cotal voce rivoltai la faccia,
ed ecco un uomo lieto, grasso e bello
mi sovraggiunge e stretto a sé m’abbraccia.
S’io gli fussi figliol, padre o fratello,
io l’addimando vergognosamente.
Chi fusse, egli rispose immantenente.
LA CAROSSA
MERLINUS COCAIUS
Ille ego qui quondam formaio plenus et ovis
quique, botirivoro stipans ventrone lasagnas,
arma valenthominis cantavi horrentia Baldi,
quo non Hectorior, quo non Orlandior alter,
grandisonam cuius famam nomenque gaiardum
terra tremit baratrumque metu se cagat adossum,
at nunc Tortelii egressus gymnasia, postquam
tanta menestrarum smaltita est copia, Baldi
gesta maronisono cantemus digna stivallo.
Huc, Zoppine pater, tua si tibi chiachiara curae, Vatem peritissimum invocat Zoppinum.
si tua calcatim veneti ad pillastra Samarchi
trat lyra menchiones bezzosque ad carmen inescat,
huc mihi cordicinam iuncta cum voce rubebam
flecte soporantem stantes in littore barcas,
ut dorsicurvos olim delphinas Arion.
Tuque, Comina, tene guidam temonis, et issa
issa, Pedrala, mihi ad ghebbam tuque alta sonantem
ad cighignolam velamina pande levanto,
Berta, grego, postquam salpata est áncora fundo.
Non ad muscipares voltanda est orza canellos,
non ad fangosas ladrorum daccia Bebbas,
Bebbas, cui nomen tum splenduit, aequore postquam
Cingar anegavit pegoras, saltantibus illis
una post aliam, nullo aiutante Tesino,
dumque trabuccabant, «bè bè» sonuere frequenter:
hinc Bebbas dixere patres, quod nomen ad astra
surgitur, et lunge soravanzat honore Popozzas.
Non mihi Fornaces per stagna viazus ad udas,
perque Padi gremium ad Stellatam Figaque rolum
undantem contra et retro cava ligna ferentem,
seu sit Bondeni seu sit mage Francolini
piatta, vel Argentae, vel burchius Sermidos audax.
Bramat Alixandrae portus mea barca tenere.
NARRATIO
Thebanis fabrefacta viris, antiquior altris
urbibus Italiae, dum Mantua rege sub uno,
nomine Gaioffo, quasi iam dispersa gemebat,
viderat in somnis venientem a Marte baronem
mozzantemque caput Gaioffo, seque gridantem
libertatem urbi et populo praestasse vetusto.
Hinc aliquod confortum animi conceperat illa
speranzamque omnem Baldi ficcaverat armis.
Non erat huic toto quisquam affrontandus in orbe
forcibus aut potius destrezza corporis ipsa.
Nil illum (tanta est hominis baldanza gaiardi!)
arma spaventabant, nil coelum, nilque diavol.
Vir iuste membrosus erat, mediocriter altus,
largus in expassis relevato pectore spallis,
at brevis angustos stringit centura fiancos;
nerviger in gambis, pede parvus, cruribus acer;
rectus in andatu, levibus qui passibus ipso
vix sabione suas poterat signare pedattas.
Aurea iungebat faciei barba decorem,
vivacesque oculos huc illuc alta rotabat
frons, quae spaventat quando est turbata diablos,
sed ridens noctemque fugat giornumque reducit;
spadazzam laevo semper gallone cadentem
portabat, guantumque presae mortisque daghettam.
Saltando legiadrus erat, qui pleniter armis
indutus montabat equum sine tangere staffam.
Ipse gubernabat terram, quam diximus olim
nomine Cipadam, gentemque illius habebat
ad cennum prontamque armis habilemque bataiae.
Praecipuos hinc tres elegerat ille sodales,
quorum Cingar erat strictissimus alter Acates.
Is veterem duxit Margutti a sanguine razzam,
qui risu, quondam simia cagante, crepavit.
At Cingar trincatus erat truffator in arte
Cingaris, aut vecchium segato dente cavallum
per iuvenem vendens, aut bolsum fraude barattans.
Scarnus in aspectu, reliquo sed corpore nervis
plenus erat nudusque caput rizzusque capillos.
At sassinandi poltronam exercuit artem,
in machiis quandoque latens mala guida viarum,
namque viandantes ad boscos arte tirabat
spoiabatque illos, sibi nec restante camisa.
Sacchellam semper noctu post terga ferebat,
sgaraboldellis plenam surdisque tenais;
is mercadantum reserabat saepe botegas
compagnosque ipsos pannis finoque veluto
tornabat caricos ad ladrorum antra Cypadam,
officioque boni compagni, quisquis aiuttum
porrexisset ei, tolta sibi parte botini
ibat contentus. Precibus sed denique Baldi
destitit, et savius forcam lazzumque soghetti
scansavit, iam iam illorum compresus ab orma.
Huic tanto coniunctus erat Falchettus amore
(Falchettus qui ortum Pulicani ab origine traxit),
quod sine Falchetto poterat nec vivere Cingar,
nec Falchettus idem faciens sine Cingare vixit.
Non fuit in toto cursor velocior orbe,
namque erat a cerebro ad cinturam corporis usque
semivir, et restum corsi canis instar habebat.
Hic cervos agilesque capras leporesque fugaces
captabat manibus saltuque (stupibile dictu!),
saepe grues tardas se ad volum tollere coepit.
Multi illum reges, reginae, papa, papessae
ducere tentabant, donantes munera, secum.
At ille, incagans papae regumque parolis,
cum Baldo semper dormit mangiatque bibitque.
Inde gigantonem Fracassum Baldus amabat,
progenies cuius Morganto advenit ab illo,
qui iam suetus erat campanae ferre bataium.
Huius longa fuit cubitos statura quaranta,
grossilitate stari aequabat sua testa misuram,
andassetque trimus per buccam manzus apertam;
in spatio frontis potuisses ludere dadis
auriculisque suis fecisses octo stivallos;
spallazzas habuit largas, schenamque decentem
ferre boves carrumque simul pesosque ducentos;
arripiens quandoque bovem per cornua grassum
ad centum passus balzabat, more quadrelli.
Marmoreos etenim pillastros atque columnas
tergore gestabat, nulla straccante fadiga;
streppabat digitis quercus stabilesque cipressos,
ac si fortificam foderet tellure cipollam.
Castronem mediumque bovem denasque menestras,
trenta simul panes coena mangiabat in una.
Tanto ibat strepitu, libras ter mille pesoccus,
tota sub ipsius pedibus quod terra tremebat.
At viltatis homo crudeltatisque minister, Passarinorum e familia tangit tirannum.
Gaioffus, Baldum Baldique timebat amicos.
Imperii zelosus erat, noctesque diesque
masinat in cerebro, lambiccat, fabricat altos
aëre castellos, velut est usanza tiranni,
suspectumque super Baldum plantaverat omnem.
At quia grandilitas animi generosaque virtus
tum gratum patribus tum plebi fecerat illum,
stat regno metuens, ut vulpes vecchia quietus.
Verum mille modos fingit groppatque casones, «Nihil est tam credibile quin dicendo fiat probabile». Cic.
summittitque homines falsos, nugasque silenter
seminat in populo; Baldi bona fama, gradatim
malmenata, fluit, iam facta infamia crescit
bacchaturque omnem coelo montata per urbem,
deque viro illustri canto straparlat in omni,
quod ladronus erat, quod fur, quod mille diablos
corpore gestabat, quod forcas mille merebat. «Sors ista tirannis | Convenit, invideant claris fortesque trucident». Claudian.
Hinc nactus causam patres Gaioffus adunat,
conseiumque facit, pensans comprendere Baldum,
mittaturve suo capiti firmissima taia.
Maxima patricii generis convenerat illuc
squadra, repossato disponens cuncta vedero.
Est locus in quadro, «salam» dixere moderni,
bancarum populique capax sibi iura petentis:
illius ad frontem, inter multa sedilia patrum,
aurea Gaioffi solio est errecta levato
scrannea, spadiferis semper circumdata bravis.
Hic sedet ille, minax vultu sitiensque cruoris.
Non delatores unquam longantur ab illo,
non giottonorum bardassarumque potentum
copia, non ladri, furfantes mille, parati
condonare suam minimo quadrante balottam.
Inter eos garrit centum discordia linguis,
millibus et zanzis populi complentur orecchiae,
semper ut offendant proni referuntque per urbem
ambassarias, quibus arma repente menantur.
Ergo ubi nobilium cumulata caterva resedit
claudunturque fores plebisque canaia recedit,
imperat annutu prius ille silentia dextrae,
talia dehinc solio parlans commenzat ab alto:
ORATIO
Vos, Domini patriaeque patres circumque sedentes
consiliatores, qui nostrae ad iussa bachettae
praesentati estis, causamque modumque sietis
quare ad campanae bottos huc traximus omnes. Quam artificiose procedat oratio, vide.
Quippe (diu nostis) vestra non absque saputa
omnia semper ego dispono, tracto, ministro,
non quia me pactus vel lex magis obliget ulla,
verum solus amor vestri et dilectio regis,
id quod amicitiae, tamquam sit iuris, adoprat.
Hactenus insimulans tacui, grossumque magonem
pectore nutrivi, saepe ut prudentia reges
expetit; at, vobis veluti experientia monstrat,
tegnosum fecit mater pietosa fiolum.
Nostis enim pridem quae, quanta et qualia Baldi
sint probra, nec modus est in furtis atque rapinis.
Incoepit postquam aetatem intrare virilem,
incoepit secum mariolos ducere bravos,
quos «mangiaferros» vocitant «taiaque pilastros»,
aut «taiaborsas» melius quis dicere posset.
Non fuit in mundo giottonior alter, et ipsum
rex ego sustineam? patiar? fruiturque ribaldus
sic bontate mea? quid non pro pace meorum
cittadinorum tolero, postquam improbus iste
urbis in excidium, novus ut Catilina, pependit?
Nostra illum patres patientia longa ribaldum «Nam segnes natos facit indulgentia patris». B.
fecit, ut in ladris non sit ladronior alter.
Quid me vosque simul bertezat, soiat, agabbat?
ad quam perveniet sua tandem audacia finem?
non illum facies tanta gravitudine vestrae
maiestasque mei removent, non guardia noctis,
non sbirri zaffique simul, non mille diavoi
spaventat, tanta est hominis petulantia ladri!
An sentit coelo, terrae baratroque patere
iam caedes gladiosque suos? an contrahit omnem,
quae sassinorum semper fuit arca, Cipadam,
ut cives populumque meum gens illa trucidet?
illa, inquam, gens nata urbem pro struggere nostram?
Quis, rogo, scoppatur nostrae sub lege cadreghae,
quisve tenaiatur mediaque in fronte bolatur,
berlinaeque provat scornum forcaeque soghettum,
ni Baldi comes et villae mala schiatta Cipadae?
doctoratur ibi robbandi vulgus in arte, Mala utique et pessima doctrina.
estque scholarorum Baldo data cura magistro.
Hinc docti iuvenes sub praeceptore galanto
blasphemare Deum variis didicere loquelis;
mox sibi boscorum ladri domicilia quaerunt,
expediuntque manus furtis stradasque traversant,
assaltant homines, amazzant inque paludes
omnia spoiatos buttant pascuntque ranocchios.
Quum simul albergant, squadraque serantur in una
mille cruentosas roncas teretesque zanettas,
spuntonesque, alebardas, quae sunt arma diabli,
dantque focum schioppis, tuf taf resonante balotta.
Semper habent foedas barbazzas pulvere, semper
cagnescos oculos nigra sub fronte revolvunt.
Protinus ad cifolum se intendunt esse propinquum
quem faciant robbas pariterque relinquere vitam.
Praesidet his ergo Baldus caporalis, ab ipso
tot mala dependent: Baldo cessante, quid ultra
mercator timeat? quid gens peregrina? quid urbs haec?
Ad caput, o patres, est ad caput ensis habendus,
membra nihil possunt quum spallis testa levatur:
frange caput serpae, non amplius illa menazzat!
Dixi: nunc vero quaenam sententia vestra est
expecto, ut cunctis sit larga licentia fandi.
Dixerat, et sdegnum premere alto in pectore fingit.
Confremuere omnes, aut quae contraria Baldo
pars erat, aut vafri quos longa oratio regis
spinserat in coleram, tollentesque ora manusque,
iustitiam clamant: — Quid adhuc mala bestia vivit,
quid nisi iacturas, homicidia, furta, rapinas,
o rex, a ladro poterit sperarier unquam?
picchentur fures, brusetur villa Cipadae,
ipseque squartatus reliquis exempla ribaldis
praestet, amorbator coeli terraeque marisque! —
Tum vero ingemuit strictis pars altera buccis
compescens digito, Gaioffo adstante, labellum.
At Gonzaga pater, quo non audentior alter
iustitiae in partes et linguae et robore spadae,
omnium ut aspexit vultus firmarier in se,
stat morulam, dehinc quantus erat de sede levatus
apparet, solvitque ingentem ad dicere linguam:
RESPONSIO
Inclyte rex, regisque viri, vosque urbis honori
instantes proceres, quamvis locus iste soluta
labra petat laxasque velit sine vindice linguas,
attamen, aut iure hoc aut quadam lege rasonis,
quam natura docet, ne me angat culpa tacendi,
incipiam. Baldi animum Baldique valorem,
Baldi consilium novi a puerilibus omne.
Ingenium est homini, quum prima aetate tenellus
luxuriat, facili scelerum se inferre camino,
si incustoditus fuerit nulloque magistro:
cursitat huc illuc, ceu fert ignara voluntas.
At puer ingenuus, quamvis retinacula brenae
non tulit, illecebras seguitans, si forte virum quem
maturum semel audierit leviterque monentem «Facile nostra tenera conciliantur ingenia ad honesti rectique amorem». Sen.
principio, ne virga nimis tenerina, potenti
contrectata manu, media spezzetur in opra,
deposita sensim patitur feritate doceri,
seque hominem monstrat, quem humana modestia tantum
retrahit a vitio iurisque in glutine firmat.
Cernimus indomitos plaustro succumbere tauros,
quorum duriciem removet destrezza biolchi;
semper idem saeviret equus cozzone carente,
nec venit ad pugnum sparaverius absque polastro.
Ne, rogo, conscripti patres (id forsitan unquam
rex sensit), pigeat miras audire prodezzas
quum fanciullus erat Baldus baculumque sbriabat.
Gallicus, ut fama est, e Franzae partibus olim
in Lombardiae, gravida cura uxore, paësum
straccus arivavit, nostramque hanc ductus ad urbem
albergavit agro tantum una nocte Cipadae,
donec ibi gravidata uxor sub fine laboris
ederet infantem, qua Baldus prodiit iste,
qui nascens oculos (veluti dixere comadres
huic circumstantes) coelo tendebat apertos,
quem nemo, ut mos est infantum, fiere notavit.
Hinc vox e summo fuit ascoltata solaro:
— Nascere macte, puer, cui coelum, terra fretumque
ac dementa dabunt tot afannos totque malhoras;
non terrae sat erit centum superare travaios,
ense viam faciens inter densissima tela,
verum quam citius pelago tu intrare parabis,
cinctus ab undosis montagnis nocte dieque
fortunae ingentis patiere tonitrua, ventos,
fulmina, corsaros ac centum mille diablos.
Sed tandem, haud dubites, gaiarditer omnia vinces.
Vocis ad hunc sonitum, mater meschina, vel ipso
supplicio partus vel sic pirlamina fusi
finierant Parcae, puerum pariterque fiatum
sborravit: puerum vulva, pulmone fiatum.
Vos meditate suo qualis tunc doia marito
ingruit, ut mortam uxorem natumque puellum
ante oculos proprios tractu sibi vidit in uno!
Ergo infantillum villano tradidit uni,
mox abiit tacitus nec post apparuit unquam.
Nescitur, fateor, qui sit, verum alta gaiardi
forcia si Baldi, si animi prudentia, si frons Non splendor nisi splendoris causa.
gentilesca alacris, si tandem forma notatur,
non nisi fortis erat, prudens, gentilis et acer
formosusque pater, licet huic sors aspra fuisset,
namque bonum semper fructum bona parturit arbor.
Interea villanus (adhuc cum coniuge vivit)
infantem ad gesiam causa baptismatis affert.
Quem dum pretus aqua signat, terque ore gudazzum
compadrumque rogat quod debet nomen habere,
en quoque ter facta est summo responsio templo:
— Baldum, vos Baldum fantino imponite nomen! —
Constupuere oranes: devenit murmur ad urbem,
hic testes centum tantae novitatis habentur.
Lactiferam Baldus tantum bibit ergo madregnam,
ut iam carriolum, quo imprendit ducere gambas,
linqueret ecussis rotulis cantone refractum,
et pede firmatus nunc huc, nunc cursitat illuc,
quem pater, ignarum veri patris, instruit omni
rusticitate, docens villae poltronus usanzam.
Post merdulentas iubet illum pergere vaccas,
sed gentilis eam reprobat natura facendam:
non it post vaccas; at saepe venibat ad urbem,
atque ad villani despectum praticat illam.
Solis in occasum villae tamen ipse redibat,
atque reportabat testam quandoque cruentam;
magnanimus quoniam puer, ut solet esse per urbes,
semper pugnorum guerris gaudebat inesse,
sive bataiolis bastonum sive petrarum.
Nec pensetis eum quod certans ultimus esset;
at ferus ante alios squadram exortabat amicam,
et centum lapides saltu reparabat in uno.
Quum villanus eum villam abhorrere notavit,
experimentum aliud, puerum quo exturbet ab armis
in quibus immersum cognoverat esse, provavit:
nam neque villanus sese cum milite confat.
Comprat ei fortem tabulettam roboris (illam
rupisset subito), qua sculptum addisceret «a, b»:
ille scholam primo laetanter currere coepit,
inque tribus magnum profectum fecerat annis,
ut quoscumque libros legeret sine fallere iotam.
At mox Orlandi grandissima bella nasavit,
non vacat ultra deponentia discere verba,
non species, numeros, non casus atque figuras,
non Doctrinalis versamina tradere menti.
Regula Donati, prunis, salcicia coxit;
ivit et in centum scartozzos Norma Perotti.
Quid Catholiconis malnetta vocabula dicam,
quae quot habent letras tot habent menchionica verba,
et quot habent cartas tot culos illa netarent?
Orlandi tantum cantataque gesta Rinaldi
agradant puero, quamdam in cor dantia bramam,
ut cuperet iam vir fieri spadamque galono
cingere et auxilio rationis quaerere soldum;
ut legit errantes quondam fecisse guereros.
Viderat Ancroiam, velut orlandesca necarat
dextra, gigantissam, vel quum de funere Carlum
dongellettus adhuc rapuit, tractoque guainis
ense durindana secat alto e tergore testam
ingentem Almontis, Franzamque recuperat omnem.
Viderat ut miris Agricanem forcibus atque
mille alios fortesque viros fortesque gigantos,
arce sub Albracchae, giorno truncavit in uno.
Viderat ut nimias scoccante Cupidine stralas,
ipse gaiardorum princeps, ipse orbis acumen Renaldus.
duxerat ad mortem, rupto gallone, cusinum;
at manus Angelichae, dum coelo brazzus ab alto
mortalem ferret colpum, succurrit, et ipsum
orlandescum animum tenuit spadamque pependit.
Saepius his lectis puer instigatur ad arma,
sed gemit exigui quod adhuc sit corporis, annos
praecipites cupiens, ut vir se denique posset
vestire ingentemque elmum ingentemque corazzam.
Is tamen hispanam semper gallone daghettam
dependentem habuit, qua plures saepe bravettos
terruit inque fugam solettus verterat omnes.
O pueri audentes animos agilemque prodezzam!
At video e vobis hinc plures volvere testam,
nasutosque mihi parlanti ostendere nasos.
Quam bene nunc vestri pensiria nosco magonis!
An subsannatis quia nostra oratio tandem
finiet, ut mores videatur in hasce favorem
porgere sbriccorum? veluti si Baldulus infans
tum bene fecisset quum Lanzalotta vigazzum
traiecit gladio? sic divi nonne sbisaos
castigare solent? sic nonne superbia nostra
cogitur interdum vilem portare cavezzam?
Quid, rogo, quid?...
TRIPERUNO
V olea seguir ancora il vecchio grasso,
N é molto mi spiacea di starlo udire:
I l dol, nulladimanco, il troppo indugio
C h’era di ricercar la vaga ninfa,
A ndarmi allor da lui luntan mi astrinse.
Q ueto mi stoglio, senza dirli «vale»,
V olgendomi d’un rio lungo a la ripa,
E pur egli mi segue passo passo.
F iumi di latte, laghi di falerno, Incidit in Scyllam cupiens vitare Charybdim.
V alli di macaroni e lasagnette,
E cco mi veggio intorno, e poggi ed alte
R upi di cacio duro e sodo lardo,
A cque stillate de capponi grassi,
T orte, tortelli, gnocchi e tagliatelle.
— B eata vita — dissi allor mirando —
È questa, che di tante trippe abbonda!
N on mai quinci partire mi delibro. — «Ebrietas homines impetuosos facit». Arist.
E con questo pensier, mentre ad un fonte
D i moscatella malvasia m’abbasso,
I o tolsene, bevendo, in quella copia
C h’un bove sitibondo d’acqua sorbe.
— T rinch trinch! — con altro vaneggiar tedesco
I ncomenciai balordo a proferire.
R otavasi giá 'l mondo a gli occhi miei,
E sottosopra il mar, la terra, il cielo
G iran intorno e fannomi qual foglia
V olar al vento, e gli arbori, le ripe,
L e spiagge mi parean cotanti veltri
A i fianchi de le capre gir correndo.
S altano ad alto l’erbe e gli virgulti,
A lpe con monti e ’nsieme con poggetti
C orreno in rota e danzano leggiadri.
R apito poi con elli il mio cervello,
I n un momento scorse l’universo
S enza posarsi mai, senz’ulla tregua.
M entre cosí danzava a la moresca, Illusiones ebrietatis.
O do dir: — Triperuno! — Ed ecco in mezzo
R atto mi vidi posto d’una turba.
I o contemplai non so che volti grassi
B ere sovente e poi cantar sonetti,
V otando zaine, fiaschi e gran bottazzi;
S altavan poi chi su chi giú d’intorno,
I n quella foggia che vili fasoli «Vilemque faselum». Virg.
G irano, a spessi tomi volteggiando,
N el caldaio su fiamme ardenti posto.
A llor con quelli insieme canto in gorga «... nec non et carmina, vino | ingenium faciente, canunt». Ovid.
T utta tremante: — Bacco evoé! —
I ncomenciando poi cosí dir versi:
FUROR
— S urgite trippivorae, Merlini cura, Camoenae:
«T rinch trinch» si canimus, quid erit? cantate, bocali!
E cce menestrarum quae copia quantaque stridet
R ostizzana super brasas squaquarare bisognat.
C urrite, gnoccorum smalzo lardoque colantum
O conchae, plenique cadi plenique tinazzi!
R umpite brodiflues per stagna lasagnica fontes,
E rrantesque novo semper de lacte ruscelli!
F estinate meam per buccam intrare, foiadae
E t vos formaio tortae filante sotilum;
D um canimus trippas, trippae sint gutture dignae
A tque altis cubitum calchetur panza fritadis!
P ande tuae, Merline, fores spinasque catinae,
V ernazzam gregumque simul corsumque bevandae
T rade todescanae, donec se quisque prophetam
R erum cognoscat venientum qualis et ipse est,
E t quisquis cyatosque levat vodatque caraffas! —
T alia dum loquimur, sonino demergimur alto.
V enit at interea mihi trippiger ille Cocaius,
I Ile, inquam, cui panza pedes cascabat ad imos
R umpebatque uteri multa grassedine pellem.
— T une — ait — o Triperune tener, Triperune tenelle,
V enisti? venisti etiam, Triperune galante?
T une ades? o mi lac, mi mel, mi marzaque panis,
E ya age, zuccarate puer, ne, puppule, dormi,
S urge oculosque leva! hui, sbadacchias? surge, gaiarde!
A n, mellite, fugis sic me? me, ingratule, scampas? Concors discordia.
B astardelle levis levisque cinedule, sic sic
I ndignatus abis? Sta mecum, argutule, semper:
E n paradisus adest, en hortus deliciarum;
R elligio quaenam melior, quae tam bona lex, quam
E sse hac in vita, qua vivimus absque travaio?
O vitam sanctam, o ritus moresque beatos!
M ellis molle mare est, illud travogabimus ambo, Mare voluptuosum huius vitae.
N os ambo travogabimus, ambo errabimus, ambo
E t simul ad poggiam simul et veniemus ad orzam.
S urge, poëta novelle, cane, heus, puer, accipe pivam!
D ic improviso macaronica gesta cothurno,
I ncipe, parve puer: qui non suxere fiascos,
I lli, consumpto lardo, sonuere carettam.
TRIPERUNO
V ano ha il pensier ed il desir inutile,
E sser chi crede un cielo a questo simile. Inclinatio sordidae mentis ad illicita.
R idi, cor mio, ché cosa verisimile
T ornar un’alma a Dio non è, ma futile.
I tene, leggi, e voi scritture ambigue,
T empo ch’eterno sia gli dèi s’appropriano,
E pel nostro sperar di risa scoppiano.
MERLINUS
S unt tibi tortificae faciles ad carmina musae,
O mi belle puer, sic sic bene concinis? an sic
R ecte recta canis? iam iam macaronicus esto.
T ale tuum carmen nobis, quale ocha plena
E st aio mensis, quale est damatina todesco
M alvasia recens, sus caulae, melque fritellis.
TRIPERUNO
N é per speranza d’altri beni, né Elata laetitia praeter modum opinione praesentis alicuius boni.
V oglio per alcun pregio for di qui
R eddurmi ad altri piú felici dí.
S ciocco sperar il ben ch’anco non è!
I o nacqui solo per gioir qua giú:
N oi dunque in terra e Dio nel ciel si sta;
I ndarno altrui sperarvi chi non sa!
MERLINUS
V era ais! O corsi, o admiranda potentia greghi!
T antula ne in puero doctula lingua meo?
TRIPERUNO
R iposte cime, poggi ombrosi e colli,
E voi di lardo e di persutto ripe,
D ensi antri d’onto e tripe,
E mpíti noi, che pieni e ben satolli
A vostro onore scoppiarono versi,
T a’ forse, che non mai sonôr sí tersi!
MERLINUS
P annadae hinc abeant, aqua coctaque febribus apta!
R adices herbaeque habiles in pascere capras,
I te ad menchiones, ite ad saturare legeros,
S tant qui per boscos, per montes perque cavernas Fomentum erroris.
T essere sportellas, tenuatum battere corpus,
I nglutire favas, giandas ac millia quae fert
N atura et porcis et asellis atque cavallis!
A t nos hic melius starnae turdoque studemus.
TRIPERUNO
N on sia cagion che mai da te mi scioglia,
O mio maestro e guida,
R iposo, oggetto mio, mia scorta fida!
M angiamo dunque e rallentamo i fianchi,
A cciò ch’un bon castron da noi si franchi.
MERLINUS
P ersutti accedant primo, bagnentur aceto, «Hic ridere potes Epicuri de grege porcum». Hor.
A pponatur apri lumbus, cui salsa maridet,
T ripparumque buseccarumque adsit mihi conca,
R ognones vituli lessi sapor albus odoret,
I nsurgant speto quaiae, mostarda sequatur!
S ic vivenda vita haec: veteres migrate fasoli!
LA MATOTTA
TRIPERUNO
Stavami un giorno fra li altri col mio maestro Merlino su la ripa d’un rapidissimo fiume di latte, lo quale, impetuosamente le fragil sponde di pane fresco diroccando, un suavissimo talento di mangiar suppe di cotal mistura porgevaci. Ma io talmente trovavami esser allora di frittelle compiuto e satollo, che (in mia laude vo’ dirlo!) col dito per la gola quelle toccare averei potuto: laonde mi fu mistero la cintura, se scoppiare non vi voleva, rallentarmi su’ fianchi. «Non immerito medici fidi cibo et crapula distensos scaeva et gravia somniare autumant». Apul. Vero è che ’l mio precettore, assai di me non pur meglior poeta, ma bevitore, mangiatore e dormitore, tutto che di quelle istesse frittelle dovea ripieno essere, niente di meno erasi pur anco apposto agiatamente a l’impresa di espugnare un capacissimo vaso di lasagne, non giá di pasta per zappatori usata, ma di pellicole de grassi capponi, li quali de l’istesso colore, c’hanno la testa li giudei, erano. E mentre io, con seco favoleggiando, mi trastullo in veder un porco col griffo nel caldaio di broda li guazzare, ed egli per non perder il tempo mi ascolta solo e mai nulla risponde, ecco vi sovraggiunse un damigello, d’aspetto, per quel che mi ne parea, molto gentile e saputo, lo quale una sua cetra soavemente ricercando, cosí accomodatosi con la voce al sòno e appoggiatosi ad un lauro a lui vicino, disse:
LIMERNO
La fama, il grido e l’onorevol suono
di vostra gran beltá, madonna, è tale,
che ’n voi tanto ’l desio giá spiega l’ale,
che non mi val s’addrieto il giro o sprono.
Di che s’al nome sol l’arme ripono
con cui spuntai d’Amore piú d’un strale,
or che fia poi vedendo l’immortale «Amatoria contagio facile fit et gravissima omnium pestis evadit». Marsil.
aspetto vostro, a noi sí raro dono?
Ma, lasso! Mentre i’ bramo e ’nsieme tremo
vederlo, piú s’arretra la speranza
quanto l’ardor piú cresce col desio.
Però di quella omai poco m’avanza;
e pur s’un riso vostro aver poss’io,
resorto fia da voi sul punto estremo.
TRIPERUNO
Al soavissimo canto e suono di quel giovene tacquero sí le selve, racquetatosi ogni vento, che le fronde niente si moveano, non giá perché nel contado del mio maestro fusse de fioriti prati, ombrosi boschi, verdi poggetti amenitade veruna (quando che la vaghezza di quel luogo era solamente di lardo, botiro, cagiate, brode grasse ed altre simili leccardie), ma quella fiumara, che dissi essere di latte, eravi confine di tre molto differenti regioni, come se fussero la Europa, l’Africa e l’Asia. La prima regione, ove io col mio maestro abitavamo, giá pienamente dessignata avemo, la quale Carossa fu nominata. Crapula. La seconda, tutta vaga e ripiena di vive fontane, frondosi lauri, mirti, faggi, abeti, frassini, olive, querze, e d’altri assai bellissimi legni addombrata, chiamavasi Matotta, ove questo Limerno dimorava. Vanitade. La terza, Soperfluitade. per il contrario, tutta sassosa, rigida, secca, sterile ed arenosa, Perissa fu appellata, ne la quale un eremita detto Fúlica, senza ch’altrui lo invidiasse, abitava. Or dunque m’accorsi quel giovenetto dover essere del paese di Matotta, lo quale, cosí polito de vestimenta e perfumato di muschio, sapeva dolcemente a l’instrumento concordare la voce; onde io tratto in quella parte celatamente, che né egli né Merlino se n’avvedesse, trapassai lo fiume di latte in quella verdura di lá e, drento uno cespuglio di rose e spine appiattatomi non troppo da lui remoto, stetti ad ascoltarlo. Lo quale, dopoi un lunghetto ricercare di quelle sonore corde, in queste rime cosí proruppe, dicendo:
LIMERNO
So ben che ’l mio lodarvi, donna altera,
quando che non vi giunga, avete a sdegno;
so ben che ’l mio avvezzato in fiumi legno
trovar porto nel vostro mar dispera.
Ma de’ vostr’occhi se quell’alma spera Excitat ingenium miris amor artibus atque | Eximium e vili pectore vibrat opus.
mi si scoprisse alquanto, forse al segno
uguale mi vedrei, che ’l nostro ingegno
ascende amando e piú oltra gir non spera.
Non è barchetta cosí lenta e frale,
ch’avendo voi, e vosco Amor, in poppa,
per ogni ondoso mar non spieghi l’ale.
Onde la musa mia va pegra e zoppa,
se schiva udite lei; ma se vi cale
il suo cantarvi, allor lieta galoppa.
TRIPERUNO
Tosto che finito ebbe di dire, eccovi sprovvedutamente un augelletto, o per caso o tratto dal suo concento, si ripose appresso d’un arbore sopra un ramo secco, ove, taciuto ch’ebbe Limerno, con un dirotto gemito faceva la selva intorno richiamare: di che egli, alzata la fronte a quella, cosí a l’improvviso incominciò con seco a ragionare:
LIMERNO
— Vaga, solinga e dolce tortorella,
ch’ivi sul ramo di quell’olmo secco
ferma t’appoggi ed hai pallido il becco,
spennata, pegra e men de l’altre bella;
dimmi, che piagni? — Piango mia sorella
perduta in queste selve, e lei dal stecco
di questo antico legno chiamo, ond’Ecco
miei lai riporta a la piú estrema stella. —
Lasso! ch’anco la mia pennando i’ chero
per questi boschi, e ’ndarno quella abbraccio, «Ludit Amor sensus, oculos perstringit et aufert libertatem animi et mira nos fascinat arte».
fingendo lei quell’albero, quel pino.
Ma acciò che ’l nostro affanno men sia fiero,
partiamo a l’uno e l’altro il suo destino,
ché altrui miseria al miser è solaccio.
TRIPERUNO
Piacquemi sommamente quella foggia di dire, senza ch’avessevi egli, come si sòle, faticosamente avanti ripensato. Ma, levandosi quella un’altra fiata su le penne, giuso in una valle portata, da gli occhi di quello si tolse. Ed esso, rallentata la corda del canto piú de l'altre affaticata, mettesi a passeggiare accanto il fiume, tutto sopra di sé, come penseroso, levandosi, non avendo ancora scorto lo mio maestro di lá dal fiume, su la ripa del pane fresco, agiatamente disteso. Ma vedutolo cosí sprovveduto, ritenne il passo e, tutto il viso in riso cangiatosi, cominciò ad interrogarlo in questo modo.
DIALOGO PRIMO
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che fai, Merlino?
Merlino. Empiomi lo magazzeno.
Limerno. Avvantaggiato mercadante sei tu! mangi tu forse?
Merlino. Non hai tu gli occhi da vederlo?
Limerno. Ben veggio con gli occhi, ma non comprendo.
Merlino. Per qual cagione mi domandi tu adonca s’io mangio, non lo potendo chiaramente vedere?
Limerno. Io so che i fabbri trattano solamente cose da fabbri: «Tractant fabrilia fabri» Horat. laonde parrebbemi cosa disusata e nova veder Merlino far altro che mangiare.
Merlino. Io so ben far altro ancora.
Limerno. Credolti troppo; ma che ne facci testé la prova, non molto mi cale.
Merlino. Perché cosí?
Limerno. Vi faressi sentire d’altro che zibetto e acqua nanfa!
Merlino. È cosa naturale.
Limerno. Via piú asinale.
Merlino. Da quanto tempo in qua sei tu cosí delicato e schivoso devenuto? non ti fai, se mi rammento bene, chiamar Limerno?
Limerno. Limerno son per certo.
Merlino. Limerno Pitocco?
Limerno. Io son pur desso.
Merlino. Dimmi adonca, Limerno Pitocco, per qual cagione tu ti mostri ora tanto schivo e ritroso d’udir nominare quella cosa con cui lordamente hai sconcacato quel tuo Orlandino?
Limerno. Da te solo ne tolsi lo esempio, Merlino.
Merlino. E dove?
Limerno. Ne la quinta fantasia del tuo volume.
Merlino. Piú questo in un Zambello potevasi tollerare che in un cavallero e paladino di Franza, e piú col mio stile macaronico che col vostro tanto onorevole toscano.
Limerno. Adonca, se ben comprendo, appresso di te lo stile toscano è avuto in riverenzia, che «cosí onorevole» lo chiami?
Merlino. Perché no?
Limerno. Che ne so io? mi pare di stranio ch’un uomo macaronesco voglia magnificare l’eloquenza toscana.
Merlino. La cagione?
Limerno. Perché lo bove si rallegra nel suo puzzo. Bos gaudet in stercore suo.
Merlino. Ed a te quanto la lingua toscana viene in grazia? in che openione l’hai tu?
Limerno. Sopra tutte le altre quella reputo degna, laudo, magnifico, e contra li detrattori di essa virilmente lei deffendo; ché, quando talora per sotto queste ombre mi trovo le belle rime del mio Francesco Petrarca aver in mano ovvero quella fontana eloquentissima del Boccaccio, uscisco, leggendo, fora di me stesso, devengone un sasso, un legno, una fantasma, per soverchia maraviglia di cotanta dottrina! Qual piú elegante verso, limato, pieno e sonoro di quello del Petrarca si può leggere? qual prosa orazione si può eguagliare di dottrina, di arte, di arguzia, di proprietade a quella del facondissimo Boccaccio? Dilché io reputo gli uomini litterati, li quali nulla delettazione di questa lingua si pigliano, essere non pur di lei ma di cortesia, gentilezza ed umanitade privi.
Merlino. E quali sono questi detrattori di essa?
Limerno. Alquanti persianisti pedagogi o pedantuzzi.
Merlino. Che cosa dicono?
Limerno. Cotesta lingua essere cagione di lasciar la romana.
Merlino. Ed io nel numero di costoro mi rallegro essere, ché di te e d’altri toi simili ignoranti maravigliomi, li quali, non intendendo dramma de la tulliana facondia e gravitade virgiliana, vi sète totalmente affisi ed adescati al «quinci», «quindi», «testé», «altresí», «chiunque», «unquanco», «altronde», ed altri dal tosco usitati vocaboli.
Limerno. Ah volto di tavolazzo, ubriaco che tu ti sei! presumi tu forse di tanta sufficienzia essere che tu poscia la sublimitade de la toscana lingua diminuire?
Merlino. Ah muso di giottone e forca che tu ti sei! ardisci tu dunque cotanto lodare lo stile petrarchesco e boccacciano, che la romana eloquenzia, non essendo da te nominata, da te riporti infamia?
Limerno. Tu ne menti molto bene, ché non biasmo io la romana lingua.
Merlino. Tu ne stramenti molto piú, ché, mentre innalzi quella troppo, questa abbassi e deonesti molto. Saepe ab unius laude alterius vituperatio dependet.
Limerno. Deh, vedi cotesto poetuzzo macaronesco in che modo non pur giudice ma advocato di Tullio e Virgilio da se medemo si constituisse!
Merlino. Deh, mira cotesto zaratano lombarduzzo come si mette al rischio di saper ragionar toscano, ove egli non men si affá d’un asino a la lira!
Limerno. Che zaratano? che lombarduzzo? Come se un conte di Scandiano, un Ludovico Ariosto, un Tebaldeo, un Lelio, un Molza ed altri molti valentuomini non fussero in Lombardia nasciuti!
Merlino. Non sei tu giá del numero loro?
Limerno. Desidro esserne: onde ogni mio studio è di, se non eguarmi, almanco appressarmi a loro.
Merlino. Molto luntano tu li vai!
Limerno. Lo bon animo non vi manca. Ma tu come hai bene osservato le divine vestigia di Virgilio in quel tuo perdimento di tempo!
Merlino. Quale?
Limerno. Quel tuo volume dico, nel cui sobbietto le prodezze de non so chi Baldo cachi e canti.
Merlino. Quanto al cantare non ho io giá da imitare Virgilio, quando che del mio idioma, lo quale sopra tutti li altri appresso di me vien reputato nobile, io non mi tegna aver superiore alcuno; ma quanto al cacare, non voglioti rispondere altrimente, perché, se ne l’opera mia son stato io sin a li galloni in quella tal materia puzzolente, tu, Limerno mio, sin a gli occhi ti vi sei lordamente voltato. Però lasciamo, pregoti, questo soprabbondevole ragionamento in disparte, ché tu ed io abbiamo in ogni modo strabocchevolmente errato.
Limerno. Io tolsi lo nome solamente di Pitocco per dire un tratto lo mio concetto.
Merlino. Ed al soggetto, qual è quello, non accascava se non malagevolmente il nome di Pitocco, ed anco dedicarlo a un signore non si doveva.
Limerno. Orsú dunque, lasciamo, Merlino caro, le dette tra noi ingiurie, e siamo amighi come prima. Bacchus et Amor, crapula et vanitas, osculatae sunt.
Merlino. Fa’ come ti pare.
Limerno. Ma vorrei da te una grazia sola, caro mio Cocaio, impetrare: non mi la negare, pregoti, se ’l bottazzo non mai ti si parti dal gallone.
Merlino. Tu non pòi fallire di domandarmi, ché a me stará poi, parendomi, darti.
Limerno. Non ti voler piú oltra con esso meco turbare se un mio concetto, aúto giá molti mesi, ora sono per scoprirti...
Merlino. Con la lingua di’ pur ciò che ti pare, ma tacciano sopra tutto le mani.
Limerno. Non vi è pericolo, mediante fra noi lo fiume, di conflitto alcuno, Merlino caro. Ma taci, prego: non odi? Conosco la dotta mano, conosco lo novo Anfione, conosco lo mio Marco Antonio, o mirabilissimo musico, ché ben quella virtude a la gentilezza d’un tal animo degnamente conviene. Non odi tu lo accomodatissimo ricercare d’un laúto? Costui discese da Vinegia, di tutta Italia nutrice. Egli per doi giorni s’è dignato qui fra noi dimorare. Or ascoltamolo, ti prego: egli Biduo tantum in vanitatis loco retentus est. ancora non ci ha veduto, e men voglio che ci lasciamo da lui vedere, acciò lo rispetto suo verso de noi cessare nol faccia da sí dolce impresa.
A l ciel or triunfando spiego l’ale;
N on ho di sorte ch’io piú tema l'onte,
D a poi ch’anti sí altera e degna fronte Proprium huius principis prudentia est.
R agiono, ed ella udirmi assai le cale;
E perché del suo nome alto immortale
A lzar piú non potrei le note cònte,
S crissile in capo de’ miei versi al monte,
D ove salir vorrei con piú alte scale.
G loria del mondo non che d’un sol stato
R egna costui, ch’ai fatti egregi e ad essa
I ntegra forma ogni mortal eccede.
T urchi, mori, tedeschi, e d’ogni lato
V ien gente al grido; e mentre l’ode e vede,
S ovra la fama esser il ver confessa.
LIMERNO
A l'eccellenzia e magnanimitade d’un cotal principe meglior tuba, che lo sollevi e innalzi, non si potria giammai trovare di questa. E se d’intender brami lo nome del lodato signore, li capoversi del cantato sonetto chiaramente quello ti appresentano. Ma ecco si move a dirne appresso: sta’ queto.
Voi che soavi accenti, alte parole,
rime leggiadre e pronti sensi ognora
impetrate dal ciel, deh! perch’un’ora
ei non me’nspira esser di vostra prole?
Direi che d’un tal principe non sòle
giá ’l mondo esser adorno, il qual onora
non pur Vinegia bella, ma di fora Summus locus bene regitur, quum is qui praeest vitiis potius quam populo dominatur.
le genti sotto l’uno e l’altro sole.
Cantate ’l dunque voi, ché, a me se diede
benigna udienza (onde lieto ringrazio
l’inclita sua virtú), l'atto gentile
quanto piú voi di dire avrete spazio!
Ma ben v’annunzio che stolt’è chi crede
poter tant’alto porger uman stile.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Or ecco, Merlino, che a tempo questo gentil musico porsemi bona cagione di dirti lo giá mio promesso a te concetto. Per qual dunque ragione tu, omai attempato, di questo tuo paese di Carossa, Crapula. paese dico da ubriachi, parassiti, lurconi, crapuloni, oggi mai non ti svelli? perché pur anco vi dimori tu? Qual foggia di vita potrai tu forse in questa regione de lupi adoperare, la quale posciati con la utilitade insieme recarti qualche onorevol fama in questo mondo e removerti finalmente quel nome di Cocaio; nome, dico, di somma leggerezza, sí come il nome di Pitocco ancor io spero di lasciare?
Merlino. De l’onorevol fama tanta io me ne acquisto col mio botiro e lardo, quanto tu con quelli toi zibetti e ambracani. Ma de l’utilitade io t’ho saggiamente da rispondere: niuna cosa essere piú utile che ’l mangiare e bere. Non dicoti le antiche giande da tutti lodate e non toccate se non da’ porci, anzi parlo di questi miei delicatissimi liquori, ove la vera e dritta via di ben vivere giá molti anni passati mi ricondusse.
Limerno. Qual immortalitade di animo vi consegui tu per bere o mangiare?
Merlino. Or come potrai tu, grossolano che tu ti sei, vivere senza queste due parti?
Limerno. Anzi tu vivi allora sol per mangiare, e questa è vita bestiale.
Merlino. Va’ al diavolo! Vivi tu forse senza mangiare?
Limerno. Ben mangio, ma sol per vivere.
Merlino. Ed io vivo per mangiare.
Limerno. Grandissima differenzia è cotesta.
Merlino. Anzi è una istessa cosa, ma non la comprendi.
Limerno. Ben io la conosco, ché assai ti fôra meglio mangiare per vivere che vivere per mangiare.
Merlino. Ed io quell’istesso ti replico: che meglio sarebbeti mangiare per smaltire che smaltire per mangiare.
Limerno. Qual fama, qual gloria, qual immortalitade ne averai poi? non ti reuscirebbe meglio mangiar per vivere e, vivendo, acquistarti perpetuitade di gloria?
Merlino. Di qual gloria intendi tu?
Limerno. Di questo mondo.
Merlino. Aspettava che mi parlassi del cielo.
Limerno. Mi pensi tu forse cosí pazzo ch’io creda sopra la luna?
Merlino. Ed io di te assai manco credo; ché, volendo una fiata salir un arbore di fico ad empirmene de le sue frutta, per mia sventura venendovi abbasso, ruppimi una spalla, onde d’allora in qua non ho mai voluto piú credere sin a l’altezza de li arbori. Ma qual è questa gloria del mondo c’hai detto?
Limerno. Innamórati, raccendati, affócati, impazzisceti di qualche bella donna!
Merlino. Con diavolo impazzirmi? dòlti forse d’essere solo pazzo che me in compagnia cerchi di aver ancora? Ben doppia saria cotesta mattezza, che io omai vecchio ribambito mi cacciassi in cotal impresa. E quando pur io lo facessi, qual fama onorevole, come hai tu detto, ne conseguisco poi?
Limerno. O dolce, o soave mattezza di questo tenero Cupidine, lo quale di tanta virtude si rende ne gli amanti cagione! Voglio Vanitas instruit crapulam. primeramente che a grande contento siati lo gire non pur de fini e strafoggiati panni ma de costumi e gesti lascivi ornato, perfumarti le mani, lo viso, le labbra, li capelli sovente di zibetto, muschio ed altri unguenti con acque di grato odore, sforzarti di sapere ogni arte, ogni astuzietta con qualche simulata invenzione di farti o pur conservarti grato a la tua madonna, non perdonar a la borsa in feste, danze, conviti, notturne, mattinate, e qualche dono per truzzimani a lei celatamente dricciato. Ma sopra tutto per il sprono e dolce incarco di questo amoroso affetto tu sempre averai lo componer arguti versi pronto e dilettevole; laonde voglio che totalmente a la musica vocale Delectatione opus perficitur. tu ti abbandoni, cantando le cortesie, gli sdegni, gli atti, le parole, o in lira o in lauto o in altro soave strumento, de la tua diva.
Merlino. Non mi fa mistiero lo giá perfettamente imparato imparare di novo. Pensi tu forse, o Limerno, ch’io non sappia le passioni di quello arciero, per cui giá tanto cantai ch’ora ne son roco e imbolsito?
Limerno. Troppo til credo, ché ’l fiasco per soverchio bere consuma un corpo. «Copia vini et tentat gressus debilitatque | pedes». Virg.
Merlino. Anzi lo bere fa bona ed espedita voce.
Limerno. Ed anco li quattro fa parerti otto. Ma dimmi: soni tu d’altro instrumento che di fiasco?
Merlino. Ecco lo sacco.
Limerno. Per la croce di Dio! tu dèi essere un boia.
Merlino. Che voi dir boia?
Limerno. Un mastro di giustizia, al quale si dá per sua mercede tre libre di piccioli e un sacco.
Merlino. Ma non gli dánno però la piva drento.
Limerno. Tu dunque vi tieni drento la piva?
Merlino. Eccola.
Limerno. Gonfia, ti prego!
Merlino. Lirum bi lirum. Vuoi ch’io ti mostri s’io so meglio di te cantare?
Limerno. Aspetta, prego, ch’io prima dirò ne la cetra, e tu con la piva mi succederai.
Merlino. Io ne son molto ben contento. Ma dimmi in lombardo stile, ché non t’intenderei toscano.
Limerno. Farollo veramente. Odi un endecasillabo del sonno:
Huc, huc, noctivage pater tenebrae; |
Merlino. Taci lá! questo mi par latino, e non lombardo.
Limerno. Anzi e’ lombardi fanno pessimamente, partendosi elli da gli antiqui soi maestri di lingua latina, quando che lo materno parlare tanto rozzo e barbaro gli sia. Onde s’io considero chi di Mantoa, chi di Verona e altri luoghi di Lombardia nacque, Virgilio, Catullo, Plinio. dirò che ’l proprio parlare de’ lombardi saria lo latino.
Merlino. Or ben conosco che sei uomo vano e smemorato, Proprium vanitatis. ch’ora contradici a la openione tua innanzi detta. Anzi lo proprio de’ lombardi è lo barbaro, da’ longobardi derivato: ma di’ meglio (forsennato che tu ti sei!), che ’l proprio idioma de gli abitatori di Lombardia sarebbe lo latino, perché Lombardia non fu Lombardia se non dapoi che i longobardi la barbarie cosí del parlare come de’ costumi portarono in quelle parti. Li costumi se ne sono in sua malora partiti, e lo parlare vi è restato; e però confermarotti quello che giá sopra dissi: che tu, essendo lombardo, piú presto avvezzarti doveressi a la paterna tua lingua latina che a la pellegrina a te toscana; ché molto piú di fama e gloria conseguiranno per lo avvenire li scrittori latini che li toscani, quantunque oggidí a molti lo contrario appaia, servando però sempre la dignitade de la mia macaronesca. Or dunque, mentre io m’apparecchio responderti, di’ suso quel tuo promesso endecasillabo: o latino o lombardo che si sia, non voglio di cotesto piú teco disputare.
LIMERNO
Huc, huc, noctivage pater tenebrae;
huc, Somne; huc, placidae sator quietis
Morpheu; huc, insiliens meis ocellis
amplexusque thorum, cuba aut pererra
totum hoc populeo madens liquore
corpus, tum gelidum bibens papaver.
Hinc hinc mordicus intimis medullis
haerentes abeant cadantve curae,
ut grato superum fruar sopore,
mox grates superis feram diurnas.
MERLINUS
Post vernazzi flui sugum botazzi,
post corsi tenerum greghique trinchum,
et roccam cerebri capit fumana
et sguerzae obtenebrant caput chimaerae.
O dulcis bibulo quies todesco,
seu feno recubat canente naso,
seu terrae iaceat sonante culo!
Mox panzae decus est tirare pellem,
mos est sic asino bovique grasso.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Ah! ah! ah! tu mi rumpi de le risa il petto con questa tua gentil Camena. Veridico filosofo ben fu quello che disse: lo ranocchio non sapersi comportare del suo fango fora.
Merlino. Non mi dar piglio a la coda, Limerno, ch’io so meglio mordere che tu pigliare.
Limerno. Non ti adirare, prego, ché d’adirarti causa non è. Giá cotal proverbio non dissi per biasmo tuo, anzi contra me solo volsi accennare, che via piú sono manco agevole a dir latino che toscano.
Merlino. Ed io similemente trovomi essere manco idonio ad ascoltare toscano che bergamasco, e questo men aggradiscemi del romano o vòi latino. Dilché se hai pur a dirne piú, ecco ai nomeri latini mille orecchie ti spalanco e sbaratto.
Limerno. Di qual nome fassi degno, Merlino mio, un uomo che ingrato sia?
Merlino. Dilli ragionevolmente «bestia».
Limerno. Cosí da bestia te ne voglio trattare uno. Or odi:
Iam geris humanos nec quidquam, perfide, vultus,
iam cole cum nemorum stirpe, ferine, nemus,
immemor accepti qui muneris infremis instar
belluae, et in nostram saevis, inique, fidem.
Prodis amicitiae foedus, nec te pudor ullus
arguit! i, pete (vir non eris inde!) feras.
Chiamavasi costui per nome Urbano; e male convenivagli veramente, ché mai né il piú scortese né il piú rozzo né il piú aspro si puote vedere di lui fra quante ville di Padoa o Vicenza si trovano. Del quale fu giá composto quella similitudine contraria:
Lucus luce carens nomen de luce recepit;
bellum, quod bellum sit minus, inde venit.
Hinc quoque te Urbanum merito appellamus, ut isto
nomine rusticitas sit tua nota magis.
Deh! pregoti, amantissimo Merlino, lasciami ch’io canti di Amore in toscano idioma, ché veramente non so io piú che dirti latino.
Merlino. Non lo farò io giammai: tu canti a me e non a te.
Limerno. Non voglio per niuna guisa esserti ritroso; e perché di cotesta materia latina ho molta penuria, e tu vi hai pur piantato ostinatamente lo chiodo ch’io non debbia se non latinamente cantare, non mi ritraggo a dirti alquanti versi da me ancor fanciullino composti, trovandomi su quello di Ferrara in certa villa, mandatovi da mio padre per imparare lettere appresso d’un prete, lo quale molti scolari teneva soggetti, e piú li belli che li brutti; nel qual luogo, per corruttela di grosso aere, soprabbondavano tante biscie, rane, zenzale e pipastrelli, che uno inferno mi pareva di tormentatori. Laonde, ritrovandomi ogni sera in guisa d’un Lazzaro mendíco tutto da le punture di quelli volatili animaluzzi impiagato, cosí al mio maestro puerilmente recitai:
LIMERNUS
O mihi Pieriis liceat demergier undis,
o veniat votis dexter Apollo meis!
Quidquid ago, fateor, sunt carmina, carmina sed quae
non sapiunt liquidas Bellerophontis aquas.
Hic nisi densa palus iuncis et harundine tordet,
hic nisi stagnanti me Padus amne lavat. Alveus antiquioris Padi.
Advoco sic musas: pro musis ecce caterva
insurgit culicum, meque per ora notat!
Dum cantare paro fletu mihi lumen inundat,
factaque per culices vulnera rore madent.
Hic quoque noctivagae strident ululantque volucres,
ac ventura nigrae damna minantur aves.
Quid referam pulices, agili qui corpore saltant?
Utraque quos caedens iam caret ungue manus!
MERLINO
Questi toi versi quantunque mi sappiano di puerizia, pur non vi manca l’arte e, per dir meglio, la veritade. Imperocché io molto piú voluntieri abitarei su lo contado di qualunque altra cittade che su quello di Ferrara, non giá perché ella non abbia tutte le bone condizioni che si ricercano in una simil terra, cosí di reggimento come di nodrimento, ma baldamente dirò che causa veruna non le occorre perché de l’aere o sia del cielo ella si debbia lodare, ché, quando la industria piú de la natura non vi avesse provveduto, guai a le sue gambe! Laonde, essendovi non so qual poeta mantoano, per un eccesso non piccolo, destinato dal signore a partirne in onesto esiglio, e giá pervenuto su l’entrata di essa, in queste parole sospirando ruppe:
MERLINUS
Insperata meis salve, Ferraria, curis,
tale sis exilium ne, rogo, quale daris!
Me non parva reum fecit tibi culpa: reatum
ex te num luerit congrua poena meum?
Noster, ais, veni; nostros quoque suscipe ritus;
vivitur humano sanguine, trade cibum!
Mantous culicis funus iam lusit Homerus; Virgilius.
mantous culicum tu quoque gesta cane.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Che quelle bestiuole siano causa per cui lo usar in Ferrara non ti aggrada, malamente te lo credo.
Merlino. Poco errore è questa tua mescredenza.
Limerno. Perché dici tu dunque la menzogna?
Merlino. Se per mezzo de la menzogna tu intendi la veritade, perché mentitore mi fai?
Limerno. Mentitore sei per certo.
Merlino. Sí, ma verace.
Limerno. Qual veritade ho io giá inteso per la bugia testé fatta?
Merlino. Perché Ferrara cortesa non per mosche o tavanelle mi è a noia, ma perché ivi raccoglionsi lor vini su le groppe de le rane. Pensa mò tu qual eccidio, qual ruina sarebbe del mio stomaco!
Limerno. Ferrara e Mantoa di molte qualitadi si corrispondeno. Ma voglio che, sí come ora ti concessi lo mio cantar latino, cosí non manco tu ti comporti ne l’ascoltarmi un breve capitolo.
Merlino. Chi fu lo autore di esso?
Limerno. Perché ciò mi domandi tu?
Merlino. Quando che non mi dilettino molto le cose tue, e consequevolmente non ti presto udienza se non sforzato.
Limerno. Non è mio veramente: io giá fora d’un scrigniolo quello rubbai dentro di Lementana, o Nomentana meglio diremo, «Nomentana meum tibi dat vindemia Bacchum | Si te quintus amat, commodiora bibas». Mart. luntano da Roma diece migliara; castello nobile sí per la vecchiezza di esso sí per la generosissima famiglia de Orsini, di quello ed altre assai terre posseditrice e madonna. E benché io molte volte l’abbia per mio recitato, nulla di manco (mi confesso a te) non esser egli mio son certo, ma d’un Gian Lorenzo Capodoca secretario del signore del loco.
Merlino. Ora incomincia, ed io frattanto un sonetto voglioti comporre.
LIMERNO
Sia pur contrario a noi l’aspro furore
d’ogni stella crudel, d’ogni elemento,
ché l’ira sua non piega un stabil cuore:
latri chi vol latrar, io gli ’l consento,
ché tanto si alza piú la fiamma accesa «Oh felix hominum genus, si vestros animos amor, quo coelum regitur, regat!». Boët.
quando lei spegner vole un picciol vento.
Qual piú lodevol, qual piú chiara empresa
d’una costante, d’una fede pura,
ch’odio non teme né di sorte offesa?
Un fermo scoglio d’onde non ha cura
né un stabil cuore di qualunque oltraggio,
ché fede intorno a lui piú allor s’indura.
Sol ne gli affanni si conosce il saggio,
lo qual, per ch’un bersaglio sia di sorte,
non parte mai dal cominciato viaggio.
Né di ferro minacce né di morte,
mentre animosamente spiega l’ale
di fede, mai paventa un uomo forte.
Però la forza lor in noi che vale?
Giá chi congiunse il ciel altrui non scioglie
perché non svaria mai corso fatale.
Lasciali pur empir lor empie voglie:
livido cuor sol di se stesso è pena,
e chi semina tòsco, tòsco accoglie.
Pingon in ghiaccio e solcan ne la rena,
e quelli de le pugna al vento danno,
che rodon la fidel nostra catena.
Ma tu la lor malizia, il loro inganno
impara di conoscer, e lor fraude,
ché bello è l’imparar a l’altrui danno.
Se ride ’l tuo nemico, se ’l t’applaude,
tu similmente applaudi e ridi ad esso,
ch’esser falso co’ falsi è somma laude.
Se ancora ti minaccia e morde spesso,
contienti d’ira, ché ti fia gran palma:
summa vittoria è ’l vincere se stesso.
Non dé’ turbarsi un’incolpevol alma,
s’ognor in lei piú l’odio si rinforza,
ch’un gir leal non sa peso né salma.
Ma se considri ben sua debil forza,
tu riderai di lor invidia ed onte:
ardor di paglie subito s’ammorza.
Sian dunque lor insidie occulte o cònte, «Fides sanctissimum humani pectoris bonum est». Sen.
osserva quelle e queste ridi e sprezza,
ché ’l bon nocchier, se tien la fronte a fronte
di sorte accortamente, mai non spezza.
MERLINO E LIMERNO
Merlino. Oh quanto m’è giovato questa dolcezza!
Limerno. Or vedi tu dunque che sin a te la soavitade di rime toscane sono aggradevoli?
Merlino. Per qual segno conosci tu in me cotal effetto essere?
Limerno. Come! tu non hai giá detto questa dolcezza averti non poco gradito?
Merlino. Sí, del sonno che ho fatto.
Limerno. Tu dormevi dunque mentre io cantava?
Merlino. Che maraviglia! non sei tu giá di minor vigore d’una sirena!
Limerno. Dormevi tu, caro Merlino?
Merlino. Domine, ita. Ben ti lo dissi da prima.
Limerno. Che cosa?
Merlino. Di componerti un sonnetto.
Limerno. Or baldamente t’intendo: grandissima è la differenzia tra lo «sonnetto» e «sonetto».
Merlino. Quanto è tra ’l persutto e lo schenale.
Limerno. Io ti voleva domandare lo giudizio tuo sí de lo verso come del recitatore; ma, per quello che me ne pare, ho ragionato con le mura.
Merlino. Anzi, e la campana e lo campanaro mi è piaciuto, ma...
Limerno. Ma che?
Merlino. Aggradito m’averia piú, se...
Limerno. Se che?
Merlino. Se piú lungo fusse proceduto.
Limerno. La cagione?
Merlino. Per piú dormire.
Limerno. E pur gran torto me fai non ascoltarmi cosí come io voluntieri ascolto te, non giá per fasto e vanagloria, ma per avere solamente qualche avviso da gli uditori, se dicendo nell'instrumento mi sconcio troppo nel volger il capo, nel girar de gli occhi, nel finger caldi sospiri, se graziosamente o no tengomi sul braccio la cetra, se abbasso oppur troppo innalzo la voce, e altri simili Studium vanitatis. particulari effetti d’un amante, acciò che per l’altrui avviso piú ragionevolmente avvezzare mi sapessi, dovendomi egli poscia essere a molto accrescimento de lo amore di mia donna.
Merlino. Se queste parti non hai, ben ti le poscio mostrar io, se mi ascolti per una pezza; e forse lo sonno ti stará luntano per vigor de la mia piva. Or odi una oda in loda d’una mia amorosa detta la Mafelina, ed impara da me gli affettuosi gesti.
Limerno. Comincia, ch’io mi sento voglia di mangiar riso!
MERLINUS.
Aspra, crudelis, manigolda, ladra,
fezza bordelli, mulier diabli,
vacca vaccarum, lupaque luparum
porgat orecchiam,
porgat uditam, Mafelina, pivae;
Liron o bliron, coleramque nostri
dentis ascoltet, crepet atque scoppiet,
more vesighae!
Illa stendardum facie scoperta
fert puttanarum, petit et guadagnum
illa, marchettis cupiens duobus
saepe pagari.
Semper ad postam gabiazza, rosso «Tu procul hinc absis, cui formam vendere cura est». Tib.
plena belletto, sedet ante portam,
chiamat, invitat, pregat atque tirat
mille famatos;
mille descalzos petit ad cadregam,
perque mantellum faciens carezzas,
intus agraffat, quid habent monetae
prima domandat.
Quis mihi credat quod avara stabit
salda ad unius pagamenti bezzi?
Quis bagassarum similem scoazzam
vidit Arena?
Nulla Veronae meretrix Arenae
peior Ancroia reperitur ista,
heu! tapinelli poverique amantes,
ite dabandam,
ite luntani, moneo! Provator
ipse crustarum putridae carognae
ibit in Franzam. Pochi pendit istum «Pochi pendit» pro «parvi pendit».
quisquis avisum.
LIMERNO E MERLINO
Limerno. Merlino mio, questa tua foggia di cantare non si domanda «cantare», ma un abbagliare, un muggire, un tonare su per le ripe del Pado.
Merlino. Sonano li pifari su per li argini del Pado.
Limerno. E raggiano, come dice il mantoano, li asini.
Merlino. Tu vòi dunque dire che in questa mia chiusura fra tanti asini io canto?
Limerno. Ed anco peggio ti direi, s'io sapessi.
Merlino. Piú rozzo cantore di lui non saperei io giá mai trovare.
Limerno. Sí, di canto figurato.
Merlino. Cantano forse altramente che di figurato?
Limerno. Lo suo naturale e nativo.
Merlino. Qual è?
Limerno. Canto quadrato, largo, sonoro e molto di gorga, e piú de le volte fannoli drento un strano contrappunto.
Merlino. In qual modo?
Limerno. Con la musica di drieto, la quale mantengono con la eguale battitura de' calzi, non mai alterandovi la misura.
Merlino. Dunque lo asino ha una parte da natura piú de gli altri animali.
Limerno. Come cosí?
Merlino. Che l’asino con due voci in una istessa musica può cantare.
Limerno. Anzi può cantare, sonare e battere insieme.
Merlino. Annòdavi un altro groppo a questa virtú.
Limerno. Quale?
Merlino. Messer lo asino sa chiudere una borsa senza serraglie.
Limerno. Maravigliavimi se da gli asini si potesse guadagnare altro che calzi e corregge e da un Merlino altro che sporche e stomacose parole. Or stattine, tuo mal grado, in questa tua lordura, porco da brotaglie che tu sei, ché ben di me medemo non possio fare che non mi maraviglia, standomi quivi ad altercar con un devorone di lasagne, nemico di gentilezze e cortesie.
Merlino. Vanne tu, vanissimo ed effeminato cinedo! ché gli odori de quelli toi unguenti e impiastri fumentati per altra cagione non porti tu, se non per ammortare e spegnere lo fetore de le sozze bagascie fra le quali giorno e notte sempre tu dimori.
LIMERNO
Forsennato e pazzo che son io! essermi raffrontato a favoleggiare con questa destruzione di rafiòli! O meschino me! se la unica mia signora e divinissima dea giammai presentisse lo suo Limerno aver dimorato una bona pezza con un lordissimo porco, or che direbbe? or che farebbe ella? Per lo vero, non mai piú se non con torto sembiante mi guardarebbe. Voi adunque, chiari fonti, cristallini ruscelli, porporei fiori, amene piagge, riposti antri; voi, gai augelletti, lascivetti conigli, guardativi che alcuno di voi non presumi lo folle mio errore a lei manifestare; a lei dico, la cui presenzia tutti con un sol riso vi abbella, che molte volte dégnavi de l’angelico suo conspetto, appoggiando le belle membra or su quella fiorita sponda del vivo ruscello or sotto quel speco inederato di allori, mentre l’ardente sole a gli animali rende l’ombre aggradevoli. Deh! pregovi, tenetimi dal mio sole coperto; ché dubbio non è, quando ella non piú si degnasse di comportar le mie lodi, lo mio ver’ lei amore, io ne morirei, io da me istesso di quell’olmo al vecchio tronco mi sospenderei. Ma, inanti la miserabil morte mia, annunziovi che crudel vendetta di tutti voi ne pigliarei: non è fiore, non è pianta, non è fonte, che impetuosamente non stracciassi, svellessi e disturbassi. Statene dunque, o de’ miei secreti consapevoli, statene taciti e quieti, ma non sí taciti e quieti che le rime mie, le quali ora sono cantando per isfogare, non subito le riportati e recantati a le sue divine orecchie. E perché voi avete ad essere miei fidelissimi compagni, consequevolmente voglio che d’ogni mio secreto voi siate participevoli.
Io dunque meritar puotei la entrata di questo santissimo giardino allora quando la fama sola d’una non pur bellissima ma prudentissima madonna mi cocque le medolle, lo cui bel nome voi ne’ capoversi di questo succedente sonetto potreti conoscere, lo quale giá lo fido mio Falcone nel scorzo di quel frassino intagliando scrisse:
G loriosa madonna, il cui bel nome
I n capo de’ miei versi porrò sempre,
V orrei pur io saper de quali tempre
S ian que’ vostr’occhi neri ed auree chiome!
T rema ciascun in lor, mirando come «Pulchra facile amatur, foeda non facile concupiscitur». Hier.
I vi sia la virtude, che distempre
N ostra natura e ’n ferro i cuori tempre,
A cciò piú di leggier lor tiri e dome.
D i calamita dunque se non sète,
I n voi di cotal pietra è forza almanco
V ivace sí, ch’ogni materia liga.
I o tragger vidi de’ vostr’occhi al rete
N atura, Amor e ’l Sol di sua quadriga.
A ltra simile a voi chi vide unquanco?
LIMERNO
Mirabilissima è per certo di costei la beltade e cortesia, la cui fama sola (or che fa poi la presenzia?) puote di luntane contrade altrui ricondurre a vedere e contemplare la tanta lei vaghezza, la tanta lei graziosissima onestade. Laonde chiunque al primier assalto la vede, subitamente vien constretto a prorompere in coteste simili parole:
Or non piú fama, or non piú ’l sparso grido
l’unica sua bellezza mi dichiara;
ché, mentre agli occhi nostri non fu avara, «Anceps forma bonum mortalibus. Exigui donum breve temporis». Sen.
vidila sí, che cosí ardendo i’ grido:
— Per l’universo non che ’n questo lido
piú bella, accorta, pronta, onesta e rara
donna chi vide mai? quivi s’impara
nata beltá d’Amore ad esser nido. —
Però se questo e quello od altri l’ama,
maraviglia qual è? ma ben saria,
s’uom è che lei mirando non s’impetra!
Quel guardo pregno d’alta leggiadria,
quel dolce riso anco nel cuor mi chiama:
— Costei sola del ciel le grazie impetra!
LIMERNO
Ma sí come dal ciel ogni grazia in lei discese, cosí ella in me non dedignossi la sua impartire, contentandosi ch’io di lei faccia resonare voi, sollevati colli e ombrosi poggetti. Or dunque abbassativi, o verdi cime de voi, faggi ed abeti; de voi, lauri e mirti; de voi, querze ed ilici; de voi, viti ed olmi: abbassativi, dico, ad ascoltare questa mia sonora cetra, ma non bastevolmente sonora a l’altezza di quella madonna; ad udire queste mie leggiadre rime, ma non leggiadre al merito di quella dea; a sentire lo mio dirotto pianto, ma non sí dirotto che poscia l’ardentissime faci spegnere de l’affocato core! E se troppo baldanzosamente vi paio di fare mentre io dico di lei d’ogni alto stile degna, incolpate sol Amore, lo quale mi fa sovente dire quello che di tacere assai mi fôra meglio, e, sognandomi piú volte, movemi a vaneggiare quanto ora sète per udire in questa mia debil cetra:
LIMERNO
Questa madonna, che sí dolce, altiera,
un sol di tante stelle in mezzo asside, Suavis res est pulchritudo, quum viget prudentia.
dimmi, dond’è che austera in volto ride
scoprendo insieme il verno e primavera?
Vedi se di vertú donna sí intera
fu mai, ch’un cor a un sol riso conquide!
Ma lui tropp’alta speme non affide,
ché fugge ’l riso ed egli piú non spera.
Cosí l’alta guerrera e sferza e freno
tien di chi l’ama, ed ama chi la vede,
anzi chi l’ode, anzi chi dir ne sente.
Cosí ’l regno d’amor costei possede,
ove tanti be’ spirti, saggiamente
bella, nudrisce al dolce suo veleno.
LIMERNO
Quando l’alma gentile, per cui sola
moro la notte e poi rinasco ’l giorno,
venne dal ciel, per farvi anco ritorno,
in questa vita ch’è d’errori scola,
Amor, che ’nqueto quinci e quindi vola,
si le fe’ contra di sue spoglie adorno,
qual fier tiranno ch’al suo carro intorno
ha tanti uomini e dèi, ch’al mondo invola.
Ma, lei di sé maggiore e d’altre frezze
vista luntan alteramente armata,
stette smarrito e dal triunfo scese.
Quella da sue virtú, da sue bellezze,
di che l’ornò natura e ’l ciel, levata
nel carro stesso, in noi l’arco si tese.
LIMERNO
Alluntanato è ’l sole, e noi qui manchi
del suo bel raggio (fan piú giorni) lassa.
Io, pur spiando s’altri quindi passa,
spesso alzo gli occhi, di mirar giá stanchi!
I’ dico, s’alcun passa, che rifranchi
noi d’esta valle del suo lume cassa,
narrando il suo ritorno; ma trapassa
con speme l’anno, e morte abbiamo ai fianchi. «Quid non longa dies, quid non consumitis anni?» Mart.
Sleguasi ’l tempo né pur anco appare
chi dica: — Annuncio a voi grande allegrezza:
ecco torna colei che ’l mondo abbella! —
Lasso! non so che piú mi speri, ché ella
per su que’ monti con Diana, pare,
va solacciando e noi qui giú non prezza.
LIMERNO
In quelle parti, ove di poggio in valle,
di valle in poggio va scherzando aprile,
madonna or giace e in atto signorile
sovente in l’erbe pon su’ fior le spalle.
Zefiro intorno baldamente válle
spirando in quella faccia, in quel gentile «Forma bonum fragile est». Ovid.
sino d’avorio schietto, e chiama vile
di Borea l’Orizia e biasmo dálle.
Talor ella si parte al loco, dove
giá di sua Laura sí altamente disse
colui che ’n rime dir ha ’l piú bel vanto.
Quivi s’inchina umile al sasso e move
a l'ossa ch’entro stanno un dolce pianto,
ch’Amor sul marmo di sua man poi scrisse.
LIMERNO
Quando ’l tempo, madonna, a noi sí parco,
dramma di sé concedemi talora
di vosco ragionar, i’ grido allora:
— Dolci fiamme d’amore, dolce l’arco! —
Ma quando invidia le piú fiate il varco
mi serra ai lumi, ove convien ch’io mora,
vo richiamando mille volte l’ora:
non è amarezza a l’amoroso incarco!
Qui poi la fede, che di par col sole «Res est solliciti piena timoris Amor». Ovid.
certar solea, s’annebbia di sospetto,
fulgura il sdegno e zelosia tempesta.
Però scusar si deve se, d’un petto
scacciato ’l cor dal vermo che l’infesta,
non giá d’invidia ma d’amor si dole.
LIMERNO
Invido ciel che tante stelle e tante
in grembo hai sempre e di lor vista godi,
a che per cento vie, per cento modi, «Rivalem possum non ego ferre lovem». Prop.
la mia levar contendi a me davante?
N’hai mille e mille di splendor prestante,
e pien d’invidia pur t’affanni e rodi!
Per cui? sol per colei che, acciò mie lodi
sianle piú belle, starmi degna innante.
Bastar ti deve il tuo, lascia ’l sol mio,
che’nfiamme i spirti e sopra sé l’innalzi,
come ’l tuo nutre i corpi, l’erbe, i fonti.
Ma ’l mio perché piú bello, in tal desio
rancor ti sferza, che ne trai de’ calzi,
e ’n su le cime tue vòi ch’egli monti.
LAMENTO DI BELLEZZA
I o tratto a l’ombra d’un gentil boschetto
V idi, giacendo su la piaggia erbosa,
S tarsi donna solinga e penserosa,
T urbata in vista, col mento sul petto.
I n tal vaghezza stava, ch’ivi intorno
N é fu pianta né augel che non movesse
A lei mirar e seco ne piangesse.
I' mi le appresso e per veder m’abbasso.
V idila troppo, aimè! ché, alzando il viso,
S i mi scoperse in lei tal paradiso,
T al, dico, che mi fece d’uom un sasso.
I n me si volse e disse: — Fa’ ritorno,
N é star qui meco ove star sola deggio
A pianger quel che, tarda, in me correggio.
I l dolo amar che piú sempre si acerba
V ien d’alterigia molta e troppo orgoglio; «Fastus inest pulchris sequiturque superbia formam». Ovid.
S on bella, come vedi, e mi raccoglio
T utta sovente in donna, ma soperba
I nalzo lei cosí, che ’n questo scorno
N e son rimasta, onde l’alta bontade
A ma suppor l’orgoglio ad umiltade.
I n queste bande su dal primo cielo
V ols’egli in scherno mio, ch’un’alma stella
S cendesse umile assai di me piú bella.
T ant’ella è piú gentil quant’ha piú ’l velo
I n cerco de ligustri e rose adorno.
N acque non per mostrar quant’è bellezza,
A nzi, benché sia bella, lei disprezza.
I o son (perché ti miro star sospeso)
V ana beltá, ch’orno di gigli e rose «Fallax gratia et vana est pulchritudo». Prop.
S ol de le donne i volti, ma ritrose
T utte le faccio e di cuore scorteso
I n lor amanti, cui di giorno in giorno
N udrendo van di speme, e mai non giunge
A lor il patto, ma si fa piú lunge.
I n questo l’alto padre piú adirato
V er’ me ch’abbello i visi e i cuor inaspro
S culpendo lor di porfido e diaspro,
T olse ’l bel spirto e l’ebbe incatenato
I n quelle belle membra ove soggiorno.
N on fa soperbia mai, non schivo sdegno,
A nzi è d’alte virtudi un vaso pregno.
I l nome suo dal ciel in terra stette.
V olendolo saper, fa’ che misure,
S cendendo d’alto, le maggior figure:
T re volte e quattro il trovarai di sette
I n sette versi. — Allor indi mi torno,
N é possio piú di lei dolermi fina
A tanto che sei nosco, alma divina!
CENTRO DI QUESTO CAOS, DETTO «LABERINTO»
CLIO
Qual gode in carne perché in carne viva
e, in terra stando, l’animo da terra
non leva al ciel (onde si parte) unquanco,
colui d’umana spezie, in cui si serra
l’alta ragione, ad or ad or si priva,
sí come di candela il lume stanco
vedesi, giunto al verde, venir manco.
Di che, giá spento, non che morto, il sole
de la giustizia, resta cieco e palpa
la circonfusa nebbia e, come talpa
sotterra errando, uscir né sa né vole;
tanto che ’l miser sòle
un nuvol d’ignoranzia farsi tale Omnium vitiorum perniciosissimum est malus habitus et ignorantia.
che mai del ciel non sa trovar le scale.
Se mi deggia pensar o in terra dentro
o sotto ’l ciel, fra terra e l’aer puro,
esser in pene stabil altro inferno
d’un core ne’ peccati antico e duro,
non so, sássel pur Dio! Mi par un centro,
l’abito nel mal far, di foco eterno;
quando che né d’estade né di verno
forza veruna o sia losinga d’uomo
(questo sperar dal cielo sol si debbe!)
quell’infelice misero potrebbe
indi ritrarlo piú di bestia indomo.
Però tal vizio nomo
l’orribil ombre del Caós deforme,
cui sempre a morte in grembo un’alma dorme.
TRIPERUNO
S tavami basso nel cespuglio e queto,
V ago d’udire piú che mai Limerno,
E giá m’era disposto per adrieto
V olgermi di Merlin for del governo.
E al fin sbucato da la macchia, lieto Ut cadat in Scyllam cupiens vitare Charybdim.
R ichiamo lui: — Deh! svellemi d’inferno! —
A lui dico, che giá, calando il sole,
T olsesi dal cantar dolci parole.
— O vago — a lui diceva — giovenetto,
B en mi terrei de gli altri piú beato,
S’ io fusse tale che tu avessi grato
T enermi (ecco son presto!) a te soggetto. —
R estossi allora quello, e col bel viso
I l novo Ciparisso ovver Narciso:
— C hi chiama? — disse e, vistomi soletto,
T ennesi a lungo il naso fra le dita:
— O h tu! mi sai — dicea — di lorda vita!
C ácciati presto in quel fragrante rivo,
L avandoti lo puzzo fin ch’io torni. —
A llor si parte ritrosetto e schivo,
V edendo una carogna in luoghi adorni.
S pogliomi nudo in quel fonte lascivo Hic pudicitia, hic natura adulteratur.
T emprato d’acque nanfe, che da’ forni
R igando viene giú d’un monticello,
O ve Ciprigna gode Adonio bello.
C elavasi, ne l’alpe giunto, il sole.
E cco, fra molte ninfe vaghe e snelle
L imerno torna solacciando, e quelle
L ui van ferendo a bòtte de viole.
I o, ch’era nudo, ambe le mani aduno
S u quelle parti oscene che ciascuno,
Q uantunque sia piccino, coprir sòle.
— V edrai — parla Limerno — quant’è meglio
E sser di miei che di quel sporco veglio!
R ecativi ’l in braccio, o belle ninfe,
E d a la dea portandolo direte:
— M adonna, dentro le muschiate linfe
O fferto s’è costui nel nostro rete:
T egnamolo qui nosco, se ’l vi pare,
I donio testimon, quando che v’abbia
S empre a lodar ne l’amorosa rabbia. —
— O — dissi allor, — o di vaghezza fiore,
C hi mi porge la stola ond’io mi copra?
— C uor mio — rispose — quivi non s’adopra
V estir alcuno dove regna Amore, «Vanum cor vanitatis notitiam quaerit corpori». Bern.
L o qual ignudo va co’ soi seguaci:
T aci lá dunque, pazzarello, taci! —
A llor fui ricondutto a grand’onore
T ra gioveni leggiadri e damigelle,
A vanti una piú bella de le belle.
V enere fu costei, la qual nel seggio
R egina di Matotta il settro tiene.
— B enedetto sia ’l cuore di chi viene
— I ncomenciossi allor cantar intorno —
S otto Amatonta al dolce lei soggiorno! —
L aúti, cetre, lire ed organetti
I van toccando parte, parte al sòno
T enean le voci giunte, ahi quanto vaghe.
I n quel medesmo tempo, a vinti a trenta,
B asciandosi l’un l’altro insieme stretti «Luxuriae nimium libera facta via est». Prop.
V anno danzando intorno, e questi sono
S inceri giovenetti e donne maghe.
E rano mille fiamme intorno accese
S otto gli aurati travi de la sala:
S tanno da parte alquanti e fan un’ala
E qua e di lá mirando le contese.
P endono da’ pareti alte cortine
R icchissime di seta, argento ed oro,
O ro sopr’oro, dico, spesso e rizzo
C on mille groppi, ziffere e beschizzo;
V asi di pietre di gran pregio e fine
L ungo a le mense fanno un bel tesoro.
A cque rosate, nanfe ed altri odori
T endon spruzzare i pargoletti Amori.
N ascosi molti a le cortine drieto
V anno non so che far, ed escon dopo
N el volto fatti in guisa di piropo
C he furon d’alabastro per adrieto.
AMORE DI TRIPERUNO E GALANTA
I o dunque nudo fra cotanti nudi
N on piú arrossisco, non piú mi vergogno,
F atto di lor famiglia, ove m’agogno
L assivamente in quei salaci studi.
A lato la regina sta Limerno,
T enendole la bocca ne l’orecchia,
O nd’io ne fui chiamato possia al trono.
I n terra umilemente i’ m’abbandono,
N anti ch’al primo grado vi montassi,
C he d’altro che de marmi, petre e sassi
E rano, ma sol oro e gemme sono.
D ritto poi sul levato giá m’avento
I n fretta nanti a l’alta imperatrice,
T remando per viltá qual foglia al vento.
I ncomenciò l’altiera: — O Triperuno,
V assallo mio, de gli altri non men caro,
S appi che ’l tuo Limerno saggio e raro
T’ ha impetrato da me quel che nessuno
I n questa corte mai gioir non puote.
N ove anni e sei non passa una fanciulla:
A te la dono e facciovi la dote.
C ostei, pronta, vivace, accorta e bella,
V oglio ch’ami, desidri prima ed ardi
C he piagna e canti, assorto ne’ soi guardi,
V ersi pregni d’Amor e sue quadrella.
L imerno fia tuo mastro e fida scorta:
L imerno sa quel si ricerca amando.
O h dolce sorte a chi entra cotal porta!
A ffrettati, Lagnilla, e qui Galanta Lascivia.
T ien modo di condur furtivamente,
Q uando ch’ella non esce mai di ciambra. —
V enne la ninfa chiesta finalmente,
E tutto di rossore il viso ammanta.
— G alanta mia — dicea l’imperatrice —
A lza la fronte e mira il novo amante! —
L evo la vista, dunque, ove si elice
E eco una fiamma ed ove un cieco infante,
R accolto l’arco e la saetta, altrice
A hi! di quanti martiri, lo diamante
T rito mi ruppe al petto e quindi svelse
I l cor giá fatto de’ sospiri al vento
S tridente face e d’acque un fiume lento.
O h quante da quell’ora incomenciaro
P ene, tormenti, affanni, sdegni ed ire,
T ravagli, doglie, angoscie e zelosie!
A rsi, alsi di ghiaccio e fiamme dire,
T al che ’l dolce al fin divenne amaro.
I mperò ch’una Laura sozza e lorda,
N efanda, incantatrice, invidiosa
E ra del nostro amor la lima sorda.
S orda lima costei fu senza posa,
S enza quiete mai, del dolce nodo,
E bra sol di spuntar col chiodo il chiodo. Clavus clavo extruditur.
T ant’ella fece, ch’io nel fin m’accorsi
O mbrosa esser cotesta ria cavalla.
G alanta ne ridea, donde piú acerba,
I niqua piú, ne venne ai duri morsi,
S í ch’io le scrissi questo in una querza:
TRIPERUNO
Sléguati in polve, fulminando Giove,
o tu, che, sozza tanto, lorda e vieta,
lo nome hai di colei che ’l gran pianeta
mosse da prima ad altre imprese e nòve!
Fogo dal ciel giammai non casca dove
natura strinse l’onorata meta
del sempre verde lauro, che non vieta
ulla stagion far le sue antiche prove.
Ma Dio tal legge in te servar non deve,
che hai sol il nome e non di Laura i gesti:
sei di carbone e credi esser di neve.
Pur meglio, acciò ’l bel lauro non s’incesti,
quel «v», che ’l terzo seggio vi riceve, Laura.
tolgasi ’l quarto, acciò che «larva» resti. Larva.
DIALOGO SECONDO
LIMERNO, TRIPERUNO E FÚLICA
LIMERNO
Io canto sotto l’ombra del bel lauro
che pose il gran Petrarca in tanta altura,
lo qual, mercé d’Amore, mentre dura
il ciel, terrá la chiave del tesauro.
Nel mese quando ’l sole si alza in Tauro
ed empie il monte e ’l piano de verdura,
nacque una bella e saggia creatura,
che riconduce a noi l’etá de l’auro.
Cantar vorrei sue lodi, o fresche linfe:
linfe fresche di Cirra, or dati bere
a chi dicer d’un Febo novo brama!
Girolamo sol dico, in cui non spere
piú di me affaticar altrui le ninfe,
ché piú di me, so bene, altrui non l’ama.
LIMERNO
H or che per prova, Amor, t’intesi a pieno
I n fiamme ove giá n’alsi e ’n ghiaccio n’arsi,
E cco mi tieni d’altro dol a freno.
R egnar di se medemo e suo giá farsi
O h chi potrá giammai sotto ’l tuo giovo?
N iun, o se pur gli è, non sa trovarsi.
I o quella via, quest’altra cerco e provo,
M a che mi val? tu mi travolvi e giri
A l’aspro tuo voler, né schermo i’ trovo.
D iluntanarmi volsi e placar l'iri
(I ri tant’empie!) di te, fier tiranno,
E nulla feci, ché piú in me t’adiri:
D i maggior pene, onde maggior è ’l danno,
A mor, mi sproni e fai il tuo costume.
H aggia chi piú s’allunga piú d’affanno.
I o piansi giá molt’anni sotto ’l nume
E rrando d’una ninfa, onde, per pace
R ecarmi, mi privai del suo bel lume.
O h qual mi crebbe ardente e cruda face
N el petto allor che gli occhi, anzi due stelle,
I o non piú vidi, e ’l raggio lor mi sface!
M i sface il raggio lor; e pur senz’elle
I’ non vivrei giammai, perché non pinse
M ai Zeusi un sí bel volto o ’ntagliò Apelle.
E cco, donna, il martir, ch’al cor s’avvinse:
R itrassimi da voi, ma non lo volle
C olui che ’n me sovente ragion vinse.
A dunque per gir lunge non si tolle
T anta mia passion, ch’ebbi giá inante;
E questo avvien ché ’l mal è in le medolle.
L untan il corpo mi portâr le piante,
L untan il cor non giá, perché vel diede
I n su l’aurata punta il vostro amante.
D iedel a voi, ch’avesse ad esser sede
I mmobile perpetua d’esso, e voi
V i ’l toglieste per cambio, data fede
A l’un e l’altro sempre esser fra doi.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Nel vero, caro mio maestro, non sono giammai tanto fastidito ed annoiato che, udendo voi e l’aurea vostra lira insieme cantare, non subitamente mi racconsoli.
Limerno. Ed io credevami tanto da la turba e volgo entro questa selva Alludit huic operi trium Sylvarum quod Chaos Triperuni vocat. luntanato essere che niuno, se non le querze ed olmi, avessero ad ascoltare.
Triperuno. Dogliomi essere uomo di turba e vulgare; ma, la dolcezza di vostre muse ovunque mi volgo sentendo, non men di ferro a la tenace calamita son io da quella tirato. Nulla di manco, se da me voi sète del vostro singular concento impedito, parendovi, ora mi parto e solo vi lascio.
Limerno. Solo non è chi ama, anzi de’ pensieri ne la moltitudine sommerso! Io sopra ogni altro veggioti volentieri, Triperuno mio. Vero è che lo essermi da la consueta nostra compagnia distratto potevati accertare che da me dovevasi far cosa la quale fusse da essere secreta. Io, come tu sentisti, cantai testé una canzone, li cui capoversi non vorrei giá ch’uomo del mondo avesse notato, ché ’l gentilissimo spirito, di cui sono (giá molto tempo fa) umile servitore, non men ha cura de l’onorevole suo stato che del comun obietto di questo nostro amore. Dimmi dunque: hai tu lo nome suo compreso?
Triperuno. Non, per il dolce groppo di mia Galanta!
Limerno. Non senza molta cagione ricondutto mi sono a l’ombra di questo lauro, lo quale, tanto agiatamente difeso da queste duo collaterali querze cosí da venti e procelle come da’ raggi de l’ardentissimo sole, al sopranominato giovene con le sue sempre chiome verde fa di sé gratissimo soggiorno. Ma dimmi, se’ l sai, questi doi versi latini, li quali nel tenero scorzo di esso lauro tu vedi quivi intagliati essere, chi fu lo sottil interpretatore di essi?
Triperuno. Isidoro.
Triperuno. Isidoro Chiarino?
Triperuno. Esso fu.
Limerno. Oh divino spirito d’un fanciullo! ché veramente nel sino di Talia succiò le dotte mamme, né maggior fama ed onore si arreca lo autore che ’l commentatore loro.
Triperuno. Sono assai male insculpiti.
Limerno. Scriveli, prego, un’altra volta piú ad alto, e perché lo argomento loro in quello... sai? intagliali col ferro acuto.
Triperuno. Intendo.
DE SOMNO
H ic I aceo, E t R epens O culis N atat I ntima M ors, A t
- D ivorum I mperio E st D ulcior A mbrosia.
LIMERNO
Tu quelli hai giá scritto? Oh quanto bene stanno! Fammi appresso un piacere, perché lo ingegno del giovenetto piú ognora posciasi addestrare: scrivi ancora un altro enigma non men di questo laborioso, lo quale dopoi la morte di Giulio pontifice, sotto Leone, fu nel candidissimo tumulo di Catarina, dal suo consorte crudelmente uccisa, sculpito, dove ella cosí parlando dice:
TUMULUS CATHARINÆ
CONfodit SORS ME VSum ROBoris ERige TUScha
- Sphera, necis causa est non nisi nulla meae.
TRIPERUNO
Cotesta Catarina, se bene mi sovviene, fu gentilissima ed amorosa donna; a la quale fu giá mandato quel sonetto con un paio de guanti insieme, li capoversi del quale dicono lo nome suo:
D’una tenera, bianca, leggiadretta,
I ntegra onesta man elesse ’l cielo
V oi, puri guanti, ad esser dolce velo:
A ndati a lei, ch’omai lieta v’aspetta!
C ortesamente la terrete stretta,
A nzi pur calda contra l’empio gelo,
T utto, però, ch’io per soverchio zelo
H abbia di voi non a prender vendetta.
A mo l’alta virtú che ’n sé diversa
R egna piú ch’in Aracne od ella istessa
I nventrice de l’ago e bel trapunto. Minerva.
N é man piú dotta né piú dolce e tersa
A vvinse guanto mai, né chi promessa
O nestamente piú servasse appunto.
LIMERNO E TRIPERUNO
Limerno. Dirotti la veritade, o Triperuno: questi capoversi, non usati mai da valentuomo veruno, poco a me sono aggradevoli e a gli altri sodisfacevoli, imperocché altro non vi si trova se non durezza di senso ed un impazzire di cervello. Ma ragionarne d’un’altra cosa di assai piú importanza di questa. Confessati meco, e non vi aver un minimo risguardo. Chi fu lo compositore di que’ versi, li quali oggi furono da tutta la corte in una querza letti e biasmati?
Triperuno. Perché, caro maestro? sapeno forse come gli altri miei?
Limerno. Di che?
Triperuno. Di mastro di scola.
Limerno. Perché cosí di’: «mastro di scola»?
Triperuno. Li quali, per la varietá de’ stili da loro adoperati pedantescamente, come voglio dire, scrivono e fanno un Caos non men intricato del mio.
Limerno. Io bene di cotesto tuo ravviluppato Caos mi sono maravigliato, lo quale potrebbe a gli uomini dotti forse piacere; ma non lo credo, e spezialmente per cagione di quelle tue postille latine suso per le margini del libro sparse.
Triperuno. Io per confonderlo piú, come la materia istessa richiede, volsivi ancora la prosa latina in aiuto de lo argomento porre.
Limerno. Lasciamo in disparte lo stile tuo, o sia pedantesco o triviale; ma peggio è, che sono quelli versi mordaci de la fama di tale che leggermente potrebbeti offendere. Tu non conosci ancora, buono uomo, la rabbia d’una adirata ed orgogliosa donna, la quale tengasi da qualcuno oltraggiata e sprezzata.
Triperuno. Qual bene o male posso io sperare o temere da questa larva o volsi dire Laura?
Limerno. Voglia pur Iddio che tu non ne faccia veruna isperienza!
Triperuno. In qual modo un sacco di carcami, una cloaca di fango, una stomacosa meretrice del dio Sterquilinio è per vendicarse di me?
Limerno. Con mille modi, non che uno.
Triperuno. Come?
Limerno. È peritissima vendicatrice.
Triperuno. Qual sí terribile ruffiano d’una trita bagascia prenderia giammai la difesa?
Limerno. Non vi mancano gli affamati al mondo. Ma sei male, Triperuno, su la via di conoscere, in cui posciati ella danneggiare.
Triperuno. Avvelenarmi?
Limerno. No.
Triperuno. Farmi con ferro uccidere?
Limerno. Né questo ancora.
Triperuno. Tôrmi la fama?
Limerno. Non ha credito.
Triperuno. In qual foggia dunque?
Limerno. Trasformarti in uno asino.
Triperuno. Che dite voi?
Limerno. Un asino, sí; tu ti maravigli dunque?
Triperuno. Ho ben io piú volte inteso queste donne aver possanza, con non so che unguenti, voltar gli uomini in becchi.
Limerno. Anzi, assai piú becchi fanno che castroni. Quanti oggidí conosco io, li quali giá per violenzia de suffumigi da queste maghe adoperati furono in bovi, buffali ed elefanti conversi!
Triperuno. Questo saria ben lo diavolo! Se questa Laura mi trasfigurasse in un becco, vorrebbemi piú oltra bene Galanta?
Limerno. Piú che mai.
Triperuno. Come? io sarei pur un becco?
Limerno. Ed ella una capra.
Triperuno. Cambiarebbe ancora lei?
Limerno. Che ’n credi tu?
Triperuno. Io giá comincio temere.
Limerno. Tien stretto.
Triperuno. Forse che non sa ella ancora chi sia lo autore?
Limerno. Tu sei pazzo persuadendoti una malefica non sapere quello che a tutta la corte giá divolgato leggesi.
Triperuno. Lasso! ch’io me ne doglio.
Limerno. Tu vi dovevi piú per tempo considerare e prenderne da me consiglio. «Consilium post factum, imber post tempora frugum».
Triperuno. Non l’ho fatto, in mia malora!
Limerno. Se tu sapessi la importanza di questo scrivere e lo mandar cosí facilmente a luce le cose sue, vi averessi meglio pensato; ché pagarei un tesoro di Tiberio, non mai ne gli occhi de tanti valentuomini una mia operetta scoperta si fusse.
Triperuno. Come farò io dunque, misero me? ch’io debbia un asino devenire?
Limerno. Or va’ piú animosamente! tu giá sei vòlto in fuga, e niuno ti caccia: non ti partirai da me se non bene consigliato e consolato. Ma pregoti, Triperuno mio, non t’incresca sotto l’ombra di quel platano corcarti, fin che io faccia la prova di alquanti versi con la cetra, da essere in questa sera da me recitati avanti la regina; e veramente assai averò che fare, se li quattro sonetti da lei richiesti aggradirla potranno.
Triperuno. Questo tal comporre a l’altrui petizione difficilmente può sodisfare a coloro li quali non vi hanno parte alcuna. Ma ditemi, prego, avanti che da voi mi parta, lo soggetto de’ quattro sonetti.
Limerno. Dirottilo ispeditamente. Giá la signora non è cagione propria di questi: ma heri Giuberto e Focilla, Falcone e Mirtella mi condussero in una camera secretamene, ove, trovati ch’ebbeno le carte lusorie de trionfi, quelli a sorte fra loro si divisero; e vòlto a me, ciascuno di loro la sorte propria de li toccati trionfi mi espose, pregandomi che sopra quelli un sonetto gli componessi.
Triperuno. Assai piú duro soggetto potrebbevi sotto la sorte che sotto lo beneplacito del poeta accascare.
Limerno. E questa tua ragione qualche bona iscusazione appresso gli uomini intelligenti recarammi, se non cosí facili, come la natura del verso richiede, saranno. Ora vegnamo dunque primeramente a la ventura ovvero sorte di Giuberto; dopoi la quale, né piú né meno, voglioti lo sonetto di quella recitare, ove potrai diligentemente considerare tutti li detti trionfi, a ciascaduno sonetto singularmente sortiti, essere quattro fiate nominati sí come con lo aiuto de le maggiori figure si comprende:
GIUSTIZIA, ANGIOLO, DIAVOLO, FOCO, AMORE
Quando ’l Foco d’Amor, che m’arde ognora,
penso e ripenso, fra me stesso i’ dico:
— Angiol di Dio non è, ma lo nemico
che la Giustizia spinse del ciel fora.
Ed è pur chi qual Angiolo l’adora,
chiamando le sue fiamme «dolce intrico».
Ma nego ciò, ché di Giustizia amico
non mai fu chi in Demonio s’innamora.
Amor di donna è ardor d’un spirto nero, «Dux malorum foemina et scelerum artifex». Sen.
lo cui viso se ’n gli occhi un Angiol pare,
non t’ingannar, ch’è fraude e non Giustizia.
Giustizia esser non puote, ove malizia
ripose de sue faci il crudo arciero,
per cui Satán Angiol di luce appare.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Molto arguto parmi questo primo, né anco di soverchio difficile; ma che egli aggradire debbia la regina con l’altre donne, non credo.
Limerno. Dimmi la causa.
Triperuno. Lo sobbietto non lauda il feminile sesso.
Limerno. E Giuberto non lo volse d’altra sentenzia di quella c’hai udito. Or vengone al secondo, nel quale la sorte di Focilla contienesi.
MONDO, STELLA, ROTA, FORTEZZA
TEMPERANZIA, BAGATTELLA
Questa fortuna al mondo è ’n Bagattella,
ch’or quinci altrui solleva, or quindi abbassa.
Non è Tempranzia in lei, però fracassa
la forza di chi nacque in prava Stella.
Sol una temperata forte e bella Rarissimum animal bona mulier.
donna, che di splendor le Stelle passa,
la instabil Rota tien umile e bassa;
e ’n gioco lei di galle al mondo appella.
Costei tempratamente sua Fortezza
usato ha sempre, tal che ’l Mondo e ’nsieme
la sorte de le Stelle a scherzo mena.
Ben può fortuna con sua leggerezza
ir ne le Stelle di piú forze estreme:
chi sa temprarsi lei col Mondo affrena.
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Questo altro sonetto appresso di me piú del primo lodevole mi pare: cosa che giá per lo contrario giudicai da prima dover essere, attendendovi quella sorte del «Bagattella» non potere se non li soli consorti disconciare. Ma, sí come a me pare, de gli altri assai meglio vi quadra.
Limerno. Ogni cosa che ad essere patisce durezza, lo piú de le volte eccellente diviene: laonde Focilla, donna, come si vede, prudentissima, contristandosi prima di cotal leggerezza a lei per ventura sortita, or che reuscita la vede in maggior suo onore, giubila e saltella. Ma vengo a l’oscurissimo soggetto de li disordinati trionfi di Falcone, al quale, sopra tutti gli altri gentile, doveva la meglior fortuna accadere.
LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA
Europa mia, quando fia mai che l’una
parte di te, c’ha il turco traditore,
rifráncati lo Papa o Imperatore,
mentre han le chiavi in man, per lor fortuna?
Aimè! la traditrice ed importuna
ripose in man . . . . . . . . onore Fortuna fatta Papessa.
di . . . . e tien . . . . furore
sol contra il giglio e non contra la Luna.
Ché se ’l . . . . non fusse una . . . .
che per un piè . . . . . . . . sospeso tiene,
la Luna in griffo a l’aquila vedrei;
ma questi . . . . . . . . miei
fan sí che mia Papessa far si viene
la Luna, e vo’ appiccarmi da me stessa (1).
TRIPERUNO E LIMERNO
Triperuno. Voi giocate, maestro mio, sovente al mutolo in questo sonetto.
Limerno. Fu sempre lodevole.
Triperuno. Che cosa?
Limerno. La veritá...
Triperuno. Confessare?
Limerno. Anzi tacere.
Triperuno. La cagione?
Limerno. Per scampar l’odio.
Triperuno. Di poco momento è questo odio, se non vi susseguisse la persecuzione.
Limerno. Però lo freno fu trovato per la bocca.
Triperuno. Meglio è martire che confessore.
Limerno. Cotesto è piú che vero. Ma veggiamo finalmente lo sonetto di Mirtella, la cui sorte fu questa:
SOLE, MORTE, TEMPO, CARRO, IMPERATRICE, MATTO
Simil pazzia non trovo sotto ’l Sole,
di chi a gioir del Tempo tempo aspetta:
Morte, su ’l Carro Imperatrice, affretta
mandar in polve nostra umana prole.
Al Sole in breve tempo le viole
col strame il villanel sul Carro assetta:
Matto chi teme la mortal saetta, «Ut navem et aedificium idem destruit faciliime qui struxit, sic hominem eadem optime quae conglutinavit natura dissolvit». Cic.
ch’anco l’Imperatrici uccider vole.
Però de’ sciocchi avrai sul Carro imperio
s’indugi, donna, piú mentre sei bella,
ché ’l Sol d’ogni bellezza invecchia e more.
Godi, pazza! che attendi? godi ’l fiore!
fugge del Sol il Carro, e il cimiterio
la nera Imperatrice empir s’abbella.
TRIPERUNO, LIMERNO E FÚLICA
Triperuno. Or questo de gli altri piú sodisfarmi pare, maestro mio.
Limerno. Avrei con men durezza composto loro, se la divisione di essi trionfi in mia balía stata fusse. Onde pregoti non t’incresca udirne un altro, molto (per quello che me ne paia) de gli giá recitati men rozzo e triviale, quando che la libertade di esso tutta in me solo stata sia, dove li ventiuno trionfi, aggiungendovi appresso la Fama ed il Matto, si contengono:
Amor, sotto ’l cui impero molte imprese
van senza Tempo sciolte da Fortuna,
vide Morte sul Carro orrenda e bruna
volger fra quanta gente al Mondo prese.
— Per qual Giustizia — disse — a te si rese
né Papa mai né, s’è, Papessa alcuna? —
Rispose: — Chi col Sol fece la Luna
tolse contra mie Forze lor difese.
— Sciocco qual sei! è quel Foco — disse Amore —
ch’or Angiol or Demonio appare, come
temprar sannosi altrui sotto mia Stella. Venere.
Tu Imperatrice ai corpi sei, ma un cuore
benché sospendi, non uccidi, e un nome
sol d’alta Fama tienti un Bagattella.
Ma che miracolo è questo ch’ora veggio, Triperuno mio?
Triperuno. Dove?
Limerno. Quel matto solenne di Fúlica veggio a noi venire.
Triperuno. È dunque passato di Perissa in Matotta? Soperstizia - Vanitade.
Limerno. Costui veramente, se non fallo, ha gittato in disparte le sportelle col breviario e vole de’ nostri farse. O vecchio forsennato, che cosí inutilmente da gli soi primi verdi anni s’ha ricondutto fin a la impossibilitade di poter piú gioire di questi nostri piaceri! Oh come ha lunga barba il santo eremita! Oh come va savio, noverandosi li passi, questo santuzzo del tempo vecchio!
Triperuno. Tacéti, per Dio, ché, omai troppo vicino, potrebbevi sentire.
Fúlica. Dio vi salvi, amici miei.
Limerno. Et vos, domine pater.
Fúlica. Di che cosa ragionate voi?
Limerno. Di amore.
Fúlica. Amore spirituale?
Limerno. No, animale.
Fúlica. Sta molto bene.
Limerno. Ma, dite voi, qual importante causa vi mena in questa regione amorosa? qual convenienzia è di questi nostri muschi ed ambracani con quelli vostri rigidissimi costumi?
Fúlica. Causa non pur importante, ma importantissima, mi driccia a te, Limerno mio, acciò che con gli altri toi simili omai da questo mortal sonno vi svegliáti. Queste tre nostre regioni, Carossa, Matotta e Perissa, veramente sono uno laberinto di cento migliara di errori; né mai se non testé la ignoranzia, la sciocchezza, la soperstizia di me e mei compagni ho conosciuto, li quali avevamo la felicitade nostra riposto ne l’andar scalci, radersi il capo, portar cilizio ed altre cose assai, le quali, quantunque siano bone, fanno però lasciar le megliori. Ma non v’incresca udirmi, ché forse oggi la comune nostra salute averá principio.
Limerno. Vi ascoltaremo voluntieri: or incomenciate.
LA ASINARIA
DIALOGO TERZO
FÚLICA, LIMERNO E TRIPERUNO
Fúlica. In poco frutto reuscirebbe lo mio ragionamento assai lungo, se primamente non mi movessi al sommo principio de tutte le cose, e pregarlo ch’egli si degni aprirvi gli occhi ed il core, giá tanto tempo fa cieco e da la veritade di lungo intervallo disgiunto.
Omnipotens pater, aethereo qui lumine circum
mortale hoc nostrum saepis ubique genus,
ut queat artificis tenebrarum evadere fraudes,
utve queat recti tramitis ire viam,
excipias animam hanc, usu quae perdita longo,
iam petit infernas non reditura sedes!
Limerno. Ah! ah! ah! ridi meco, Triperuno mio! vedi questo insensato come ha pregato non so che suo dio per me, come se altro iddio fusse piú di Cupidine da esser temuto e pregato.
Triperuno. Ascoltiamolo, caro maestro, che egli giá si leva da la orazione.
Fúlica. Ritrovandomi heri, per avventura, non molto luntano da la spelonca mia col mio fidelissimo Liberato, da me molto amato e aúto caro, avvenne che, vedendomi egli tutto nel viso maninconioso, di me tenero e pietoso divenuto, sí come colui che di benigno ingegno era e non poco mi amava, umilemente mi domandò la cagione per che sí tristo io fussi e penseroso e quasi tutto in uno freddo ed insensibile sasso tramutato. Ed appresso tanto mi pregò che insieme con esso lui in sin ad un boschetto, lo quale assai vicino era a la grotta mia, ne andai. Camminando dunque noi con lenti e tardi passi verso il delettevole boschetto: — Deh! — dissi allora, — caro mio Liberato, giá fussi io morto in culla! ché, poi ch’io mi sono dato a gli vani studi de la naturale filosofia, a cercare di conoscere le proprietadi de le cose a noi occulte e impenetrabili, non ebbi mai l’animo mio tranquillo né quieto, ed ora piú che mai l’ho travagliato e de vari e diversi pensieri tutto ripieno e distratto. Io non veggio omai quello che per me si debba adoperare o credere: perché, se veraci sono gli evangelici dottori e se parimente li sottili e tenebricosi maestri in teologia e nostri sofisti dicono il vero; se li pontificali decreti ovvero umane leggi, che vogliamo dire, ligano o ligar possiano le nostre coscienze; ed oltra di questo se alcuni altri dottori moderni non sono né capitali nemici de la vera fede né bugiardi, ma hanno la veritá ritrovata; a cui crederò io? a cui prestarò fede? Nel vero, io non comprendo come tutti non possino errare sí come coloro che omini sono, né mi può entrare nel capo come a tutti egualmente noi debbiamo o possiamo credere. O miseri cristiani! ov’è fuggita la ferma fede e piena di credenza de li venerabili patriarchi, de gli santi profeti, de’ poveri apostoli e de tutti i nostri maggiori? Oimè! donde sono tante e sí diverse openioni? donde sí contrarie sètte e sí ripugnanti? onde tante vane quistioni? onde tante liti ed empie contenzioni? Se una è la fede e uno battesmo, poscia che è uno sol Dio e un signore e fattore de tutte le cose, cosí invisibili ed incorporee ed eterne come ancora de le visibili e corporee e mortali, perché dunque siete voi tra voi tutti divisi? — Non cosí tosto quelle poche parole ebbi detto, una asinina voce, subitamente rumpendo lo aere, con soi pietosi accenti percosse le nostre orecchie.
Limerno. Ditemi la veritá, Fúlica.
Fúlica. Io son presto.
Limerno. Donde veniti?
Fúlica. Da Perissa. Per qual cagione questo mi domandi?
Limerno. Le parole vostre mi sapiono di Carossa: baldamente che Merlino vi ha retenuto ne la catena sua! non gli è mancato una dramma, che questo asino da la bocca vostra non abbia parlato!
Fúlica. Anzi cosí chiaramente con queste mie orecchie io l’ho sentito ragionare, come ora facemo noi.
Limerno. Con diavolo! ch’un asino ha parlato?
Triperuno. Lasciamolo finire, caro maestro.
Limerno. Séguiti a sua posta.
Fúlica. — Confortativi — disse quella voce — o boni uomini, e non abbiate paura, ma siate di forte animo! — Per la qual cosa noi tutti sbigottiti, dattorno vòlti, guardavamo se alcuno vi fusse che noi, senza esserne avveduti, ascosamente ascoltasse. Ma nessuno vedendovi se non questo asino, che vecchissimo essere pareva e molto attempato, il quale quivi nel boschetto pasceva, essendo noi giá al fine pervenuti del nostro cammino, vie piú che innanzi, la pietosa e lamentevole voce udendo, temuto non avevamo, incomenciammo a stordire e forte temere, e varie cose fra noi stessi a rivolgere.
Laonde questo asino, alzata un poco la testa, quasi sorridendo, un’altra volta racconfortandoci disse: — Cacciáti da voi ogni gelata paura. Io sono a voi da Dio mandato a mostrarvi la cristiana e vera fede e sciolvervi ogni dubbio ed ogni vostra questione a finire e terminare.
Le quali parole udendo noi, quale e quanto fusse lo stordimento, voi da voi stessi puotete pensare: dico che tutti li capelli se ne arricciarono e, quasi perdute tutte le sentimenta, piú morti che vivi in terra cademmo. Ma ritornate poscia in noi le perdute forze ed il naturai vigore e rassicuratene alquanto, lo comenciamo a scongiurare ed a comandare da parte de Dio che, se ciò inganno fusse del diavolo, tosto indi si dipartisse. Ma egli, che veramente da Dio era, tutto immobil si stette; e per levarci ogni sospetto ed ogni dubbiosa mescredenza che ne l’animo nostro nasciuta fusse o nascerci potesse, con voce assai umana ed umile rispose cosí: — Quanto sia, figliuoli miei, da fuggire e biasimare l’essere sciocco e imprudente, e troppo agevolmente e di leggiero dare orecchie ed aver fede a visioni e parole, quantunque e buone e veracissime quelle ne paiano, io non potrei giammai con parole spiegare né con la penna scrivere. Ma colui, il quale vorrá piú sottilmente con l’acume de lo intelletto considerare la cagione de tutte l’umane miserie, non potrá certamente ritrovar alcuna altra che la sciocchezza e la súbita ed empia credenza aúta da li nostri primi parenti al velenato e mendacissimo serpente. Onde Cristo, che troppo bene conosceva il malvagio ingegno di questo fallace nemico: — State — disse a gli apostoli e a’ suoi cari discepoli — saggi ed avveduti a guisa de li serpenti e de gli aspidi sordi, i quali, come è scritto nel salmo, si riturano gli orecchi acciò che non sentano la voce né li versi de l’incantatore. — Perché io reputo gran senno a sapersi guardare e defendere da gli agguati e da gl’inganni de l’infernale Lucifero primo inventore e padre de la bugia. E voi bene in ciò e saggiamente avete adoperato; ché, ancora che per avventura alcuna volta il credere scioccamente non rechi il creditore né lo metta in grande miseria, anzi il tragga da grave noia e da grandissimi pericoli e ripongalo in sicurissimo e felice stato, non è perciò da commendare molto, dove la instabile fortuna e non l’umano ingegno s’interpone. Né per il contrario è da biasimare e riprendere colui lo quale, essendogli la fortuna nemica e niente favorevole, si ritrova al fine in povero e assai vile stato e in grandissima miseria, dove bene adoperare egli si sia ingegnato, ponendo ogni sollicitudine ed ogni arte ed ogni forza per potere a buono e laudevole fine condurre i fatti suoi. Ma lasciamo ora stare cosí fatti ragionamenti, e sí per non esser troppo lunghi (ed in quella cosa massimamente ne la quale non è di bisogno) e sí ancora per potere piú pienamente ragionare de la cristiana fede, la quale assai larga ed ampia materia di sé ne dará da parlare.
Limerno. Non mi maraviglio punto se, nel parlare, molto sète lungo e fastidioso; e piú di noi, che stiamovi quivi ad ascoltare.
Fúlica. Perché son io cosí lungo e fastidioso?
Limerno. La pienezza di quel vostro biancuzzo volto dicemi voi essere di flemma tutto ripieno.
Triperuno. Un flemmatico è dunque molto verboso?
Limerno. Sí, secondo li fisici nostri. Né solamente la flemma causa moltiloquio e nugacitade, ma tutte l’altre operazioni del corpo rende piú tarde e pegre; al contrario d’uno che collerico sia, lo quale il piú de le volte le cose comencia due fiate, non riescendogli bene la prima per l’ingordigia solamente del soperchio desiderio.
Triperuno. Tu vòi forse inferire che egli flemmatico ti neca!
Limerno. Che vòl dir «neca»?
Triperuno. «Ammaccia», «uccide», «ancide».
Limerno. Anzi gli sta cotesto vocabolo molto bene, ché fermamente non trovo «morte» a quella d’una lingua, quale è quella d’un Alberto da Carpo di testa rasa.
Triperuno. Io molto bene lo riconosco, lo quale, giá d’anni carco ed attempato, ha fatto la piú bella pazzia che fusse mai, che dirotti poi; ma fra l’altre sue vertú è mordacissimo, loquacissimo e vanissimo: ed appresso lui un Sebastiano Sebastiano di patria oscuro. non men di lui chiacchiarone e puzzolente di bocca, lo quale mentendo fassi fiorentino.
Limerno. Megliore vendetta non si può fare che scrivere (se non ti lasciano stare) li soi costumi.
Triperuno. Anzi odi questo mio tetrastico de la nugacitade di quello da non nominare Alberto, fondato sopra questo verbo latino:
NECAT
N on necat ulla magis nos N ex, non unda necat, no N |
LIMERNO, FÚLICA E TRIPERUNO
Limerno. Molto è bello e artificioso, ma, per quello che me ne paia, oscuro e faticoso.
Fúlica. Deh, per lo amore de la passione di Cristo, non siate cosí ritrosi a la salute vostra! Lasciatimi finire, non mi sconciate dal bono e santo proposito, ch’io sono certo delettarannovi li miei ragionamenti.
Limerno. Posciovi molto bene ascoltare, ma non voluntieri, se non mi parlate di qualche bella donna.
Triperuno. Or oltra, ché vi porgemo le orecchie.
Limerno. Assai men lunghe di quelle del suo asino.
FÚLICA
Stupefatto dunque Liberato, ch’un asino cosí qual uomo saputamente parlasse, gridando disse: — Oh che cosa è questa ch’io veggio e sento? dove son io? or dormo io ancora o son pur desto? Io, per quello me ne paia, non so se vedo quello che vedo, né so altresí se odo quel che odo. Sarei io mai un altro divenuto? Dimmi dunque, messer l’asino, come può egli essere che, essendo tu una bestia la quale di grossezza ogn’altra, quantunque grossissima ella si sia, avanzi, ora parli e ragioni non altrimenti che se uno saggio uomo fussi e molto avveduto? Questo è contra a la tua natura. Né di ciò è meno da maravigliare che se il fuogo freddo divenisse e piú non rescaldasse. E qual mai fia colui sí stolto e d’intelletto sí scemo e senza senno che, raccontandogli noi quello che ora con gli occhi de la fronte ne pare di vedere, non ci reputi ubbriachi ovver dormiglioni? Perché voluntieri io saperei se vano sogno è quello che io veggio o no. — Queste ed altre simiglianti parole udendo, messer l’asino schioppava tutto de la risa; ma aspettando poi il fine di quelle, poi ch’egli si tacque, cosí incomenciò:
— Estimava io assai sofficiente e bastevole testimonianza avervi potuto fare i vostri scongiuri allora quando per essi non mi mossi io punto, ma tutto immobile mi vedeste stare. Ma egli è altrimenti avvenuto che io avvisato non mi sono. Per la qual cosa nel rimanente di questo giorno, che fia poco, intendo io di dimostrarvi con vere ed aperte ragioni quello che voi vedete e udite non essere né vana spezie o sogno né favole né alcuno inganno. E ciò di leggero mi potrá venire fatto, dove voi vorrete con intento animo raccogliere tutte le mie parole. Però, quando a grado vi sia, vi potrete su la verde erba porre a sedere, per ascoltare piú agiatamente le mie ragioni, a le quali, poscia che il sole con frettolosi passi incomencia giá traboccare da la sommitá del cielo, tempo mi pare convenevole da dar omai principio.
Dovete adunque sapere che ogni artefice, il quale secondo il suo arbitrio e voluntá opera, può fare ed altresí non fare uno medesimo effetto come e quando il meglio li piace. E cotale principio è dirittissimamente da l’empio Averoi chiamato principio di contradizione. È un altro principio naturale, il quale è determinato ad un sol fine, e solamente uno medesimo effetto in ogni luogo e in ciascuno tempo sempre necessariamente produce: il che manifestamente essere veggiamo nel fuogo, il quale è, come dicono, formalmente caldo e sempre genera il calore e sempre scalda e non può altrimenti adoperare dove egli si ritrove. Né sono da essere ascoltati quelli filosofi, li quali niegavano affatto cotesto naturale principio, dicendo ogni cosa essere or buona or rea, or dolce or amara, or calda or fredda, e brievemente ogni cosa essere tale, quale a noi ne paia e quale le varie e diverse openioni de gli uomini essere giudicassino. Nel vero stoltissimo fôra colui, che dicesse le cose gravi ugualmente e senza alcuna differenza, ma secondo la falsa openione e umano giudicio, or scendere nel centro ed or salire a la circonferenza, conciosiacosaché qua giú sempre quelle da loro gravezza sospinte discendano, ma lá sú mai elevare non si possino se non per violenza e per altrui forza e contra loro natura; ancora che altrimenti estimi la nostra openione, la quale mutare non può le nature e proprietati de le cose, sí come colei che naturalmente seguitare dee, e la cui veritade pende e nasce da loro veritá, come apertamente si può vedere ne gli sopradetti esempi. Che perché noi crediamo la grave pietra discendere, non è perciò la nostra openione cagione de la veritá de lo scendere de la pietra; ma sí bene il discendere di quella è cagione perché vera sia la nostra openione e credenza. Ma perché mi distendo io in piú parole? Dico che ogni nostra openione o conoscenza, o vera o falsa che ella si sia, viene dietro a le cose, come scrive Aristotile nel libro De la interpretazione, ed ogni cosa procede e va innanzi a la nostra scienza, sí come oggetto e cagion di quella. Ma il contrario avviene de l’eterna ed immutabil sapienza del Padre, la quale è principio e cagione de tutte le cose, de la quale ancora ne parlaremo con lo aiuto di Colui che ogni cosa col suo intelletto e governa e regge e dispone con la sua infinita vertú e provvidenza. Ma da ritornare è (perciò che troppo dilungati siamo) lá onde ne departimmo.
Dissi che duo erano gli princípi, l’uno libero e voluntario, l’altro naturale, necessario e determinato. Iddio dunque, il quale (come cantando dice il profeta) criò e produsse tutto ciò che egli volle e fece i cieli e la terra con l’intelletto, non è da dire che egli sia alcuno naturale principio o determinato, ma del tutto libero e voluntario, anzi essa prima ed eterna voluntá e potentissimo arbitrio senza principio e sopra ogni principio, come piú pienamente dimostraremo quando ragionare ne converrá de la creazione di questo mondo sensibile contra a gli naturali filosofi, e massimamente contra al principe de li peripatetici Aristotile. e contra al suo ostinato commentatore, Averroi. gli quali vogliano questo mondo sempre essere stato senza mai comenciare e sempre dovere durare senza mai finire. Non è dunque gran maraviglia, nonché impossibile, purché a Dio piaccia, che uno asino parli e ragioni cosí come un uomo d’alto ingegno dotato ragionarebbe. Or non può egli fare ciò che egli vole? è forsi egli cosí infermo ed impotente che adempire egli non possa ogni sua voglia e sodisfare a ogni suo appetito e desiderio? Il che se fare non può, ov’è la sua onnipotenza? ove è la sua infinita vertú? ove è la sua perfettissima beatitudine e felicitá? Nel vero, io non so come egli possa cosí agevolmente a uno sasso, non pur a uno animale come l’asino è, dare la vita e l’intelletto, come liberalissimamente a gli uomini dare gli piace. Né veggio simigliantemente alcuna differenza tra ’l nostro e vostro corpo, e perché piuttosto il vostro possa ricevere tanta nobile forma quanto è l’intelletto, che non possa ancora il nostro. Ma lasciamo ora alquanto le ragioni ne’ loro termini stare, e produciamo in mezzo le sacre e veracissime istorie, e manifestamente vedremo nessuna cosa essere a Dio faticosa e impossibile.
Leggiamo nel Genesi che la verga, la quale teneva Mosé in mano, d’uno legno, per divina potenza, divenne uno serpente e ritornò poi di serpente ne la sua primiera forma. Ecco chiaramente veggiamo che puote Egli le spezie mutare e le forme de le nature de le cose, sí come colui nel cui arbitrio è dare e tôrre ogni essere ed ogni vita ed ogni intelletto. Leggiamo ancora che molte statue o idoli di metallo o di pietra per diabolica virtú parlavano e rispondevano a coloro che gli domandavano. Che direte voi qui? niegarete voi non potere Iddio operare in uno asino quello che gli diavoli hanno potuto operare in uno insensibile marmo o metallo? Questo certamente non niegarete voi, ché niegare non si dee il vero né a quello mai contrastare, ma dargli perfetta e piena fede. Taccio io Lazzaro e molti altri da Cristo e da’ suoi santi risuscitati, taccio altresí molti ciechi alluminati, taccio gli attratti dirizzati, taccio e’ leprosi mondati, taccio finalmente tutti gl’infermi da lunghe e mortifere infermitati con la sola parola curati e a perfetta ed intera sanitá renduti, i quali tutti senza alcun dubbio ne mostrano la divina potenza e vertú. Ora vengo a piú aperto argomento di quella; e dico che niuno è il quale non sappia che l’asino, o asina che ella si fusse, di Balaam profeta non solamente parlò ma, profeta ancora divenuto, profetò e predisse quelle cose le quali da Dio gli erano state rivelate. Che piú dunque m’affatico di volere ciò piú apertamente dimostrare? Chiarissimo argomento è quella cosa essere possibile, la quale alcuna volta è ovvero fu giá buono tempo passato. Né mi fa qui ora mistieri di produrre l’Asino d’Apuleio, anzi di Luciano, stimolo de tutti i filosofi e morditore d’ogni laudevole openione, per ciò ch’io non intendo né voglio ora dimostrare come possino gli uomini in uno asino o in qualunque altro animale mutarsi; di che io non ho dubbio alcuno. E volesse Iddio che pochi fussero quelli, li quali sovente di uomini divengono crudelissime fiere e, rivolgendosi ne la bruttura de tutti e’ vizi e peccati, sono vie piú peggiori de le bestie, le quali buone sono per ciò che vivono secondo la loro natura, la quale buona fu dal sapientissimo ed ottimo Maestro criata. Né altro forsi Pitagora, divinissimo matematico, volse intendere per lo trasmigrare d’uno in uno altro animale: il che ancor mi pare che abbia confermato il principe de tutti e’ filosofi, Platone dico, il quale di gran lunga avanza e trapassa d’ingegno ogni altro filosofo che mai fusse o sará nel mondo, togliendo dal nuovero quelli solamente li quali alluminati furono da la vera fede, o saranno, per opera del Spirito Santo, il quale per tutte le cose averá scienza. Io credo fermamente avere sodisfatto secondo il mio giudizio a le vostre quistioni: ora intendo piú dimesticamente con voi ragionare e ricontarvi le piú maravigliose cose del mondo.
LIMERNO, FÚLICA E TRIPERUNO
Limerno. Fatimi, prego, o padre Stúnica, un piacere.
Triperuno. Con cui parlate, maestro? ove trovasi questo Stúnica?
Fúlica. Volse egli dirmi Fúlica.
Limerno. O sia Fúlica o Stúnica, vorrei da Vostra Santitade una grazia.
Fúlica. E dua, potendo.
Limerno. Non mi vogliate piú oltra imbalordire lo debol cervello con queste vostre filosofie. A che tanti Platoni, Aristotili e asini? voi potreste cosí con le mura ragionare!
Triperuno. Anzi vorrei, caro mio maestro, che vi piacesse di ascoltarlo. Ma facciamone qualche poco di pausa.
Limerno. Ditemi, prego, santo Fúlica: foste giammai di alcuna bella donna innamorato?
Fúlica. Io fui e sono innamorato per certo. Hic Fulica supprimit divinum amorem.
Limerno. Oh sia lodato il Dio d’amore, che piú oltra non verrò necato di parole al vento gittate! Voglio che ’n questa mia cetra cantiamo tutti noi tre successivamente qualche amoroso canto, come piú al suo particolar soggetto ciascuno de noi aggradirá. Io dunque sarò, piacendovi, lo primiero e cantarovvi di mia diva la summa cortesia, la quale dignossi mandarmi un bianchissimo panno di lino, lo quale, dapoi lungo sudore nel danzare preso, mi avesse a sciugare le membra.
«Bruggia la terra il lino col suo seme», «Urit enim lini campum seges». Virg.
disse cantando il mantoan Omero.
Perché un verso non gionse a dir piú intiero?
Del lin cosa non è ch’un cor piu creme!
Quel lino, che le man vostre medeme
dopo il grato sudor, donna, mi diero,
tessuto l’ha (chi ’l nega?) il crudo arciero:
tanto m’incende l'ossa e ’l cor mi preme!
Vi lo rimando. Ahi! rimandar non posso
l’ardor però, ch’ogni or sta ’n le medolle,
né umor di pianto v’ha che giú mil lave!
Ma prego Amor, sí come incender volle
tutte le mie, che almanco roda un osso
in voi, o di mia vita ferma chiave!
Piacquevi cotesto bel soggetto, o padre eremita?
Fúlica. Molto aggradisce l’umana generazione questa vocale musica.
Limerno. Or segui, Triperuno.
Triperuno. Dirò io alquante parole d’un oroglio di vetro, con lo quale mediantovi una tritissima rena si misura d’ora in ora lo tempo.
Pensarsi non sapea piú agevolmente
cosa che d’uman stato avesse imago
d’un fragil vetro in vista cosí vago,
che libra il tempo a polve giustamente.
Vedi le trite rene come lente
filan e’ giorni pel foro d’un ago,
e fan col fiume or quello or questo lago
in doi grembi, s’altrui volge sovente!
Ma cotal opra tosto va in conquasso, «Non est, crede mihi, sapienti dicere. Vivam | Sera nimis vita est crastina: vive hodie». Mart.
se avvien che fra doi vetri a la giuntura
quel debil filo e cera si dissolve.
O forsennato, chi d’aver procura
in terra stato, sendo un vetro al sasso,
al foco molle cera, al vento polve!
Fúlica. Assai piú lo discipolo mi piace che lo maestro, e particolarmente la fine di questo tuo morale sonetto, Triperuno mio dilettissimo; ed annunzioti che in breve cangiarai vita e costumi in assai megliore stato.
Triperuno. Io non son tale che mai puotessi adeguare l’alto ingegno del mio maestro. Ma tóccavi, padre, la volta vostra.
FÚLICA
Nacque di fiera in luogo alpestro ed ermo,
ed ebbe co’ le man il cor d’incude
(ove dí e notte giá molt’anni sude
far a l’inopia il pover fabro schermo),
qualunque al pio Iesú giá stanco, infermo
a l'onte, ai scherni, a le percosse crude,
sofferse in croce le sue membra nude
al segno trar per darvi un chiodo fermo.
Quinci una mano, quindi affisse l’altra
ed ambo e’ piedi al smisurato trave;
né vinse lui quel mansueto aspetto.
Ma questo avvien, ché in prava mente e scaltra
e che di sangue uman sempre si lave,
non cape amor né alcun pietoso affetto.
Limerno. Non altramente sperava io dover avvenire di questo ipocrita e torto collo, e degno da esser nominato (se lo capo raso vien bene considerato) «cavallero de la gatta». Mal abbia chi giammai ti mise quello bardocucullo al dosso, frate del diavolo!
Triperuno. Deh, caro maestro, non vi partite!
Fúlica. Lascialo andare, figliolo. Colui che su nel cielo regna, solo può fare di Saulo, Paolo; di lupo, agnello; di notte, giorno. Ma tu ne verrai meco e, acciò che la lunghezza del cammino siati meno a noia, seguirò de lo asino la miracolosa dottrina.
Triperuno. Anzi ve ne volea pregare, quando che molto lo vostro favoleggiare m’addolcisca il core, avendo voi parlamenti di vita.
FÚLICA
— Voglio che sappiáti — diceva quello — che gli asini e gli bovi ancora hanno lo ’ntelletto; non che lo possono avere. Di che ve ne può far chiari Esaia quando dice: «Conobbe il bove il suo possessore, e l’asino lo presepio del suo signore», e David: «Non vogliate — dice — divenire cavalli e muli», e soggiungevi la ragione: «perché sono — dice — senza senno e senza alcuno avvedimento». Per che Cristo, umile e mansuetissimo signore e obbedientissimo figliuolo al suo Padre, non volse montare suopra gli cavalli né suopra gli muli, superbissimi animali e oltre a modo ostinati, ma sí voluntieri si degnò ascendere suopra il mansueto asinello. O beati gli asini e vie piú ch’ogni altro animale felici! O beati quelli che asini divengono e sono degni di portare il Re de la gloria in Gierusalem, cittá de li angioli e de tutti i santi! li quali sempre veggono il sole de la giustizia che rasserena le nostre menti piene d’errori oscuri e folti, e sempre mirano la divina e vera bellezza, la quale gli fa in eterno beati e giulivi. Non posso io qui tacere la soperbia e ’l fasto di coloro che «servi di Cristo» e «suoi discepoli» si fanno chiamare, e temo forte che siano a guisa di quelli servitori dalli quali è luntano il loro signore. «Sunt ditiores quod fuerant saeculares: possident opes sub Christo paupere, quas sub locuplete diabolo non habuerant». Hieronimus. Ma se pur di cosí sacro nome si vogliono gloriare, perché essi con piú pompa e con maggiore fasto cavalcano piú ricchi cavalli e piú belli muli che Cristo mai non fece? e perché non cavalcano essi gli asini, come ’l loro maestro e signore (come dicono) gli ha dato esempio? Ma in ciò prudentemente hanno fatto e fanno, ancora cavalcando quelli animali gli quali loro piú assomigliano.
— Deh! guarda bene — disse allora Liberato a l’asino — e considera quello che tu parli; ché se per mala sciagura mai si saprá, tu ne sarai molto male trattato, ed io ti so bene accertare che tutte l’ossa con un grosso bastone rotte ti saranno in dosso in cosí fatta guisa che mai piú non portarai soma, ma miseramente di questa vita passarai. Né ti giovará mercé per Dio chiedere: per te morta sará pietá, né potrai alcuno aiuto o conforto ritrovare. Deh! non sai tu quello che indice Iddio per bocca del profeta: che dobbiamo lasciare stare i Cristi suoi? Perché dunque tu gli tocchi, perché gli mordi, perché non gli lasci stare?
Rispose l’asino con un mal viso e disse: — Se temessi io il bastone e le busse piú che Iddio, io mi tacerei, né sarei mai oso di dire la veritá. Ma perciò che io sono disposto, dove a Dio non dispiaccia, morire, se mi fia di bisogno, non ho paura di confessare e dire il vero. Né perché io dica la veritá, si debbono essi reputare essere offesi da me, se veramente discepoli sono e servi o amici di Cristo, il quale, come egli di se medesimo fa vera testimonianza, è essa prima veritá e cagione d’ogni nostra veritá. Io non mordo loro, io non gli tocco né pungo; io lascio stare, anzi riverisco e temo i veri Cristi e sacerdoti e regi. «Quid faciet sub tunica poenitentis regius animus? qui alios vult regere, alios iudicare et a nemine regi et a nemine iudicari?». Hieronimus. Io favello di quelli che vogliono essere creduti buoni pastori e vogliono essere commendati e riveriti, li quali nel vero sono mercenari e prezzolati, che a prezzo temporale e vilissimo pascono le pecore di Cristo e sono per avventura affamati lupi; ché a li buoni e veraci pastori e santi prelati de la Chiesa convenevole cosa è, anzi necessaria, a fargli ogni onore il piú che noi gli possiamo. Sí che giusto sdegno mi sospinge a biasimare la lorda e malvagia vita de li mali cherici e rettori de la Chiesa. Né può l’animo mio sofferire di vedere quelli cavalcare con tanta pompa e compagnia, quanta mai non si vide in Campidoglio ne gli vittoriosi trionfi de li romani, nel tempo che avevano in mano il freno e ’l governo de tutte le provincie e de le genti barbare, le quali di dí in dí soggiogano i nostri dolci paesi, togliendoci oggi una cittá e domani l’altra, ed or questo castello ed or quell’altro, e temo che in brieve non ci togliano le persone. Cristo cavalcò una sol volta sopra l’asino, ma gli soi discepoli trionfalmente a le piú volte si fanno portare dove a piè andare devrebbono.
— Non hai tu — disse Liberato — di ciò troppo da rammaricarti e da dolerti, che dove una fiata portasti sopra gli omeri tuoi il nostro Signore, leggerissimo e soave peso, ne la santa cittá di Ierusalem, ora ti converrebbe portare i suoi vicari e suoi discepoli per oscuri boschi e per le frondute selve, discorrendo or in qua or in lá, a le maggiori fatiche del mondo, Venatio. senza che oltre al convenevole saresti carico d’una gravissima soma, in maniera che staresti male. Per che ti déi assai bene contentare del tuo quieto stato, né vogli procurare scabbia al tuo corpo che sanissimo esser veggio. E maravigliomi io forte di cosí fatte parole quali sono state le tue; ché io fermissimamente creduto avrei, ed ancor credo, che voi asini sempre fuggito avereste cotali pompe, lá dove ora mi pare che procacciate voi d’averle. Io sempre ho udito dire che a gli asini non dilettino molto l’ornate e nobili selle né gli aurati freni né le fregiate vestimenta e quelle che d’oro sono o d’ariento dipinte. Né vidi io mai alcuno di voi essere troppo vago del sòno de le corna o d’altri dilettevoli istromenti, onde sogliono e’ greci dire d’alcuno, che sia d’alcuna cosa rozzo e grosso, uno cotale proverbio: «Egli è a guisa d’un asino a la lira». De l’uccellare e de andare a cazza non mi è ora di bisogno che io ne parli, perciò che dilettare non vi possono quelle cose le quali contrastano a la vostra natura, la quale non vi diede l’ali a volare né veloci piedi e leggieri a potere forte correre. Per le quali tutte cose io brievemente conchiudo che ingiustamente voi e senza ragione facciate alcuna querela o romore de lo vostro sbandeggiamento, recandovi a vergogna l’essere scacciati da coloro, il cui maestro, se pur suoi veraci discepoli sono, vi elesse per suo portatore, quasi come piú vi caglia il giudicio de gli uomini che quello di Dio. Per che vi dovete voi dare pace di tutto ciò che a Colui piace, a la cui direttissima volontá ed eterna disposizione e legge immutabile ogni cosa si creda per certo essere soggetta. Or dubitate forse voi de la divina ordinazione ed infallibile provvidenza? Credete voi che alcuna cosa senza ordine e senza alcuno reggimento qua giú sempre errando vada? Il che se voi credete, perché incolpate voi gli uomini e non la instabile fortuna? Non avete dunque voi giusta cagione da dolervi né da riprendere i chierici e prelati de la madre Chiesa; a li quali, benché di scellerata e cattiva vita siano alquanti e avvenga che facciano le sconcie cose, nondimeno dovete voi fargli ogni onore ed ogni riverenza come a vostri maggiori e come a quelli li quali sono da Dio ordinati e mandati a nostra utilitá, abbiando riguardo al divinissimo precetto di Cristo che ne comanda e dice: «Facete voi quelle cose le quali essi vi dicono e predicano che fare dobbiate; ma le malvagie opere loro, le quali essi sovente fanno, non vogliate voi fare».
— Non piú — rispose l’asino — non piú parole. Io non niego che non debbiano essere ascoltate ed ubbidite loro leggi oneste e pie, né vitupero io in tutto loro decreti e canoni o regole del ben vivere. Non sono io di coloro che forse v’immaginate, ma di Cristo e vivo e morto, al quale io servo e servire voglio nel suo dolce e grazioso evangelio, né di servirgli sarò mai sazio. Al quale cosí piangendo son astretto di dire: — O benignissimo Padre, riguarda! riguarda, o bono pastore, con l’occhio de la pietá le tue povere e deboli pecorelle, le quali tra crudelissimi lupi sono poste drento a cardi, vepri, spine ed altre viziose erbe a pascere! Ecco, oimè! di quelli uno piú de gli altri affamato e fiero, Licaone, a passo a passo, senza alcuno rispiarmo, tutte le caccia, le svena, le straccia, le divora. Defendile, potentissimo Signore, defendile da gli soi crudi artigli. Che...
TRIPERUNO
E ra per seguir anco il vecchio bono
G iá su l’entrar d’un poggio il qual si monta
N on senza gran sudore, quando un grido
A l tergo vienimi, rotto di dolore.
T orsi la fronte, ed ecco for d’un bosco
I o vidi una dongiella scapigliata
V enir fuggendo, ed ha chi l’urta ed ange
S empre battendo lei con aspra fune.
S tetti prima qual sasso; ma dapoi,
Q uando comprendo il viso di Galanta,
V olgo le spalle piú d’un strale in fretta
A Fúlica per trarla for d’affanni.
R ompeva la meschina l’aere intorno
C on alte strida e suon di petto e mani.
I ntendo l’occhio a chi la fea gridare:
A hi! ch’io la riconobbi, ahi! cruda ed empia
L aura maligna, incantatrice e maga,
V enefica non men di Circe fiera,
P utta sfacciata, vecchia, il cui fetore
V olgea gli uomini in bestie, augelli e serpi,
S tringendo ai carmi soi l’altrui costumi.
F úlica su pel monte ansando scampa,
L o qual non piú vedere i’ puoti mai.
O vunque una sen fugge, e l’altra segue.
R atto m’avvento al fondo d’un vallone:
E eco vidi Galanta in un instante
N on esser piú Galanta, ma curvarsi
T utta ritratta, e capo e braccia e gambe,
I n una picciol forma di mustella.
N on puoti far allora, che non, ratto
V òlto in gran fuga e lagrimando forte,
S campassi per nascondermi da Laura.
D i passo in passo mi volgeva a drieto,
E rrando e qua e lá come stordito.
S tettesi la malvagia su duo piedi
T utta minace in vista e neghittosa.
R esto ancor io nel folto d’una macchia,
V edendo lei ma non da lei veduto.
C essò dunque la vecchia scellerata
T ener piú via d’avermi allor nel griffo;
O nde, quindi partita, io mi discopro
R itornando a veder ov’è Galanta.
R amparsi lungo al fusto d’un sambuco
E cco la veggio, oh quanto vaga e snella,
L eggiadra, pronta, sedula, sagace!
I o la richiamo come far solea:
— G alanta mia, perché mi fuggi, ingrata?
I o son il tuo fidele Triperuno:
O ve serpendo vai? vieni a me, vieni,
N on ti levar da me, ché bona cura
I o sempre avrò di te, fin che col tempo
S i trovi chi ti renda a l’esser vero. —
D issi queste parole e passo passo
I' m’avvicino, losingando, a lei.
V enne dunqu’ella, dolce mormorando,
I ntratami nel sino a starvi ad agio.
B asci soavi quella mi porgeva,
E d io basciava lei, non men insano,
N on men caldo di quel che fui davanti.
E ra sul picciol dorso tutta d’oro,
D i latte il corpo e leggiadretti piedi,
I ntorno al collo un circolo di perle
C into l'adorna e fammi esser men grave
T utta la doglia che m’assalse, quando
I o vidi lei cangiarsi a me davante.
L o giorno mai, la notte mai non cesso
A ppagarmi di questo sol piacere.
V enni a Perissa finalmente, dove Soperstizione.
R estar non volse Fúlica, ché ’l loco
E ra d’errori e soperstizia pieno.
S tetti qui molti giorni, mesi ed anni
I n una grotta sol per fiere usata,
B evendo acque de stagni torbe immonde,
I onci e palme tessendo e molli vinci.
N on mi levai dal dosso mai la gonna,
O nde l'immondi vermi di piú sorte
M’ erano sempre intorno vigilanti,
E d un setoso manto folto ed aspro
N on mai giú da le nude carne i’ tolsi.
V arcar un uomo in ciel non io credea,
I l qual fuggisse vivere famato,
N udrirsi d’erbe, more, fraghe e giande,
D estarsi a mezzanotte e macerarsi
I l corpo giá omicida di se stesso,
C orcarsi o su le frondi o in terra nuda,
A rrecarsi a gran merto il girne scalzo,
V ender se stesso ad altri, non avere
I l proprio arbitrio in sé, che Dio concesse
T enacemente al spirto di ragione.
A l fin, essendo sotto l’altrui voglia,
T olta mi fu la mia dolce Galanta:
L o mio solaccio, il mio contento e spasso,
A imè! da me fu radicato e svelto.
R imasi d’alma privo, ma nel dolo
V i vendo sempre tanto piansi ed arsi,
A rsi d’amore, piansi di dolore,
M orte chiamando ognor, che al fin privato
I o fui de gli occhi e d’ogni sentimento.
L aura qui ottenne il seggio, e sol de volpi,
L upi, tigri, pantere, draghi e serpi,
V entrosi vermi empitte boschi e selve,
M onti, valli, spelonche, fiumi e stagni.
A ttonita scampavasi la turba
P er le fantasme, sogni e negre larve,
P er l’ombre infauste che da l’empia Erinni
E rano sparse drento al laberinto,
L aberinto d’errori colmo e pieno,
L aberinto che giá di Dio fu stanza.
A ugellazzi notturni d’ogn’intorno
N on cessano volar con alte strida;
D el sole omai non piú v’entran le fiamme,
V olti de spirti neri sempre in gli occhi
M’ erano fisi digrignando e’ denti.
E la Galanta mia fu in preda d’altri
S uso al bel mondo, in grembo altrui, rimasa:
S uso al bel mondo, ed io nel piú profondo
E ra del Caos, centro e laberinto!
C olui che l’ebbe in mano fu l’egregio,
E gregio mio Grifalco, il qual non ebbe,
N on ha, non avrá mai di sé piú fido.
S trinse Galanta mia fra l’uscio e muro.
E Ila morí chiamando: — Triperuno! —
M a ’l giovene magnanimo e cortese
V olse che d’alabastro un fino vaso
S epolcro fusse a la gentil mustella.
TUMULI GALANTHIDIS MUSTELLAE
GRIFALCO
Cogimur exiguam deflere Galanthida, virtus
quippe sub exiguo corpore multa fuit.
Hanc neque tum poterat limen collidere, vixit
quae pede cervus, aper fulmine, corde leo.
At magis offensas ulta est Saturnia priscas,
solvit ubi, invita hac, ventre Galanthis heram.
FÚLICA
Si brevis hic tumulus, breve carmen, me breve fatum,
quae mustella fui tam brevis, huc rapuit.
MERLINUS
Ter mutata, fuit Mulier, Mus, Stella, Galanthis:
me Mulier, tumulum Mus pete, Stella polum.
LIMERNUS
Quae mulier quondam, quae nunc mustella fuisti,
hic medium linquis nomen et astra tenes.
PAULUS F.
Lusus eram, nunc luctus heri, qui fraude peremptam
Lucinae officio me decorat tumuli.
MARCUS C.
An misera, an felix? dominum damnemve probemve,
Cum dederit mortem qui modo fert tumulum?
Si pius, unde mihi mors est? si non pius, unde
et decus et laudes et lacrymae et tumulus?
IDEM
Dum placeo interi. Occidit dum diligit, ingens
struxit Amor tumulum, sed prius ille necem.
IDEM
Mole brevi brevis ipsa tegor mustella, gementis
delitiae nuper, nunc lacrymae domini.
ISIDORUS C.
IUNONIS QUERELA
O ego quantum egi! extinxisse Galanthida dudum
credideram lethaeisque immersisse sub undis,
dum terris prohibere paro, coelum occupat audax
et vatum celebri late iam carmine vivet.
IDEM
Indulges lacrymis inane quiddam
deflens et teneram gemens alumnam,
Grifalco; at nihil huic magis salubre,
magis nobile praestitisse posses.
Vivens cognita vix tibi latebat.
Vitae munere functa, nunc perenni
vivet iam celebrata laude! per te
haec dum mortem obiit, absoluta morte est.
TRIPERUNUS AD DEUM CONFITETUR
Summe opifex rerum, pater instaurator et unus,
qui Deus existens coelo terraque potenter
cuncta regis, certo dum lapsu saecula torques,
en ego, si ante tuum debentur vota tribunal
assistique hominum curae trutinisque movendae,
quid faciam, tanto qui absumpto tempore noctes
produxi vigiles ea per figmenta, volumen
nugarum aedificans? En culpae cognitor omnis,
en quibus ingenium, quo nos decora alta subimus,
turpiter implicui fabellis, quo per ineptos
consenuit lusus viridis squalore iuventa!
Pars melior consumpta mei, redituraque nunquam
rapta est, unde animi ratio me conscia torquet.
Heu! heu! quid volvi misero mihi? sordibus aurum,
perditus, et gemmas immisi fecibus indas.
FINISCE LA SECONDA SELVA.
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Ecco il testo completo, quale si legge nella 2ª edizione:
LUNA, APPICCATO, PAPA, IMPERATORE, PAPESSA
Europa mia, quando fia mai che l’una
parte di te, c’ha il turco traditore,
rifráncati lo Papa o Imperatore,
mentre han le chiavi in man, per lor fortuna?
Aimè! la traditrice ed importuna
ripose in man di donna il summo onore
di Piero e tiene l’imperial furore
sol contra il giglio e non contra la Luna.
Che se ’l papa non fusse una Papessa
che per un piè Marcin sospeso tiene,
la Luna in griffo a l’aquila vedrei.
Ma questi papi o imperatori miei
fan sí, che mia Papessa far si viene
la Luna, e vo’ appiccarmi da me stessa.