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Jean-Jacques Rousseau - Il contratto sociale (1762)
Traduzione dal francese di anonimo (1850)
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Cap. IV

Dei comizi romani.

Noi non abbiamo monumenti ben certi dei primi tempi di Roma, ed evvi anzi una grande probabilità, che la maggior parte delle cose che si spacciano, sul suo conto siano favole1, ed in generale la parte la più istruttiva degli annali dei popoli, che è la storia del loro stabilimento, è quella che ci manca di più. La esperienza ogni dì ci insegna da quali cause nascano le rivoluzioni degli imperii; ma siccome non si va più formando nessun popolo, non ci resta che a fare delle conghietture per ispiegare come siansi formati.

Gli usi che vi si trovano stabiliti attestano per lo meno, che ebbero una origine. Alcune tradizioni che risalgono a quelle origini, quelle che si appoggiano alle più grandi autorità, e sono confermate da più forti ragioni ancora debbono passare per le più certe. Ecco le massime, che io tentai di seguire nell’indagare il modo, in cui il più libero ed il più potente popolo della terra esercitava il suo supremo potere,

Dopo la fondazione di Roma, la nascente repubblica, cioè l’armata del fondatore composta di Albani, di Sabini e di stranieri, venne partita in tre classi, che da quella partizione pigliarono il nome di tribù. Ciascuna di quelle tribù fu suddivisa in dieci curie, e ciascuna curia in decurie, alle quali furon preposti dei capi che si appellarono curioni e decurioni.

Oltracciò da ciascuna tribù si trasse un corpo di cento cavalieri che si chiamò centuria, per lo che si vede, che quelle divisioni poco necessarie in un borgo, in principio non erano se non militari. Ma sembra, che un istinto di grandezza spingesse la piccola città di Roma a darsi anticipatamente una polizia convenevole alla capitale del mondo.

Da quella prima partizione nacque ben tosto uno inconveniente; la tribù degli Albani2 e quella dei Sabini3 rimanendo sempre nel medesimo stato, nel mentre che quella degli stranieri4 cresceva continuamente per via del concorso perpetuo di quelli, quest’ultima non tardò guari a superare le altre due. Servio rimediò a quel pericoloso abuso cambiando la divisione, ed alla razza che abolì sostituendone un’altra derivata dai luoghi della città occupati da ciascuna tribù, Invece di tre tribù egli ne fece quattro, ciascuna delle quali occupava una delle colline di Roma e ne assumeva il nome. In questo modo ponendo rimedio alla disuguaglianza presente, la prevenne eziandio per l’avvenire; ed affinchè non fosse quella divisione solamente di luoghi ma di uomini, vietò agli abitanti di un quartiere di passare in un altro, il che impedì la confusione delle razze.

Raddoppiò eziandio le tre antiche centurie di cavalleria, e ne aggiunse altre due, ma sempre sotto gli antichi nomi; mezzo semplice e giudizioso, per cui finì di distinguere il corpo dei cavalieri da quello del popolo senza far mormorare quest’ultimo.

A quelle quattro tribù urbane Servio ne aggiunse altre quindici dette tribù rustiche, perchè erano formate dagli abitanti della campagna, divisi in altrettanti cantoni. Coll’andar del tempo se ne fecero altrettanto di nuove, ed il popolo romano si trovò alla fin fine diviso in trentacinque tribù, numero che non si oltrepassò più finchè durò la repubblica.

Da una tale distinzione delle tribù della città e delle tribù campestri risultò un effetto degno di essere osservato, perchè non ve ne è un altro esempio, e perchè Roma gli dovette ad un tempo stesso e la conservazione de’ suoi costumi e l’ampliamento del suo imperio. Si crederà che le tribù urbane siansi quanto prima arrogato il potere e gli onori, ed abbiano avvilito le tribù rustiche, ed avvenne il contrario. È noto il gusto dei primi Romani per la vita campestre. Questo gusto venne in essi instillato dal savio istitutore, che unì alla libertà le fatiche rustiche e militari, e rilegò per così dire nella città le arti, i mestieri, l’intrigo, la fortuna e la schiavitù.

Per la qual cosa tutto ciò che Roma aveva d’illustre, viveva in campagna e coltivava il terreno, ed invalse il costume di cercar sempre costì i sostenitori della repubblica. Quello stato essendo comune a tutti i più degni patrizii fu onorato da tutto il mondo; la vita semplice e laboriosa dei contadini venne preferta alla vita oziosa e morvida dei borghesi di Roma, e quegli che in città non sarebbe stato se non un disgraziato proletario, lavorando alla campagna diventava un cittadino rispettato. Non senza ragione, diceva Varrone, i nostri magnanimi antenati stabilirono in villaggio il semenzaio di quei robusti e prodi uomini, che li difendevano in tempo di guerra, e li nutrivano in tempo di pace. Plinio dice positivamente, che le tribù dei campi erano in onore a motivo degli uomini ond’erano composte; invece che per ignominia si trasferivano in quelle della città i codardi che si voleva avvilire. Il Sabino Appio Claudio essendo ito a stabilirsi in Roma, vi fu colmato d’onori ed inscritto in una tribù rustica, che prese poscia il nome di sua famiglia. Finalmente, i liberti entravano tutti nelle tribù urbane e non mai nelle rurali; e non vi è, in tutto il tempo della repubblica, un solo esempio, che nessuno di quei liberti sia pervenuto ad una magistratura benchè cittadino.

Una tal massima era eccellente, ma venne spinta così innanzi che ne risultò finalmente un cambiamento, e certo un abuso nella polizia.

Primieramente, i censori dopo essersi arrogato lungo tempo il diritto di trasferire arbitrariamente i cittadini da una in altra tribù, permisero alla maggior parte di farsi inscrivere in quella che più loro piacesse, permesso che di certo non era buono per niente, e distruggeva una delle gran molle della censura. Più, i grandi ed i potenti facendosi tutti inscrivere nelle tribù della campagna, e i liberti divenuti cittadini rimanendo col popolaccio in quelle della città, le tribù in generale non ebbero più nè luogo nè territorio, ma si trovarono tutte talmente confuse, che i membri di ciascuna non sì potevano più discernere se non per via dei registri; di modo che l’idea della parola tribù passò dal reale al personale, o piuttosto diventò quasi una chimera.

Avvenne ancora, che le tribù della città essendo più a tiro, trovaronsi spesso le più forti nei comizii, e vendettero lo stato a quelli, che si degnavano di comprare i suffragi della plebaglia ond’erano composte.

Riguardo alle curie, l’institutore avendone fatte dieci in ogni tribù, tutto il popolo romano allora rinchiuso nelle mura della città, si trovò composto di trenta curie, ciascuna delle quali aveva i suoi templi, i suoi dèi, i suoi uffiziali, i suoi preti e le sue feste, chiamate compitalia simili alle paganalia, proprie coll’andar del tempo delle tribù rustiche.

Nella nuova divisione di Servio, quel numero di trenta non potendo ripartirsi ugualmente nelle sue quattro tribù, ei non ci volle toccar punto; e le curie, indipendenti dalle tribù, diventarono un’altra divisione degli abitanti di Roma; ma non si trattò punto di curie nè nelle tribù rustiche nè nel popolo che le componeva, perchè le tribù essendo divenute un instituto puramente civile, ed essendo stata introdotta per la levata delle truppe un’altra polizia, le divisioni militari di Romolo trovaronsi superflue. Così quantunque ogni cittadino fosse inscritto in una tribù, era tuttavia ben lontano dall’esserlo in una curia.

Servio fece ancora una terza divisione, che non aveva nessuna relazione colle due precedenti, e diventò per i suoi effetti la più importante di tutte. Egli distribuì tutto il popolo romano in sei classi, che non distinse nè per mezzo del luogo, nè per mezzo degli uomini, ma per mezzo dei beni, di modo che le prime classi erano ripiene dai ricchi, le ultime dai poveri e le medie da quelli che godevano di una mediocre fortuna. Quelle sei classi erano suddivise in cento novanta tre altri corpi, detti centurie; e quei corpi erano talmente distribuiti, che la sola classe prima ne comprendeva più della metà, e l’ultima ne formava un solo. Per la qual cosa avvenne che la classe la men numerosa in uomini, era più numerosa in centurie, e l’ultima classe intera non era contata se non per una suddivisione, benchè essa sola contenesse più della metà degli abitanti di Roma.

Affinchè il popolo badasse meno alle conseguenze di quella ultima forma, Servio affettò di darle un aspetto militare: inserì nella seconda classe due centurie di armaiuoli, e due di strumenti da guerra nella quarta: in ogni classe, eccettuata l’ultima, distinse i giovani ed i vecchi, cioè quelli che erano obbligati a portare l’armi, e quelli che giusta le leggi erano esenti per l’età, distinzione, che più di quella dei beni produsse la necessità di ricominciare spesso il censo ossia l’enumerazione: finalmente volle, che l’assemblea si tenesse al campo di Marte, e tutti quelli che, erano in età di servire vi andassero colle loro armi.

Il motivo, per cui nella ultima classe non si fece quella medesima divisione dei giovani e dei vecchi, il motivo, dico, è, che non si concedeva alla bordaglia, ond’essa era composta, l’onore di portare le armi per la patria; bisognava avere dei focolari per ottenere il diritto di difenderli; e di quelle innumerevoli turme di miserabili, onde son piene oggidì le armate dei re, non ve ne ha forse uno, che non fosse cacciato disdegnosamente da una coorte romana, quando i soldati erano i difensori della libertà.

Nell’ultima classe si distinsero tuttavia ancora i proletarii da quelli che appellavansi capite censi. I primi non tutt’affatto ridotti al verde, davano almeno dei cittadini allo stato, e qualche volta pur dei soldati negli urgenti bisogni. Quegli poi che non avevan niente, e non potevansi enumerare se non dalle teste, erano veramente tenuti come nulli, e fu Mario il primo che si degnò di arruolarli.

Senza decidere qui se quella terza enumerazione fosse buona o cattiva in se stessa, io credo di potere affermare non esservi altro che potesse renderla praticabile se non i costumi semplici dei primi Romani, il loro disinteresse, il loro gusto per l’agricoltura, il loro sprezzo pel commercio e per la brama del guadagno. Dov’è il popolo moderno, la cui divorante avidità, lo spirito inquieto, l’intrigo, i continui rimovimenti, le perpetue rivoluzioni delle fortune lasciassero durare vent’anni un simile istituto presso di sè senza scompaginare tutto lo stato? Uopo è ancora osservar bene, che i costumi e la censura più forti di quella instituzione, ne corressero il vizio a Roma, e furon visti dei ricchi rilegati nella classe dei poveri per aver fatto troppa pompa di loro ricchezze.

Da tutto ciò si può agevolmente comprendere il perchè non si faccia quasì mai menzione se non di cinque classi, quantunque ve ne fossero realmente sei. La sesta non mandando nè soldati all’esercito nè votanti al campo di Marte5, e non essendo quasi di nessun uso nella repubblica, era di rado tenuta capace di qualche cosa.

Tali furono le varie divisioni del popolo romano. Vediamo ora l’effetto che producevano nelle assemblee. Quelle assemblee legittimamente convocate, appellavansi comizi, e tenevansi ordinariamente nel foro di Roma, od al campo di Marte, e si distinguevano in comizi per curie, in comizi per centurie, ed in comizi per tribù, secondo quella di tali tre forme nella quale venivano ordinate. I comizi per curie erano di instituzione di Romolo; quelli per centurie di Servio; quelli per tribù dei tribuni del popolo. Niuna legge non era sanzionata, nessun magistrato eletto se non nei comizi, e siccome non eravi cittadino, che non fosse inscritto in una curia, in una centuria od in una tribù, così nessun cittadino non era escluso dal diritto di suffragio, ed il popolo romano era veramente sovrano di diritto e di fatto.

Affinchè i comizi fossero legalmente ragunati, e ciò che vi si deliberava avesse forza di legge, ci volevano tre condizioni: la prima, che il corpo od il magistrato che li convocava, fosse rivestito dell’autorità necessaria a ciò; la seconda che l’assemblea si tenesse in uno dei giorni permessi dalla legge; la terza, che gli auguri fossero favorevoli.

La ragione del primo regolamento non ha d’uopo di spiegazione; il secondo era un affare di polizia: così non era permesso di tenere i comizi in giorni di feria e di mercato, in cui la gente di campagna venendo a Roma per le sue bisogna, non aveva il tempo di passare la giornata nella pubblica piazza. Per mezzo del terzo regolamento, il senato teneva in freno un popolo fiero e turbolento, e temperava a proposito l’ardore dei tribuni sediziosi; ma questi trovarono più d’un modo di sbrigarsi di quest’incomodo.

Le leggi e l’elezione dei capi non erano i soli argomenti che si sottoponessero al giudizio dei comizi: il popolo romano avendo usurpato i più importanti uffizi del governo, si può dire che le sorti dell’Europa si regolavano in quelle assemblee. Una tale varietà d’oggetti dava luogo alle diverse forme, che assumevano quelle assemblee, secondo le materie intorno alle quali ei dovea pronunciare.

Per giudicare di quelle diverse forme, basta farne il parallelo. Romolo instituiva le curie coll’intenzione di contenere il senato per mezzo del popolo ed il popolo per mezzo del senato, dominando ugualmente su tutti. Per mezzo di questa forma ei diede adunque al popolo tutta l’autorità del numero per bilanciare quella del potere e delle ricchezze lasciata ai patrizi. Ma, secondo lo spirito della monarchia, lasciò tuttavia maggior vantaggio ai patrizi per via dell’influenza dei loro clienti sulla pluralità dei suffragi. Quella mirabile instituzione dei patroni e dei clienti fu un capo-lavoro di politica e di umanità, senza cui il patriziato, così contrario allo spirito della repubblica, non avrebbe potuto sussistere. Roma soltanto ebbe l’onore di dare al mondo quel bello esempio, dal quale non seguì mai un abuso, e ciò nondimeno non venne mai imitato.

Quella medesima forma delle curie avendo durato sotto i re fino a Servio, ed il regno dell’ultimo Tarquinio non essendo tenuto per legittimo, le leggi regie furono generalmente distinte col nome di leges curiatæ.

Sotto la repubblica, le curie che si limitavano sempre alle quattro tribù urbane, e non contenevano se non il popolaccio di Roma, non potevano convenire nè al senato, che era alla testa dei patrizi, nè ai tribuni, i quali quantunque plebei, erano alla testa dei cittadini agiati. Caddero dunque in discredito, e tale fu il loro avvilimento, che i loro trenta littori raunati facevano quello che avrebbono dovuto fare i comizi per curie,

La divisione per centurie era così favorevole alla aristocrazia, che non si capisce a primo aspetto, come il senato non la vincesse sempre nei comizi per centurie, dai quali erano eletti i consoli, i censori, e gli altri magistrati curuli. Infatti, di cento novantatre centurie ond’erano formate le sei classi di tutto il popolo romano, la prima classe contenendone novantotto, e le voci non contandosi sè non per centuria, quella sola prima classe in numero di voci superava tutte le altre. Quando tutte quelle centurie andavano d’accordo, non si continnava nemmeno a raccogliere i suffragi; ciò che aveva deciso il più piccolo numero passava per una decisione della moltitudine; e si può dire, che nei comizi per centurie, gli affari si regolavano alla pluralità degli scudi assai più che a quella delle voci.

Ma quella estrema autorità in due modi temperavasi: primieramente, trovandosi per l’ordinario nella classe dei ricchi i tribuni, e sempre un gran numero di plebei, faceano contrappeso al credito dei patrizi in quella prima classe.

Secondariamente, invece di far subito votare le centurie secondo il loro ordine, per cui si sarebbe sempre incominciato dalla prima, se ne traeva una a sorte, e questa6 procedeva sola all’elezione; dopo ciò, tutte le centurie chiamate un altro giorno secondo il loro ordine, ripetevano la medesima elezione, e ordinariamente la confermavano. Così toglievasi l’autorità dell’esempio all’ordine per darla alla sorte secondo il principio della democrazia.

Da codesto uso nasceva ancora un altro vantaggio; i cittadini cioè della campagna avevano il tempo, infra le due elezioni, di informarsi del merito del candidato provvisoriamente nominato per non dare il loro voto se non con conoscenza di causa. Ma sotto pretesto di celerità si venne a capo d’abolire una tale usanza, e le due elezioni si fecero nello stesso giorno.

I comizi per tribù erano propriamente il consiglio del popolo romano. Venivano convocati soltanto dai tribuni, ed in quelli i tribuni si eleggevano, e passavano i loro plebisciti. Non solamente il senato non ci aveva posto, ma non aveva nemmeno il diritto di assistervi: e i senatori costretti ad ubbidire a leggi, intorno alle quali non avevano votato, in tale circostanza erano men liberi degli ultimi cittadini. Una tale ingiustizia era malissimo intesa, e bastava essa sola per invalidare i decreti di un corpo, in cui tutti i suoi membri non erano ammessi. Quando tutti i patrizi avessero assistito a quei comizi secondo il loro diritto quai cittadini, divenuti allora semplici particolari non avrebbero guari influito sovra una forma di suffragi, che raccoglievansi per testa, ed in cui l’infimo proletario poteva al pari del principe del senato.

Si vede dunque, che oltre all’ordine derivante da quelle diverse distribuzioni pel raccoglimento dei suffragi di un sì gran popolo, quelle distribuzioni non riducevansi a forme indifferenti in se stesse, ma ciascuna di esse conteneva degli effetti relativi alle intenzioni, per cui veniva preferta.

Senza entrare intorno al fin quì detto in più lunghe circostanze, appare dai precedlenti schiarimenti, che i comizi per tribù erano i più favorevoli al governo popolare, ed i comizi per centurie alla aristocrazia. Riguardo ai comizi per curie, in cui la sola plebaglia di Roma formava la maggioranza, siccome quelli non giovavano ad altro fuorchè a favoreggiare la tirannide ed i malvagi disegni, dovettero cadere in disgrazia, astenendosi i medesimi sediziosi dal calcare una via che troppo in chiaro metteva i loro disegni. Egli è certo, che tutta la maestà del popolo romano non appariva se non nei comizi per centurie, i quali soli erano pieni, poichè nei comizi per curie mancavano le tribù rustiche, e nei comizi per tribù mancavano il senato ed i patrizi.

Il modo di raccogliere i suffragi era presso i primi Romani semplice al par dei loro costumi, quantunque meno semplice ancora che in Isparta. Ciascuno dava il suo suffragio a voce alta, ed un cancelliere lo scriveva a mano a mano che si pronunciava: la maggioranza delle voci in ogni tribù determinava il suffragio della tribù: la maggioranza delle voci infra le tribù determinava il suffragio del popolo, e così dicasi delle curie e delle centurie. Questa usanza era buona fintantochè regnava fra i cittadini l’onestà, e ognuno vergognavasi di dare pubblicamente il suo suffragio ad un avviso ingiusto o ad un suddito indegno; ma quando il popolo si corruppe, e si comprarono i voti, convenne darli in segreto onde frenare i compratori per mezzo della diffidenza, e fornire ai bricconi il modo di non diventar traditori.

To so che Cicerone biasima un tale cambiamento, e gli attribuisce in parte la ruina della repubblica. Ma per quanto grave sia in questa cosa l’autorità di Cicerone, io non partecipo del suo avviso; penso invece, che si avacciò la perdita dello stato per non aver fatto abbastanza di simili cambiamenti. Siccome il regime delle persone sane non si addice agli infermi, così non bisogna voler governare un popolo corrotto colle medesime leggi, che convengono al un popolo buono. Non evvi niente, che provi meglio una tal massima, quanto la durata della repubblica di Venezia della quale esiste ancora il simulacro, unicamente perchè le sue leggi non convengono se non ad uomini cattivi.

Si distribuirono adunque ai cittadini delle polizze, per mezzo delle quali ciascuno poteva votare senza che si sapesse qual fosse il suo avviso: si stabilirono pure nuove formalità per raccogliere le polizze, per contare i voti, per comparare i numeri ecc.: il che non tolse tuttavia, che non fosse sovente sospetta la fedeltà degli uffiziali incaricati di quell’uffizio7. Finalmente per impedire i brogli ed il traffico dei suffragi, si emanarono degli editti, la cui inutilità si chiarisce dal loro gran numero.

Verso gli ultimi tempi era spesso necessario di ricorrere a straordinari rimedi per supplire alla insufficienza delle leggi: ora si supponevano prodigi; ma questi che potevano imporne al popolo, non ne imponevano a quegli che lo governavano: ora si convocava bruscamente una assemblea prima che i candidati avessero avuto il tempo di fare i loro brogli, ed ora spendevasi una intiera tornata a parlare quando vedevasi il popolo guadagnato pronto a pigliare un cattivo partito. Ma finalmente l’ambizione eluse tutto: è cosa incredibile, fra tanti abusi quel popolo immenso, mercè i suoi antichi regolamenti, non tralasciava di eleggere i magistrati, di passare le leggi, di giudicare le cause, di sbrigare gli affari particolari e pubblici quasi con una facilità pari a quella del senato medesimo.

Note

  1. Il nome di Roma, che si vuole far derivare da Romolo, è parola greca che significa forza; greco pure è il nome di Numa che significa legge. Quale probabilità che i due primi re di quella città abbiano potuto anticipatamente nomi sì ben relativi a ciò che hanno fatto?
  2. Ramnenses.
  3. Tatienses.
  4. Luceres.
  5. Io dico al campo di Marte, perchè quivi si ragunavanoi comizi per centurie: nelle altre due forme il popolo conveniva nel foro od altrove; ed allora i capite censi avevano influenza ed autorità al pari dei primi cittadini.
  6. Quella centuria tratta a sorte chiamavasi prerogativa, a motivo che era la prima, cui si domandasse il suffragio; e da questa cosa derivò la parola prerogativa.
  7. Custodes, diribitores, rogatores suffragiorum.

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