< Il contratto sociale < Libro quarto
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Jean-Jacques Rousseau - Il contratto sociale (1762)
Traduzione dal francese di anonimo (1850)
Libro quarto - Cap. VII
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Cap. VII

Della censura.

Siccome la dichiarazione della volontà generale si fa per mezzo della legge, così la dichiarazione del pubblico giudizio si fa dalla censura. L’opinione pubblica è la specie di legge, di cui il censore è il ministro, e la quale applica ai casi particolari ad esempio del principe.

Ben lungi adunque dall’esser l’arbitro della opinione del popolo, il tribunale della censura non ne è se non il dichiaratore: e non appena ci devia da ciò, che le sue decisioni sono irrite e nulle.

È inutile distinguere i costumi di una nazione dagli oggetti di sua stima; perchè tutto ciò si attiene al medesimo principio e necessariamente si confonde. Presso tutti i popoli del mondo, non è la natura ma l’opinione, che decide della scelta dei loro piaceri. Raddrizzate le opinioni degli uomini, e i loro costumi si appureranno di per sè. Si ama sempre ciò che è bello, o ciò che tale si crede; ma intorno a questo giudizio si cade in inganno: si tratta dunque di dare una norma a quel giudizio. Chi giudica dei costumi, giudica dell’onore, e chi giudica dell’onore piglia le sue norme dall’opinione.

Le opinioni di un popolo nascono dalla sua costituzione. Quantunque la legge non regoli i costumi, la legislazione li fa nascere: quando la legislazione si indebolisce, i costumi degenerano: ma allora il giudizio dei censori non farà quello, che non ottenne la forza delle leggi.

Quindi ne viene, che la censura può esser utile per conservare i costumi, non mai per rassettarli. Stabilite dei censori durante il vigore delle leggi: non appena lo avranno perduto, tutto è disperato, niuna cosa legittima non avrà più forza, quando non valgono più le leggi.

La censura mantiene i costumi coll’impedire che le opinioni non si corrompano, serbandone la giustezza per mezzo di savie applicazioni, e talvolta pur rassodandole quando sono ancora incerte. L’usanza dei compagni nei duelli, portata fino al furore nel regno di Francia, vi fu abolita per quelle sole parole di un editto del re: «Riguardo a quegli che hanno la viltà di chiamare dei compagni». Quel giudizio prevenendo il giudizio del pubblico, lo determinò tutto ad un tratto. Ma quando i medesimi editti vollero pronunciare essere pure una vigliaccheria il battersi in duello, il che è verissimo, ma contrario alla opinione comune, il pubblico rise di una tale decisione, intorno alla quale aveva già formato il suo giudizio.

Dissi altrove1, che l’opinion pubblica non essendo sottomessa alla violenza, non ve ne doveva essere neppur l’ombra nel tribunale stabilito per rappresentarla. Non si può ammirare abbastanza l’arte, con cui quella molla del tutto perduta presso i moderni, era posta in azione presso i Romani, e meglio ancora presso i Lacedemoni.

Un uomo di cattivi costumi avendo messo fuori un buon parere nel consiglio di Sparta, gli Eforì senza tenerne conto fecero proporre il medesimo avviso da un cittadino virtuoso. Quale onore per l’uno, quale vergogna per l’altro senza aver dato nè lode nè biasimo a niuno dei due! Certi ubbriachi di Samos2 insudiciarono il tribunale degli Efori: all’indomani con pubblico editto fu permesso a quei di Samo d’essere villani. Un vero gastigo sarebbe stato men severo di una simile impunità. Quando Sparta ha pronunciato intorno a ciò che è o non onesto, la Grecia non si appella da’suoi giudizi.

  1. In questo capitolo altro non fo, che indicare ciò che trattai più a lungo nella lettera al signor D’Alembert.
  2. Erano di un’altra isola, che la delicatezza di nostra lingua non permette di nominare in questa occasione.
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