< Il diavolo
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Capitolo XII.


LE DISFATTE DEL DIAVOLO.




Satana aveva, come s’è veduto, numerosi fautori; ma aveva anche numerosi avversarii: quelli in inferno e sulla terra, questi sulla terra e nel cielo. Fautori suoi erano tutti gli altri demonii, e tutti gli uomini malvagi, specialmente gli eretici e gli stregoni; avversarii, tutti gli uomini buoni, e in più particolar modo i santi, vivi e morti, e gli ecclesiastici, in grazia, se non di loro virtù, di loro ministerio; poi i varii ordini degli angeli, la Vergine Maria, Dio Signore. Dio, come nel tempo della prima ribellione, poca parte prendeva alla lotta, aspettando la pienezza dei tempi e il termine fatale segnato alla diabolica tracotanza: contro l’indegno nemico egli lasciava combattere la madre sua, i suoi santi, tutte le celesti milizie, e gli uomini cui non veniva meno la sua grazia e l’ajuto di Santa Chiesa. Ed era battaglia cotidiana, perpetuamente rinnovata, giacchè, vinto appena, Satana risorgeva, e cacciato da una parte, ricompariva da un’altra. Qualche volta ancora Satana diventava, di vinto, vincitore.

Vediamo prima quali vittorie riportassero sul grande avversario gli uomini d’ossa e di polpe, e vedrem poi quali vittorie riportassero su di lui gli abitatori del cielo.


Il cristiano, che per la salvezza dell’anima propria pugnava contro Satana, non mancava di armi, acconce di offesa e di difesa, quali si richiedevano a così terribil combattimento; ed erano armi parte spirituali, parte materiali. Egli aveva anzi tutto il sussidio della divina grazia, senza di cui non era speranza di salute; poi aveva la fede e la virtù, dietro a cui si riparava come dietro alle mura di una rocca ben munita e forte. Le pratiche religiose cui egli diligentemente attendeva, la preghiera, la frequentazione dei sacramenti, i digiuni, le prolungate vigilie, erano come tante fazioni di guerra, atte a tener lontano il nemico, o a fargli perdere novamente terreno, se mai si fosse già troppo inoltrato. Arme formidabile, sempre pronta al bisogno, e di facile uso, era il segno della croce, non meno buona per l’offesa che per la difesa. Innumerevoli diavoli ebbero a confessare di propria bocca che non era loro possibile resistere alla virtù del sacratissimo segno, il quale li empieva di confusione e di sgomento. Col segno della croce, non solamente si cacciavano i demonii, ma si estinguevano incendii, si sedavan procelle, si guarivano infermi, si ammansavano animali inferociti, e molte altre cose difficili si facevano. Grande efficacia pure avevano i nomi di Dio Padre, di Gesù, della Vergine Maria, invocati con fervore di fede, e gettati come una sfida in volto ai dannati. Poi veniva l’acqua benedetta, più cocente alle cervici e alle terga scellerate che non la pece bollente e il piombo fuso delle caldaje infernali. Le campane, che empievano l’aria di lor voce squillante, invitando i fedeli alle cerimonie del culto, alla meditazione, alla preghiera, annunziando le feste piene di grazia, mettevano in rotta i demonii tutto all’intorno, dissipavano le procelle da questi suscitate assai volte, e producevano altri mirabili effetti; onde l’inno della campana:

Laudo Deum verum,
     Plebem voco,
     Congrego clerum.
Defunctos ploro,
     Pestem fugo,
     Festa decoro.
Funera plango,
     Fulgura frango
     Sabbata pango.
Excito lentos,
     Dissipo ventos,
     Paco cruentos;

e in fine, talvolta, il terribile verso:

Est mea cunctorum terror vox dæmoniorum.

Le reliquie dei santi che avevano trionfato di tutti gli assalti e di tutte le insidie di Satana, ajutavano altri infiniti a conseguire consimili trionfi, e lo stesso dicasi di certi brevi benedetti, da portare appesi al collo, o cuciti nei panni, e di certi amuleti. Nè mancavano cose puramente naturali, le quali erano contrarie e nocive ai diavoli; tali alcune gemme, come il crisolito e l’agata, che li volgevano in fuga, e il zaffiro, che riconciliava con Dio; tali certe piante, come l’aglio e la ruta, e un’erba detta dai francesi permanable, che aveva virtù d’incantare i demonii. Il sale era una delle cose di cui questi si mostravano più paurosi. Il gallo era, come già s’è notato, un loro grande avversario, e con la mattutina sua strombettata, foriera del giorno, li forzava (ma non tutti) a nascondersi. Finalmente, in certi casi, il cristiano poteva anche usare felicemente, come vedremo, delle sue braccia e di un buon bastone. Chi poi era caduto in signoria del nemico poteva, con penitenze più o meno aspre e lunghe, riscattarsi e mettersi sotto i piedi il tristo padrone.

Tuttavia è da dire che quelle armi e quei ripari non sempre giovavano, come per chiari esempii si può vedere nelle vite di molti santi, non pur dei minori e dei mezzani, ma degli eccellentissimi. Accadde assai volte, qual che ne fosse la cagione, che i diavoli sfacciati e protervi, ripeterono parola per parola, con ischerno, le sante orazioni con cui altri s’ingegnava di tenerli in rispetto, e i salmi stessi del libro sacro; che ghignarono atrocemente alla vista di quella croce a cui di solito volgevano, fuggendo, le spalle; che trescarono tripudiando sotto l’aspersorio, e che tanto più gli assalti loro diventarono rabbiosi e frequenti, quanto maggiori furono le difese.


I santi erano, tra gli uomini, i più terribili avversarii di Satana, quelli che combattevano senza riposo contro di lui, sia per difendere sè medesimi, sia per difendere gli altri, e porre argine al suo mal fare. Molte insidie e infinite noje essi dovevano soffrire da lui; ma spesso se ne ricattavano con usura, e quanto più aspra e lunga era stata la battaglia, tanto più glorioso e pieno era il trionfo. Si potrebbe riempire un libro con la storia autentica degli sfregi, delle strane burle e delle sante correzioni che Satana e gli spiriti suoi ebbero da buoni servi di Dio, così dell’uno come dell’altro sesso, da anacoreti con tanto di barba bianca, e da pie vergini uscite appena di fanciullezza.

Sant’Antonio, primo eremita, che aveva pazientemente sopportato dai diavoli mille dispetti, e persino fierissime battiture, un giorno, per far intendere ad uno di quei suoi nemici quanto poco conto facesse di lui e delle sue capestrerie, gli sputò nel viso, e quegli, tutto smarrito, se la svignò. Ora è da dire che lo sputo dei santi poteva avere qualità che non ha lo sputo degli uomini ordinarii: tanto è vero, che il vescovo Donato, ai tempi di Arcadio e di Onorio, uccise uno smisurato e spaventoso drago con solo sputargli in bocca.

Abbiam veduto quanta virtù fosse nel segno della croce. Con un segno di croce san Sulpizio e san Frodoberto, essendo ancora fanciulli, cacciavano via il diavolo che voleva impedir loro di recarsi alla scuola. Usando di quella medesima arme, altri uomini santi ottennero effetti anche più meravigliosi. Narra Pietro il Venerabile che essendosi un diavolo introdotto nell’abbazia di Cluny, col proposito di tentarvi non so che monaco, il priore, che era uomo di grande avvedutezza e di non minor santità, con un segno di croce, senz’altro apparecchio, lo cacciò nelle latrine.

Nessuno si meravigli se san Sulpizio e san Frodoberto si schermivano così bene dal diavolo, anzi lo volgevano in fuga, essendo ancora fanciulli. Come molte volte era precoce la santità, così erano precoci certe facoltà e potestà conferite per essa. San Pacomio abate fu, sino dagli anni più teneri, un grandissimo ed implacabile avversario del diavolo; san Vittore d’Archiaco incuteva terrore ai demonii essendo ancora nel ventre di sua madre. Nè questo è maggior miracolo di quello che operavano le immagini di sant’Ignazio Lojola di fausta memoria, le quali, così dipinte o scolpite com’erano, facevano levar le calcagna ai più petulanti e temerarii fra gli spiriti maledetti.

Molti santi legarono il diavolo, quali con catene, quali con un semplice filo. San Silvestro papa, quel medesimo che, secondo le più autentiche storie, guarì l’imperator Costantino dalla lebbra, e n’ebbe in premio Roma e tutto l’impero d’Occidente, san Silvestro acchiappò in una profonda caverna il diavolo, che aveva presa la forma di un drago, lo legò con un filo, e gli suggellò con un segno di croce la bocca. In Ibernia, il santo abate Munna lo legò con una catena infocata. Altri santi non vollero prendersi cotal briga, o non ci pensarono, e adoperarono in altro modo.

Sant’Apollonio, abate in Tebaide, colse un giorno il demonio della superbia sotto le sembianze di un piccolo etiope e lo seppellì nell’arena. San Contesto, venutogli a tiro una volta non so che demonio, il quale sotto forma di gigante lo sollecitava a lussuria, gli gettò attorno al collo la propria stola, e lo menò in giro, come un cane, per tutta la città. Sant’Illidio ne forzò uno a trasportare due colonne da Treviri nell’Alvernia; san Procopio di Praga forzava parecchi a menar l’aratro sui sassi. Il beato Notchero Balbulo, entrato una notte in chiesa, vi trovò il diavolo sotto forma di cane: gli ordinò di aspettarlo, e tolto un buon bastone, ch’era stato già di san Colombano, glielo ruppe addosso. San Dunstano, abate di Glastonbury, lo trattò anche peggio. Il degno uomo stava un giorno lavorando nella sua fucina da fabbro ferrajo, com’era solito fare nell’ore disoccupate, quand’ecco gli si presenta il diavolo tentatore in figura di bella e giovane donna. Il santo finge di non riconoscerlo, e s’intrattiene famigliarmente con lui, aspettando che un par di tanaglie, messe sui carboni, sieno arroventate a dovere. Vedutele com’ei le vuole, colto il momento opportuno, le afferra, le brandisce, e con mirabile destrezza attanaglia il naso del malcapitato, traendo e dimenando con tanto furore, che quegli per l’angoscia, s’avvolge come una trottola, mugghia come un bufalo, e, appena può, sguizza via come una saetta. San Domenico fu alquanto più umano. Stando una notte il santo a studiare, eccoti il diavolo venirgli intorno e dargli briga. Il santo non si turba nè si spazienta; ma presa la candela al cui lume leggeva, la pone in mano al demonio, ordinandogli di tenerla ben ferma, poi come se nulla fosse, si rimette a leggere. Il diavolo è forzato d’obbedire; la candela arde, si consuma, ed egli si brucia tutte le dita. Questo stesso giuoco si dice gli abbiano fatto anche sant’Antonio e san Bernardo. In un caso presso a poco simile, Lutero si contentò di gettargli in capo il calamajo; ma Lutero non era un santo; anzi era, dicono, suo figliuolo. I santi non avevano da usar riguardi. San Bernardo di Chiaravalle viaggiava una volta con un carro. Viene il diavolo e gli fracassa una ruota. Tanto peggio per lui: il santo gli ordina di trasformarsi in ruota, e di far l’officio di quella fracassata.

Spesse volte i diavoli, quando hanno da fare coi santi, si lasciano cogliere nei lor proprii tranelli. Certo giorno, uno di essi fa venire una grandissima sete a san Lupo che appunto stava in orazione. Il santo si fa recare un bel vaso d’acqua fresca, e il diavolo subito ci si caccia dentro, con la fondata speranza di potergli così entrare in corpo; ma quegli, placidamente, pone sul vaso il guanciale del letto, e tien prigione il presuntuoso sino alla mattina seguente. Altri santi fecero ai loro nemici questo brutto scherzo di chiuderli, e per più lungo tempo. San Conone Isaurico chiudeva i diavoli in vasi suggellati, e li poneva nelle fondamenta della sua casa. Maestro di tutti costoro era stato Salomone, del quale si narrava che avesse rinchiuso in un vaso di rame non so quante legioni di diavoli, e sprofondato poi il vaso in una palude presso Babilonia. I diavoli vi sarebbero ancora, se gl’ingordi babilonesi non avessero ripescato e aperto in mal punto il vaso, credendo che il più savio dei re ci avesse nascosto un tesoro. E che dovrei dire di san Chiuppillo, un santo che non si trova registrato nel calendario, ma che i napoletani conoscono assai bene, e ricordano spesso? Nessun altro santo s’avvisò, ch’io sappia, di fare all’arrogante diavolo tentatore lo scherzo che san Chiuppillo gli fece, e di dirgli le assennate parole ch’egli per ammonimento gli disse. Se io ne taccio, gli è per non divulgar troppo la vergogna del maledetto.

Le sante non si mostrarono da meno dei santi nel dare al diavolo quel che si meritava. Un pajo d’esempii può bastare a provarlo. Santa Giuliana non aveva voluto accettar per isposo Eulogio, prefetto di Nicomedia, perchè adoratore degl’idoli. Il prefetto, avendola invano pregata e ammonita, perduta la pazienza, la fece prima battere con le verghe, poi ordinò che fosse appesa pei capelli, e che le si versasse in capo piombo liquefatto. Non potendole nuocere in modo alcuno, la fece caricar di catene e gettare in un carcere. Nel carcere appare alla vergine il diavolo, in figura di angelo, che le dice: “O Giuliana, io sono l’angelo di Dio, il quale a te mi manda perchè tu ti risolva di adorare gl’idoli, e non voglia morire di così mala morte.„ Ma Giuliana volge una fervida preghiera al cielo, e lo stesso demonio è costretto a scoprirsi. Allora la valorosa fanciulla, per insegnargli a non più tentare le sante vergini, gli lega le mani dietro la schiena, lo getta a terra, e senza punto commuoversi alle sue grida, con quella stessa catena che avvinceva lei, lo flagella ben bene. Il prefetto ordina che Giuliana sia tratta di carcere e sottoposta a nuovi tormenti: ella esce, tirandosi dietro il suo nemico. Questi si duole e si raccomanda: “O Giuliana, non mi rendere a questo modo ridicolo, perchè io non potrò più tentar cosa alcuna contro nessuno. Si dice pure che i cristiani sono misericordiosi; perchè non hai tu misericordia di me?„ Ma Giuliana non gli bada, lo mena in trionfo per tutto il foro, e lo getta da ultimo in una latrina. Quel forsennato del prefetto ha veduto ogni cosa e non se ne dà per inteso. Ordina che la fanciulla sia lacerata sulla ruota; ma un angelo spezza la ruota e la fanciulla torna più sana di prima. Infiniti spettatori di tanto miracolo si convertono alla fede di Cristo, e lì per lì sono decapitati cinquecento maschi e centotrenta femmine. Il prefetto fa immergere Giuliana in una caldaja piena di piombo fuso. Tornata vana anche questa prova, comanda che sia senz’altro decollata. In quel punto ricomparisce il demonio in figura di giovane, e aizza i carnefici, ricordando le offese fatte agli dei e a lui; ma Giuliana con solo aprire alquanto gli occhi lo volge in fuga. Da ultimo ella consegue la palma del martirio. Un’altra Giuliana, priora di Monte Cornelio, quando il demonio le dava troppa noja, se lo cacciava sotto ai piedi, e lo pigiava come si fa dell’uva nel tino.

Più poetico, se non più mirabile, è il caso di una santa Gertrude, non so quale delle parecchie ch’ebbero tal nome.

Qui il diavolo non è picchiato, nè legato; ma ciò ch’ei fa prova quanto potesse sopra di lui la santa. Un cavaliere s’era perdutamente innamorato della bellissima vergine, la quale, aliena da ogni amore mondano, non d’altre nozze bramosa che di quelle eterne con lo sposo celeste, s’era chiusa in un chiostro, e viveva di contemplazione e di preghiera. Non potendo altro fare, il gentil cavaliere dona tutto il suo all’ordine cui s’era ascritta Gertrude, e in ispazio di tre anni si riduce in povertà. Doglioso, non di questo, ma di non potere più oltre spendere a onore della sua dolce amica, egli va errando per la campagna, e una notte s’imbatte nel diavolo, che gli promette di farlo assai più ricco di prima, quand’egli, passati sette anni, s’impegni di dargli l’anima. Accetta l’innamorato, scrive col proprio sangue la obbligazione, e, divenuto più ricco di prima, spende e spande a onor della sua dama. Gli anni passano intanto, giunge il termine stabilito. Il cavaliere va ad accommiatarsi dalla fanciulla e le lascia intendere qual sorte l’aspetti; poi, bevuto un bicchier di vino che quella gli porge, monta a cavallo, e da uomo leale, a mezzanotte, si reca al luogo dove il terribile creditore gli diede la posta. Ma il demonio, al vederlo, è preso da gran turbamento, e restituisce, senza nulla chiedere, la scrittura: egli aveva scorta, seduta in groppa, dietro al cavaliere, la vergine Gertrude, venuta a soccorrere il suo innamorato.

Più d’una volta la naturale inimicizia che era tra diavoli e santi produsse vere sfide e veri duelli e lotte a corpo a corpo. San Vulstano se ne stava un giorno in chiesa, a pregare dinanzi all’altare. Capita quel mal consigliato del diavolo, e lo invita a lottare insieme. Il santo accetta, lo avvinghia, lo butta in terra e lo concia pel dì delle feste. Sant’Andrea di Scizia ebbe una volta una curiosa visione. Gli pareva d’essere in un circo, e che da una parte fosse una moltitudine di etiopi, cioè di diavoli, dall’altra una moltitudine d’uomini in vesti candide, cioè di cristiani. Gli etiopi discorrevano fra loro di corsa e di lotta, e sembravano pendere dal cenno di uno smisurato moro, che tutti gli avanzava in forza e statura. Dubitavano i candidi chi potesse affrontarsi con costui. Andrea lo affronta e lo vince. I candidi fanno risonare il circo di applausi, e un angelo reca in premio al vincitore tre corone. Parecchi narrano la storia di un lombardo, uomo devoto, e fornito di buone braccia, il quale desiderava ardentemente di potersi misurare col diavolo, e pregava Dio gliene facesse la grazia. Un giorno, trovandosi egli in Ispagna, ai tempi di san Vincenzo Ferrer, gli capita innanzi, in un campo, una povera vecchia, incartapecorita e sgangherata: egli crede sia il diavolo, e senza domandar altro, le salta addosso e la finisce di busse.

Chi volesse dire tutto il bene che i santi fecero, mentr’erano ancora in questo basso mondo impedendo ai diavoli di far male, avrebbe da dire per un pezzo. Infinite volte essi li forzarono a dire ciò che più quelli avrebbero voluto tacere, a confessare ogni loro secreto e ogni loro proposito, le birbonate commesse e quelle da commettere. Molti santi riconoscevano il nemico sotto qualsiasi forma gli piacesse nascondersi; altri lo sentivano all’odore come il bracco la preda. Da tutto ciò grandissimo giovamento doveva venire alla buona causa, e s’intende assai bene come possa esser vero ciò che i biografi più avveduti affermano, cioè che in pieno secolo XV il solo che impedisse ai diavoli di mandare a soqquadro e in rovina questa sciagurata Italia fosse san Francesco da Paola.


L’uomo, anche non santo, poteva, usando armi acconce, vincere il diavolo quando questi assaliva di fuori; ma se il diavolo, simile ad un nemico che per occulte vie penetri in una fortezza, gli era entrato in corpo, il vincerlo diveniva assai più malagevole, e di solito, per forzarlo a sgombrare, era necessario, come abbiam veduto, l’altrui soccorso. Tommaso Cantipratense ricorda, gli è vero, il caso di un chierico indemoniato, il quale si liberò da sè, bruciando un eretico; ma queste erano, eccezioni. Anche ammessa l’efficacia del rimedio, non sempre l’indemoniato aveva sotto mano un eretico da bruciare; e poi gli eretici li bruciavano gl’inquisitori, gelosissimi delle prerogative del loro mestiere. Di regola l’indemoniato era un uomo posto fuori di combattimento, e la battaglia si combatteva, non tra il demonio e lui, ma tra il demonio e un campione più o meno agguerrito, il quale, per di fuori, usava, con varia fortuna, varie arti di guerra. A rigor di termine l’indemoniato era un castello, entro a cui il diavolo, o i diavoli, si riparavano dagli assalitori, e spesso vittoriosamente li respingevano.

Molti erano i modi usati a cacciare i demonii, e la loro efficacia dipendeva, in parte, dalla qualità lor propria, in parte dalla qualità di coloro che li adoperavano. Gran differenza era, per questo rispetto, dall’umile esorcista, il quale non aveva altro che il suo carattere ecclesiastico, al santo miracoloso, uso ad appender la cappa a un raggio di sole, o a mutar l’acqua in vino. Dove quegli non vinceva se non dopo lunghe e faticose pratiche, correndo talvolta il pericolo d’essere invaso da quello stesso demonio onde liberava altrui, il santo vinceva con una parola, un gesto, uno sguardo. L’esorcismo era una operazione lunga e intricata, o semplicissima e breve, secondo i casi. Poteva richiedere preghiere insistenti, formule rituali, digiuni e altre macerazioni, candele accese, suffumigi, ecc.; ma poteva anche far di meno di tutte queste cose. Bisogna poi dire che non tutti i diavoli erano di una natura o di un umore; e come ce n’eran di quelli che voltavan le spalle alle prime avvisaglie, anzi al primo rumore di guerra, così ce n’erano altri, i quali facevano difesa disperata, e che bisognava cavar di corpo agl’indemoniati come si trae il chiodo dall’asse, con le tenaglie. Molti indemoniati rimasero liberi con solo toccare le reliquie di un santo famoso, o bevendo un po’ d’acqua in cui era stato infuso un pizzico di polvere grattata via dal sepolcro di un santo famoso; parecchi furono guariti, o vogliam dire riscattati, con l’acqua che aveva servito a lavare i santissimi zoccoli di sant’Elia Speleota. Esorcizzati da santi, i diavoli solevano dare qualche segno sensibile di loro confusione e di loro sgomento. Un diavolo esorcizzato da sant’Apro, uscì dal primo uscio che gli venne innanzi, rumorosamente, e, dice il fedele biografo, con grande flusso di ventre. Degna fuga di così laido nemico.

Erasmo da Rotterdam, in quello de’ suoi Colloquii che s’intitola Exorcismus sive Spectrum, si burla allegramente di tutte le formole, di tutti i riti e di tutti gli anfanamenti degli esorcisti; ma si sa che la sua ortodossia non fu troppo sicura, e i suoi scherni non tolsero a un cappuccino mantovano di comporre, verso la fine del secolo XVI, un libro latino, il cui titolo, recato in italiano, suona così: Flagello dei demonii, contenente esorcismi terribili, potentissimi ed efficaci, e provatissimi rimedii, atti a espellere di corpo agl’indemoniati i maligni spiriti e ogni sorta di maleficii, con le sue benedizioni e tutte l’altre cose che a detta espulsione si richieggono. Non dimentichiamo che tra i rimedii provatissimi era anche il bastone, e che più di un energumeno, bastonato ben bene da qualche santo nerboruto, fu veduto raumiliarsi come per miracolo, e guarire senza bisogno d’altro esorcismo.

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