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CAPITOLO XXVI.
Continua.
La Fenice dei delatori, il figlio prediletto della Prefettura di Polizia, uomo di mezzana statura, elegantemente vestito, di pallido aspetto, di una trentina d’anni, viene introdotto. Un viso lungo, lievemente vajuolato; un pajo di occhietti senza espressione, che par non guardino in nessun sito; una fronte bassa e stretta, lo fanno tutt’altro che attraente allo sguardo. Vien dentro con aria di innocenza affettata e di timidità, che fanno grande onore al suo talento d’attore. Incontrastabilmente Iervolino è, fra i suoi degni socii di infamia e degradazione, quello che meglio si guadagna il magro salario di dodici ducati, circa cinquanta franchi al mese, assegnatogli dalla Polizia. Diverso da Gennaro, o Marotta, i quali declamano le loro calunnie, Iervolino le lascia stillar dalle labbra con modestia, esitando, quasi uno che si rammenti difficilmente; ma rimesso tosto nel retto sentiero da un aggrottar di ciglia, o da una parola del Presidente, tira innanzi freddamente, metodicamente, con decisione e fluidità.
Egli depone che, essendo in gran bisogno e senza lavoro, nè l’orefice che l’impiegava abitualmente avendo a dargliene, si recò un giorno dal baron Poerio, allora Ministro della Corona, per cercar di avere da lui quel ch’egli chiama un pane sicuro. A dispetto delle promesse fattegli, vedendo che non gli veniva dato nessun ufficio, ne concluse che ciò proveniva dal non essere affigliato a veruna setta, e per ciò fece istanze al Poerio di arruolarlo nella setta alla quale Poerio apparteneva. Il Ministro ricevette con piacere la sua istanza, e con Atanasio, un amico di Poerio, lo mandò a Nisco; il quale, alla sua volta lo diresse a Pacifico, in un caffè situato vicino a Santa Brigida. Pacifico introdusse Iervolino in casa d’una persona che chiamavasi D’Ambrosio, dalla quale accolto in sua casa, venne quivi iniziato alla setta dell’Unità Italiana. Ma del giuramento, de’ segni datigli allora e quivi, Iervolino non ha più alcuna memoria. Divenne per tal modo intimo di Poerio, di cui conobbe tutti gli amici famigliari! Nisco, Atanasio, il reverendo padre Grillo monaco Cassinense, e un carceriere chiamato il Cartonajo — tutti settarii. Poerio gli fece conoscere anche Settembrini, ma degli amici di quest’ultimo, egli, il deponente, non ne sa; perchè Settembrini non gli parlò mai di essi. Di più, Iervolino, recandosi di frequente in casa di Nisco, vide quelli che vi avevano famigliarità. Ebbe da Poerio e da Settembrini confidati molti affari o commissioni; così da Settembrini gli furon date a distribuire venti copie stampate d’inviti, o indirizzi al pubblico, di non fumare, di non giuocare al lotto, nè di pagar le tasse; e un giorno Poerio gli ordinò di andare a verificare se la bandiera di faccia al Palazzo Reale era bianca o tricolore. Poerio gli disse anche, in altra occasione, che i membri della setta dovevano ricevere delle medaglie per riconoscersi fra loro; molte delle quali si stavano coniando; ed egli, Iervolino, ne avrebbe avuto un buon numero da distribuire fra’ suoi proseliti. Anche Settembrini gli parlò di un vicino movimento, e che era aspettato Garibaldi; e domandogli su quanti associati e su quanti fucili potesse contare. E sentendo che Iervolino aveva cinque o sei fucili, e trenta associati su cui contare, Settembrini mostrossene grandemente soddisfatto. Quest’asserzione era naturalmente un mero suo vanto, detto solo per guadagnare la fiducia dei settarii; perchè lungi dal cercare di raccoglier popolo per combattere contro il Re, Iervolino era pentito di aver mai figurato fra i nemici di Sua Maestà; e fin da due mesi prima, era solito di far il suo rapporto in Polizia, dove aveva anche deposti quattro proclami incendiarii datigli da Settembrini pochi giorni prima dell’arresto di questi. Egli non si ricordava di altro.
Il Presidente lo esorta a richiamarsi alla mente la sua deposizione scritta, e a dire tutta quanta la verità. Iervolino dichiara di aver detto tutto quello di che si rammenta; e che era pronto a ratificare ciò che aveva scritto, essendo quella la pura verità. La prima dichiarazione di Iervolino, la susseguente ratifica, la denunzia, e tre rapporti segnati, allora vengono letti. Non può dire qual fosse il tenore del giuramento preso, nè quali segni indicatigli, avendoli del pari dimenticati. Si rammenta bensì che i segni venivano ogni tanto mutati. Egli li aveva ricevuti sempre da Settembrini, il quale raccomandavagli continuamente di mescersi a’ popolani appartenenti alla setta. Quali fossero questi «popolani,» egli nol poteva dire, perchè non gliene venne indicato alcuno in particolare. Alla domanda «Che grado teneva egli nella setta?» risponde che non era se non un membro ordinario. Ma essendogli fatto osservare che quella risposta trovavasi in contraddizione con quello che su di ciò aveva detto nella sua dichiarazione scritta, si rammenta allora che di fatto era stato promosso da Nisco al grado di unitario. Ridomandato intorno al giuramento preso, dice non rammentarsi se non che il giuramento era per la Costituzione. Ridomandato se questo era tutto, e se nessuna mutazione nella forma di governo non fosse implicata nel giuramento, risponde che da prima il giuramento obbligava a sostener la Costituzione; ma che di poi, come aveva appreso da altri associati, era diretto allo stabilimento di una Repubblica — (Qui, secondo il solito, pronunciata alla fine questa parola tanto aspettata, il presidente dà segno di approvazione e di soddisfazione marcata). Iervolino non rammenta i segni di riconoscimento datigli la prima volta; ma fra quelli comunicatigli ultimamente da Settembrini, rammenta le parole: — «Noi siamo tutti figli, la madre è Roma,» e fa cenno di un segno consistente in toccarsi il naso e l’occhio sinistro coll’indice della mano destra. — (Questi segni son dati nell’atto di accusa stampato). Non era poi stato mai presente ad alcuna riunione della setta; nè sa se siffatte riunioni avessero mai avuto luogo.
Il difensore di Poerio domanda l’inserzione nel processo verbale del deposto di Iervolino, che il giuramento richiestogli era per la Costituzione. Il presidente e il procurator fiscale vi si oppongono, e il difensore persiste. Allora il Presidente ridomanda Iervolino intorno alla formola del giuramento, e Iervolino ripete che giuravasi fede alla Costituzione; ma che poi aveva sentito a dire che dovevasi alla fine venire ad una Repubblica. Nei quai termini la risposta fu registrata nel processo verbale.
L’accusato Poerio si leva in piedi, e prega il presidente di domandare a Iervolino se siano tutti i suoi segreti rapporti alla polizia inscritti nel processo. Alla domanda vien risposto affermativamente da Iervolino. — «Quest’uomo mentisce,» soggiunge Poerio, «perchè io qui presento un rapporto scritto interamente di suo pugno, e diretto ad un impiegato di polizia per nome Gennaro — rapporto pieno delle più disgustanti calunnie contro Settembrini e me. Domando al denunziante dica se questo rapporto sia suo; e in caso che nieghi, domando che l’identità del carattere sia accertata.»
Navarro esprime la sua maraviglia, sentendo che un rapporto scritto contro l’accusato Poerio sia in sua mano. Poerio risponde: — «Non sono obbligato a dirvi come lo ottenni. È un segreto confidato all’onor mio, che rimarrà sepolto nel mio petto finchè vivo. Il documento è utile alla mia difesa, e qui lo esibisco sotto la mia propria responsabilità servendomi di un diritto accordato dalla legge. Questo deve bastare alla vostra vigilante giustizia, signor Presidente, come anco a farvi conoscere la virtù, in questi tempi tristissimi, avere più amici di quello che gli scellerati non credano.»
Iervolino è invitato a esaminare il documento. Si fa innanzi con passo tremante e bianco in viso; guarda la carta, esamina accuratamente l’indirizzo, poi dice: — «Deve essere stata diretto a don Gennaro Cioffi;» così supplendo al cognome mancante nell’indirizzo, che ivi la carta era stata lacerata. Iervolino legge, e la volta e rivolta più fiate; poi brontola che non ricordasi di averla scritta, ma la crede sua. Stretto da domanda sopra domanda, dice alla fine: — «Questo foglio è mio, ma l’indirizzo non parmi di mio carattere.» Il foglio vien letto attentamente dal segretario.
Poerio si leva in piedi di nuovo, e dice: — «Fra le deposizioni a discarico, da me esibite alla Corte, ne figura una con cui mi proponevo provare che fin dal maggio 1849 io conosceva perfettamente esser costui un agente segreto dell’empia fazione che ha risoluto di rovinarmi ad ogni costo. Offrii allora di mostrare alla Corte un rapporto contro di me scritto e segnato da costui, e domandai che fossero esaminate due persone onorevolissime, miei ottimi amici, a’ quali avevo dato a leggere questo schifoso foglio, appena avuto. La Corte credette conveniente di rigettar quella particolare domanda, assieme alle altre da me fatte. Chiamato all’esame, non mancai di sollecitar di nuovo rispettosamente che si ammettessero que’ modi di difesa precedentemente rigettati, e particolarmente questo ultimo. Ricevetti un nuovo rifiuto; pure la Corte, nella sua alta sapienza e giustizia, mi riserbò il diritto di domandare che si sentissero i due testimoni da me indicati, ogni volta che l’utile e la necessità di addurli si fosse manifestata nel corso della pubblica discussione. Domando che quel diritto sia ora riconosciuto. Se la divina giustizia ha permesso che io fossi stato segno ai colpi della calunnia, essa ha tratto pure dal seno stesso della calunnia i modi della mia giustificazione. Voi, grandi sacerdoti dell’umana giustizia, non potete invidiarmi, nè vorrete tormi questo benefizio concessomi dalla Provvidenza.»
Il difensore di Poerio prende a sostenere con argomenti legali la domanda del suo cliente, e il procurator generale la combatte. Ma Poerio, levandosi di nuovo su, dice: — «col più vivo dolore dell’anima, son costretto a rammentare all’onorevole magistrato, che quando la prima volta produssi questo stesso modo di difesa, il procuratore fiscale opinò che si avesse ad ammettere. Come dunque può ora il procuratore fiscale domandare che sia rigettata questa stessa posizione a mio discarico, egli che la ammise in altri tempi — domandare che sia rigettata, ora che è provata l’autenticità del documento?»
Il presidente in questa ammonisce vivamente il parlatore, rammentandogli che non tocca a lui censurar la Corte. Il procuratore fiscale esercitava un suo diritto ammettendo, come ora rigettando, quel modo di difesa, perchè le sue opinioni sono sempre coscienziose e conformi alla legge.
L’accusato risponde: — «L’onorevole procuratore fiscale non può smentirmi, quando asserisco un fatto positivo, un fatto innegabile, quando gli dimostro che egli è seco medesimo in flagrante contraddizione. Io non m’incarico di censurarlo, perchè conosco il mio dovere; ma mi si può concedere di deplorar ciò, perchè conosco anche il mio diritto e il modo di esercitarlo, sottoposto e sommesso al controllo della vostra imparziale giustizia.»
La Corte si riserva di deliberare su questo punto.
Il presidente domanda a Poerio se abbia alcuna osservazione intorno alla dichiarazione di Iervolino. E l’accusato risponde così: — «Onorevolissimo presidente, la denunzia è audacemente calunniosa, e la stessa polizia giudicò che era tale. Questo miserabile, eccitato dal dispetto, dalla miseria, dalla scelleraggine, elabora un’accusa falsa, e la presenta il 19 aprile 1849. Vien letta in polizia, e non ne è tenuto alcun conto. Iervolino rinnova il suo attacco, e non è ascoltato. Non prima del 16 maggio, cioè dopo il lasso di quasi un mese, questo delatore è chiamato a ratificare le sue affermazioni. Gli si domandano testimonianze comprovanti, non ne ha nessuna. Il commissario Maddaloni lo licenzia. Incomincia il processo, nè si pensa punto ad arrestarmi; e questo in un momento nel quale la Polizia arrestava non solo i capi pretesi, ma fino i complici pretesi membri della pretesa setta. Fui arrestato due mesi dopo, ma non in conseguenza della delazione di Iervolino; ma sì, come apparisce da un certificato inserto nel processo, perchè qualcuno aveva detto di aver sentito in casa dell’arciprete Miele che il barone Poerio e il duca Proto erano i capi della setta. Ma anche allora il commissario Maddaloni non istituì alcuna investigazione relativa alla denunzia di Iervolino; perchè Nisco, che era stato otto mesi in prigione, non fu esaminato neppur una volta intorno alla setta, nè alcuna delle persone nominate in quella denunzia e messe innanzi come miei complici e settarii. Atanasio, D’Ambrosio, Pacifico e il padre Grillo continuarono a vivere in Napoli senza esser punto molestati. E la Polizia non crede neppure adesso alla velenosa accusa di Iervolino, perchè di recente ha accordato libero passaporto ad uno dei denunziati, all’onorevole padre Grillo attualmente in Roma. Le calunniose accuse di Iervolino furono dissepolte solamente più tardi, per servire le male inclinazioni dei Commissarii di Polizia, che amano darsi l’aria di giudici inquisitori, e empire i processi delle segrete informazioni delle loro spie. Ma non pretendo di confutare adesso le falsità accumulate negl’infami rapporti di questo miserabile. Con vostra licenza, onorevolissimo Presidente, solo farò a lui alcune domande. Dove ho avuto io l’onore di far la prima volta la sua preziosa conoscenza? Fu egli introdotto presso di me da qualche amico? Venne solo o in compagnia?»
Risponde Iervolino di aver cercato Poerio nella sua dimora privata, quando era Segretario degli Affari Interni, per presentargli una petizione. Non vi fu introdotto, nè raccomandato da alcuno.
Poerio soggiunge: — «Costui equivoca su di un punto. Egli non venne in mia casa, ma all’uffizio; comunque, ciò poco importa. Asserisce di avermi sollecitato, mentre io era Ministro costituzionale della Corona, di arrolarlo ad una certa setta. Come seppe egli che uno de’ Ministri del Re era un settario? Come osò fare ad un alto dignitario dello stato una domanda che poteva costargli cara?»
Iervolino risponde che era un fatto pubblicamente noto, Poerio esser membro di una setta. Di più si rammenta ora, che non vennero le sue sollecitudini, per entrare nella setta, fatte immediatamente dopo che fu presentato a Poerio, come potrebbe risultare dalla sua prima delazione; ma più tardi, e quando Poerio non era più Ministro. Certo non prima del 16 maggio 1848.
— «Come dunque, essendo fuori d’uffizio, poteva Poerio esser utile al denunziante?»
Risposta. — Raccomandandolo agli altri Ministri.
Poerio. — «Il denunziante afferma ch’egli faceva visite quotidiane in mia casa. Dove aspettava? Alla porta, nella via, nella sala, nell’anticamera, o nel mio gabinetto?»
Risposta. — Da principio, qualche volta alla porta della via, o nella sala, o nell’anticamera; ma poi divenuto più intimo era solito sedersi nella camera da letto di Poerio.
Poerio. — «Essendo così, il denunziante potrebbe nominare alcuno de’ Deputati, Pari, Magistrati, Ministri che mi onoravano di lor visite?»
Risposta. — Iervolino non si prese l’incomodo di conoscere il nome dei visitatori di Poerio, meno quello dei quattro scritti nella sua denunzia.
Poerio. — «Ma s’egli era solito passare tutta la sua mattinata in sala, egli dee aver conosciuti alcuni de’ capi dei vari dicasteri, i quali venivano ogni giorno a portarmi fogli da segnare.»
Risposta. — Iervolino vide una quantità di persone, ma non fece mai ricerca dei loro nomi.
Il presidente domanda all’accusato Nisco, se abbia nulla a dire. Nisco risponde: — «Devo osservare primieramente che è certo cosa strana, per dir poco, ch’io non sia stato mai esaminato neppur una volta intorno a questa pretesa setta. Dichiarai solennemente di non esser mai stato settario. Sorge un vile, me ne accusa dietro le spalle, mi si fa di questa accusa un mistero per tutto il tempo del processo preparatorio, cioè per quattordici lunghi mesi: e ora all’improvviso son richiesto di rispondere in pubblica Corte al vile calunniatore.»
Il Presidente lo interrompe, ammonendolo di non insultare il testimonio, che ha diritto di essere rispettato.
Nisco soggiunge: — «Costui non è un testimonio, è un denunziante — un delatore. Se non volete permettere che io lo chiami calunniatore, lo chiamerò col nome suo, e sarà cosa sufficiente, anzi lo stesso. Io dirò: è un Iervolino, nome che è la personificazione di tutta l’umana scelleraggine. Bene: questo Iervolino confessa di esser settario, confessa di aver prestato giuramento alla setta, di aver per un anno intiero ricevuto ed eseguito le commissioni avute da questa setta. Costui, dunque, è reo convenuto e confesso, e non può sentirsi quale testimonio. Venga su Iervolino, e prenda il suo posto in questi banchi; metta in pericolo la sua testa, e allora le sue mirabili rivelazioni potranno essere, non dico credute, ma ascoltate senza offender la legge.» Qui Nisco si estende a lungo in particolari di fatto, provando che durante l’amministrazione di Poerio, cioè dal 6 marzo al 3 aprile 1848, egli, Nisco, non era stato mai in Napoli, e che però non aveva potuto, per fisica impossibilità, avere alcuna comunicazione con Iervolino, in un luogo dove egli, Nisco, non era. «So benissimo,» continua l’accusato, «che Iervolino ha sotto qualche rispetto ritrattato i suoi primi detti, e che ha asserito poc’anzi essere state fatte le sue sollecitazioni a Poerio per esser arruolato nella setta, più tardi, e quando Poerio non era più ministro. E quando cangiò tattica questo delatore? Quando saltò agli occhi di lui e di ognuno l’incredibilità della sua prima affermazione. Ma la nuova dichiarazione di Iervolino sorpassa, se è possibile, in assurdità l’antica. Suo fine, egli dichiara, era di venir raccomandato da Poerio ad alcuni dei nuovi Ministri. Ai Ministri, davvero, del 16 maggio! — a quello stesso Ministro, cui Poerio, come deputato, non cessò mai dalla tribuna una leale coscienziosa, ma instancabile opposizione. — E conchiude domandando provare con testimoni ineccezionabili, l’esattezza delle allegazioni quanto al suo alibi da Napoli, nel tempo in cui Iervolino asserisce di aver avuto relazione personale con lui nella capitale.»
Settembrini, domandato dal Presidente se abbia nulla a dire, sorge e risponde: — «Dopo le domande fatte al delatore dal mio amico e coaccusato Poerio, non ho nulla a domandargli per mio riguardo: solo posso dire di non aver mai conosciuto Iervolino per l’innanzi, nè vorrei neppure averlo conosciuto adesso. Costui è agente pagato dalla Polizia, ne riceve dodici ducati al mese, oltre gl’incerti, in ragione dei servigi resi. Guardate come s’è ripulito e forbito: pare adesso tuttaltro che povero. Questi fatti li confidò egli stesso a’ suoi amici, a Nicola Rubinacci, Luigi Mazzola, Ferdinando Lanzetta, e Giovanni Luigi Pellegrino; e queste confidenze egli fece, lamentandosi con lui Rubinacci de’ tempi difficili; il quale fu da Iervolino esortato a fare come egli aveva fatto, e così si sarebbe tratto presto di bisogno. Domando che le persone da me nominate siano sentite come testimoni, e spero la Corte vorrà accordarmi almeno questa richiesta. Mi prevalgo di questa opportunità per ricordare alla Corte, essere io qui in una posizione isolata e senza esempio, ed essere il solo in questa causa di cui le deposizioni a discarico siano state rigettate tutte in massa. Se la necessità di sentire qualche testimone in mia difesa non appare dalla deposizione di costui, non apparirà mai più, perchè costui è l’unico denunziante contro di me nella pubblica discussione.»
La Corte si prepara a ritirarsi. Alzandosi Poerio in piedi, domanda la parola. Navarro mostrasi molto infastidito, e dà segni d’impazienza; ma Poerio sostiene il suo diritto, e reclama «dalla ben nota giustizia del Presidente il pieno esercizio della libertà di difesa.» Dopo alquanto di esitazione, il Presidente, che di già s’era alzato, risiede di bel nuovo, e l’accusato parla così:
«Signori. — Nell’interesse della mia difesa sentomi spinto a sottoporre a voi alcune poche domande, le quali naturalmente derivano dalla dichiarazione del delatore. Iervolino ha riconosciuto per suo l’infame documento da me presentato alla Corte; ma incapace di spogliarsi interamente della triste abitudine di mentire, ha mostrato dubitare se l’indirizzo fosse o no di suo carattere. Questo dubbio deve essere rimosso, e domando però alla Corte che nomini alcune persone abili in siffatte materie e commetta ad esse la cura di accertar legalmente, se il carattere di quel foglio sia lo stesso di quello che trovasi nell’indirizzo e sulla coperta. Nega Iervolino che verso la fine del maggio 1849 — tempo in che conobbi essere egli una spia pagata e un delatore — io lo cacciassi di casa mia; e asserisce anzi che continuò a frequentarla anche posteriormente. Io affermo, al contrario, che allora precisamente avendo letto a due onorevoli amici miei lo schifoso foglio qui esibito, in loro presenza gli imposi di mai più presentarsi in mia casa. È l’esame di questi due testimoni che io domando ora, essendo dalla pubblica discussione apparsa evidente la necessità della testimonianza. Di altre due domande devo anche sollecitare l’ammissione, delle quali lascerò pesare a voi nella vostra sapienza la stretta legalità e l’alta importanza.»
Il Presidente lo interrompe, ricordando che la sola deposizione di Iervolino ha occupato di già sei ore; e mostra desiderio pertanto che sia breve, e lasci le cose inutili.
Poerio risponde: — «Non è certo mio fallo se le complicate menzogne di Iervolino hanno prolungato la discussione. Quanto al metodo della mia difesa e alla scelta degli argomenti, prego mi si conceda di seguire i dettami della mia ragione, e di accordarmi ciò nonostante quella benevola attenzione che il vostro nobile zelo per la verità, onorevolissimo Presidente, e il rispetto non mai venuto meno per la libertà della difesa (Navarro si contorce e si agita sul suo seggio) assicurano anticipatamente ad un uomo nella mia situazione. Quando la Corte rigettò le deposizioni a mio discarico, lasciommi il diritto di domandare che venissero ascoltati que’ medesimi testimoni in prova di quelle stesse rejette deposizioni, ogni volta la necessità o l’utilità dell’ascoltarli apparisse nella discussione pubblica. Ora di questo diritto concessomi io mi prevalgo. Quando la Corte respinse la mia domanda speciale di reintegrazione nel processo di un documento che si riferiva a una pretesa lettera del marchese Dragonetti, la Corte riserbommi pure il diritto di ripetere verbalmente le deduzioni contenute in quel documento non prodotto. Lasciatemi ora approfittare di questa riserva, affine di mostrarvi la convenienza dell’ultima mia richiesta.»
Navarro gli fa osservare essere questi mezzi già stati ampiamente sviluppati nella sua difesa stampata, e che il ripeterli non avrebbe cagionato se non una inutile perdita di tempo alla Corte.
Poerio: — «Il tempo che voi spendete in ascoltar la difesa è tempo speso ad un fine nobilissimo; nè voi ve ne dorrete, onorevole Presidente, se servirà a convincervi della mia innocenza e della scellerata animosità de’ miei nemici. Signori, nelle mie deposizioni a discarico ho fatto appello alla testimonianza di persone eminenti, Cardinali, Ambasciatori, Ministri, Generali, ecc. Ho ricorso ad essi perchè deponessero delle mie opinioni, come de’ miei atti nella pubblica vita. Questo Iervolino, uomo che ha venduto la sua anima alla fazione che ha deciso perdermi — questo tipo di tutti i vizii, osa colla più insensata e la più vile delle calunnie, insozzare quarantacinque anni di una vita modesta, ma intrepida e virtuosa. Potete voi, dopo aver ascoltato costui, negarmi il modo di giustificazione? Se la lista de’ testimoni da me prodotta è troppo lunga, ristringetela nella vostra sapienza, non li rigettate tutti sotto pretesto che sono troppi... Non mi private del modo di rivendicare — cosa per me essenzialissima — l’onor mio.
E ora vengo alla mia ultima domanda. Il 24 luglio 1849, sei giorni dopo il mio arresto, fui chiamato la prima volta innanzi al Commissario Inquisitore, e mi fu ordinato aprissi una lettera sigillata direttami per la posta, attribuita al marchese Dragonetti. Non appena vi ebbi gittato lo sguardo, vidi subito la vile imitazione del carattere di Dragonetti. Vi erano fra le carte a me sequestrate alcune lettere genuine di Dragonetti, che io produssi. Il Commissario Inquisitore o i suoi assistenti le paragonarono con quella datami poco prima; e anche all’occhio loro apparve manifesta la falsificazione. Nè contento di quella prova materiale della calunnia, seguitai a corroborarla colla dimostrazione dell’impossibilità morale. Come poteva Dragonetti, uno dei più puri ed eleganti scrittori italiani, le lettere del quale sono modello di stile forbito — come poteva avere scritto un foglio pieno dei più grossi errori, non solo di grammatica, ma fin di ortografia? Come poteva supporsi che Dragonetti, uomo agiatissimo di averi, con un circolo numeroso di relazioni, amici e conoscenti a sua disposizione, si fosse servito della posta in un affare tanto pericoloso — egli che aveva sempre mandato a mano le sue lettere più indifferenti? Come poteva esser possibile che un uomo di età matura ed educato alla scuola delle disgrazie, pur si sognasse di scrivere di proprio pugno, senz’ombra di maschera, una lettera che lo poteva mandare al palco, autenticandola colla sua sottoscrizione e col titolo di Marchese?
Questi ed altri simili argomenti senza replica, così come io li veniva esponendo e dettando, venivano inscritti in una minuta, allora stesa; ma questa minuta non figura fra i documenti del processo attuale, ed è stata ritenuta per motivi maligni. La lettera falsa era per informarmi che Mazzini, uno dei Triumviri in Roma, mi dava appuntamento a Malta, e parlava di una prossima generale insurrezione in tutta Italia; e alludeva ad una corrispondenza di lord Palmerston incitante il popolo di questo paese a proclamar la Repubblica, e offerente ogni sorta di ajuto (tutti gli occhi si voltano allora verso il rappresentante della Gran Bretagna, sir Williams Temple, fratello di lord Palmerston, che stava nella galleria coi principi Colonna); finalmente quello stupido foglio annunziava l’imminente arrivo di Garibaldi. Domando formalmente che la minuta mancante sia rimessa fra i documenti della causa; nè dubito che mi accorderete questa domanda, perchè la condanna di un innocente è una pubblica calamità; e, a rimuovere un pericolo di tal sorta, dovete concedermi ogni modo atto a provare ch’io sono vittima di nere e calunniose macchinazioni. Piacciavi di osservare che si parla della venuta di Garibaldi nella denunzia di Iervolino contro di me del 20 maggio 1849; che la venuta di Garibaldi fu menzionata dai testimoni di Pomigliano esaminati nel processo preparatorio, e che della venuta di Garibaldi tocca l’autore della lettera falsa attribuita a Dragonetti. Or qui avete la parola d’ordine de’ miei persecutori, qui avete il filo per iscoprire la tela tessuta per ruinarmi. Signori della Corte, io vi scongiuro a lasciare splendere sopra di voi la luce. Certo non vorrete voi, chiudendo gli occhi, rimanervi indegnamente nelle tenebre.»
La Gran Corte Criminale si ritira per deliberare, e torna due ore dopo con una decisione del tenore seguente: — Delle domande dell’accusato Nisco, la Corte ammette colla maggioranza di sei voti contro due, quella relativa alle prove della sua dimora a San Giorgio per via di testimoni. — Rigetta la prova per via di testimoni dell’epoca precisa del suo viaggio di andata e ritorno in Roma, riservando all’accusato il diritto di stabilir la data coll’esibizione del suo passaporto.
La Corte rigetta la richiesta del Settembrini, di provare per mezzi verbali che Iervolino è un agente pagato di Polizia — riserva all’accusato il diritto di provar la sua asserzione per via di documenti.
Tutte le domande di Poerio sono rigettate in massa.
Questo giudizio durò otto mesi, dal giugno 1850 a tutto il gennajo 1851. Il discorso del procurator Angelillo in sostegno dell’accusa durò tre giorni. Gli avvocati difensori combatterono come leoni in favore de’ loro clienti, ma con poco successo. Dei quarantadue accusati, ridotti a quarantuno per la morte di Leipnecher, otto furono dimessi, trentatrè condannati (rammentiamo soltanto le sentenze più gravi): tre, fra’ quali Settembrini, a morte; due alla galera: tre a trentacinque anni di ferri; uno, Nisco, a trent’anni di ferri; tre, Poerio, Pironti e Romeo, a ventiquattr’anni di ferri; uno a vent’anni di ferri; otto a diciannove anni di ferri.
Quando uno dei nomi compresi in quest’ultima categoria uscì dalle labbra del Segretario della Corte, uno strido partì dalle sedie della galleria riservata, e successe ad esso un gran tumulto. Nel medesimo istante uno de’ prigionieri, di persona alta, imperiosa, mortalmente pallido, si alzò stendendo ambe le mani verso la galleria. Si bisbigliò fra la moltitudine che una signora, la signora velata, mai mancata a nessuna delle sedute — alcuni dicevano sorella, altri moglie del prigioniero alzatosi in piedi, taluni era una dama inglese, di cui egli aveva salvato la vita — era svenuta, ed era stata portata via dagli amici di lei.