< Il fanciullo nascosto
Questo testo è completo.
La croce d'oro
L'usuraio Dramma

La croce d’oro.

Eravamo quasi alla vigilia di Natale, ed io che dovevo scrivere una novella d’occasione per un giornale straniero ancora non avevo trovalo l’argomento.

Allora pensai di andare a raccogliere qualche leggenda. (Vivevo ancora nell’Isola).

Conoscevo un vecchietto che ne sapeva tante: era un mezzadro d’un nostro piccolo podere nella valle: d’estate e d’autunno veniva su, curvo sul suo bastone, con la bisaccia colma sulle spalle e sul petto, e la barba che gli andava dentro la bisaccia. Quasi sempre arrivava sul tardi; la stella della sera sorrideva su noi fanciulli dal cielo lilla del crepuscolo. E il vecchietto ci sembrava uno dei Re Magi che avesse sbagliato strada e perduto i suoi compagni: la sua bisaccia era piena di cose che per noi erano più preziose dell’oro e della mirra: di frutta e di storielle.

Ma d’inverno non veniva, o veniva di rado e non c’interessava tanto perchè portava le olive e le olive sono amare.

Dunque si andò a trovarlo laggiù: nella valle d’inverno si sta bene, riparata com’è; le nuvole le stendono un velo attorno come ad una culla, l’acqua si ritira tutta giù in fondo e lascia le chine asciutte. Se il tempo è bello sembra di primavera; i mandorli fioriscono, illusi dal tempo come fanno i sognatori, fiorisce il vilucchio e le olive brillano fra l’erba come perle violacee.

Il vecchietto abitava una capanna proprio romantica, addossata ad un ciglione, sull’alto dell’oliveto, riparata da macigni e cespugli; possedeva anche un alveare primitivo sui cui vasi di sughero si posavano i gatti selvatici belli come piccole tigri.

Eccoci dunque laggiù: il sole riscalda fin troppo il recinto, gli olivi son tutti d’argento e il pomeriggio è così chiaro che sulle chine del monte di faccia si vedono scintillare i rivoletti e le donne raccoglier le ghiande fra l’erba.

Il vecchietto ha sparso le olive ad asciugare nel suo recinto e toglie quelle un po’ guaste. Non ha voglia di parlare; la solitudine e il silenzio gli hanno arrugginito la lingua.

Ma la serva ha portato giù una medicina buona a sciogliere le parole annodate, e il vecchietto beve e comincia a lamentarsi.

— Che storie vuoi che ti racconti? Son vecchio e ormai devo parlare solo con la terra che mi chiama. E se vuoi storie cercale nei libri, tu che sai leggere.

— Bevete un altro poco, — dice la serva, curva anche lei a scegliere le olive, — e poi raccontateci di quando dovevate sposarvi, su!

— Quella è storia vera, non leggenda; sì, te la voglio raccontare perchè era proprio di questi tempi, Pasqua di Natale.

Avevo venti anni, ero fidanzato. Ero giovine molto, per prendere moglie, ma il malanno è che ero orfano di padre e mia madre era sempre malaticcia; soffriva di cuore, ma era serena e timorata di Dio e mi diceva, «sposati, che così quando muoio io non rimani solo a portare la croce della vita, o esposto a cadere nelle mani della prima donna che capita». Pensavamo: chi scegliere? Non ero ricco e non pensavo neppure di diventarlo; mi bastava che la moglie fosse anche lei onesta e timorata di Dio. E pensa e pensa: chi sarà?

C’era una famiglia molto per bene, composta di padre, di madre e di sette figli tutti abili al lavoro e che andavano tutti a messa e a confessarsi come Dio comanda. Di questi sette figli tre erano femmine, belle, alte, sottili, con la cintura come un anello, e andavano sempre ad occhi bassi, col corsetto allacciato e le mani sotto il grembiale non come andate adesso voi, le ragazze d’oggi, con gli occhi che pare si mangino la gente. Mia madre domandò per me la più giovane, e fui bene accolto e a Natale dovevo farle il dono col quale, come si usa, io m’impegnavo fermamente a sposarla e lei accettandolo a sposarmi. E di nuovo pensa, pensa con mia madre, a questo dono: seduti uno di fronte all’altra davanti al focolare io e lei discutevamo sempre se doveva essere una moneta d’oro, questo dono, o un fazzoletto ricamato, o un anello. Finalmente mia madre mi disse:

— Senti, figlio, tanto i miei giorni son contati e ogni passo che faccio mi allontana dalle cose della terra: prendi la mia croce d’oro e gliela doni.

E me la diede, col rosario di madreperla al quale era attaccata: ma nel darmela gli occhi le splendevano di lagrime e la bocca s’apriva per l’ansia del mal di cuore; tanto che mi fece pena e accennai a restituirgliela, ma lei non poteva parlare e solo tese la mano per respingere la mia.

Io avvolsi il rosario e la croce in un fazzoletto e poi in un altro fazzoletto ancora, e li tenni in tasca tre giorni come una reliquia; ogni tanto li toccavo, per paura di perderli, e mi sentivo, non so perchè, il cuore gonfio d’amore, ma anche di un misterioso affanno.

La sera della vigilia andai dunque dalla mia promessa sposa: c’erano anche i fidanzati delle altre due sorelle e la cucina con tanta gente sembrava ed era un luogo di festa: però tutti erano seri, perchè mio suocero e mia suocera col loro aspetto sereno ma imponente destavano rispetto come i santi sull’altare, e le ragazze andavano e venivano a occhi bassi, servendo il vino e i dolci ai loro fidanzati e rispondendo piano senza sorridere ai loro complimenti.

Io non mi trovavo male, in simile posto, perchè ero un ragazzo serio, un orfano abituato a considerare gravemente le cose della vita; mi bastava guardare ogni tanto la mia fidanzata e se lei, quando volgeva le spalle al padre e alla madre, sollevava rapida gli occhi per guardarmi mi pareva si aprisse il cielo, e la cucina coi suoceri, i fidanzati, le fidanzate, i fratelli che scorticavano i capretti per la cena, mi pareva la Corte Celeste con Dio, i Santi, gli Angeli. Com’ero contento quella sera! Non sono stato mai così contento. Solo aspettavo con ansia il momento, dopo il ritorno dalla messa, di fare il dono alla mia fidanzata e legarmi così con lei.

Ed ecco qualcuno picchiò fuori al portone del cortile: uno dei fratelli andò ad aprire e tornò seguìto da un uomo alto, uno straniero con una piccola bisaccia al collo e un pungolo per bastone in mano.

Io lo guardai bene, mentre si avanzava silenzioso, calzato com’era con scarpe molli senza tacchi, di quelle che usano gli Olianèsi: sulle prime mi parve molto vecchio, con la sua barba corta bianca e gli occhi chiari; ma poi vidi ch’era giovane, biondiccio, stanco come venisse da un paese lontano.

Nessuno di noi lo conosceva e anche le donne lo guardavano con curiosità; ma tutti lo si credette un amico del capo di famiglia perchè questi lo accoglieva cordialmente, senza però scomporsi troppo.

— Siediti, — gli disse, — di dove vieni?

Lo sconosciuto sedette in mezzo a noi, senza togliersi la bisaccia, col pungolo sulle ginocchia, i piedi parati al fuoco: ci guardava tutti ad uno ad uno ma con uno sguardo vago, sorridente, come vecchie conoscenze.

— Vengo di lontano; sono di passaggio, — disse con voce ancora più calma di quella del mio suocero. — Ho pensato bene di salutarvi, poichè siete in festa.

— Sì, siamo in festa, come vedi: le ragazze son fidanzate, eccoli qui, i bravi fidanzati, forti e belli come leoni. Non ci manca nulla.

— Proprio nulla! — dissero i giovani urtandosi col gomito; e risero.

Anche le ragazze, dopo tanta serietà, parvero vinte da un senso di allegria smodata; risero e risero anche loro, e risi anch’io, e risero anche il suocero e la suocera: pareva un male che si attaccasse dall’uno all’altro: solo lo straniero restava tranquillo, guardandoci come un fanciullo, nè sorpreso nè offeso.

Finalmente, quando tutti si ritornò seri, disse rivolto alle donne:

— Tanti anni fa son passato un’altra volta in questo paese, e mi capitò lo stesso di andare in una casa dove c’erano fidanzati: ed erano allegri così; solo la promessa sposa mi guardava, mi guardava, e quando andai via mi seguì fino alla porta e mi disse: «il mio vero fidanzato sei tu, io ti aspettavo, rimani e fammi il dono». Io le feci il dono, e sebbene me ne andassi ed ella si sposasse con l’altro, il vero sposo fui io, ed il suo figlio trasmetterà a voi, spose, il dono ch’io feci a lei, e voi lo trasmetterete ai figli vostri per le loro spose.

Noi ci guardavamo senza più ridere nè sorridere: l’uomo ci sembrava strano, quasi pazzo, eppure, dopo l’allegria, ci destava soggezione, quasi paura.

La suocera domandò:

— E, di grazia, che dono è stato, il tuo?

— Una croce d’oro.

Allora io sentii la schiena tremarmi: il figlio dell’amica dello straniero non potevo essere che io: io solo avevo, per donarla alla sposa, la croce d’oro di mia madre. Non aprii bocca, ma da quel momento come un velo fitto mi avvolse la testa: vedevo sì, ma confuso, e le orecchie mi ronzavano e non distinsi più le parole che si scambiavano lo straniero, la suocera, i giovani.

Sentivo un gran dolore, un peso, un peso che mi stroncava le reni, come se la croce d’oro dentro la mia tasca fosse d’un tratto diventata grande massiccia e mi gravasse sopra le spalle.

Poi lo straniero, dopo essersi scaldato i piedi, se ne andò, alto, silenzioso, col suo pungolo in mano e la bisaccia al collo.

— Chi era? — domandò la suocera.

— E chi lo conosce? — rispose il suocero. — Io non l’ho mai conosciuto, ma la sua figura non mi è nuova. Sì, devo averlo veduto, tanti anni fa, forse quando veniva di nascosto a visitare la sua amica.

Ed io zitto. Di nuovo tutti si erano ricomposti, seri, gravi: e le ragazze andavano e venivano preparando la cena, ma la mia fidanzata, pallida, a occhi bassi, non mi guardava più. Il cuore mi batteva, e attraverso quel velo che, come dico, mi avvolgeva la testa, mi pareva di vedere gli occhi dei vecchi e dei giovani volgersi di tanto in tanto a me con diffidenza.

Così arrivò l’ora di andare alla messa; ci alzammo, ma io mi sentivo sempre più grave, barcollante sotto il mio peso, e inciampavo come un ubbriaco. Andavamo in fila, le donne avanti, gli uomini dietro; arrivati in chiesa ci mescolammo alla folla, ed io mi scostai, piano piano, indietreggiando, fino al battistero, fino alla porta, fino all’ingresso.... e là volsi le spalle alla casa di Dio e fuggii come inseguito dai demoni. Andavo come un pazzo, e girai di qua e di là fino all’alba: all’alba tornai a casa. Mia madre era già alzata; accendeva il fuoco e sembrava tranquilla ma pallida come avesse vegliato tutta la notte; vedendomi così stravolto credette mi fossi ubbriacato e spiegò la stuoia per farmi coricare. Mi disse solo:

— Cattiva figura, hai fatto, figlio caro!

Io mi buttai per terra, morsicai la stuoia; poi mi alzai in ginocchio, trassi la croce d’oro, la storsi, ruppi il rosario e i grani balzarono per terra fuggendo: pareva avessero paura di me. Mia madre anche lei cominciò ad ansare. Allora ebbi pietà e le raccontai tutto.

— Come potevo fare? — gridavo. — L’amica dello sconosciuto, dello straniero, siete stata voi; e potevo dar la croce vostra alla mia fidanzata? Mi guardavano tutti, indovinando: io sono fuggito per la vergogna.

Mia madre però s’era calmata; raccolse i grani nel suo grembiale e cominciò a infilarli. Così lasciò che anch’io mi chetassi; poi disse:

— E perchè non potevano essere gli altri due, i figli dell’amica dello straniero?

— Perchè loro avevano monete d’oro, da regalare alle spose, non croci....

— Anche le monete hanno la croce, — ella disse, — ascoltami. In casa di tutte le spose passa lo straniero e regala loro una croce. Credi tu che anche le tre ragazze, stanotte, non gli sieno andate appresso? Sì, e anche loro hanno avuto la croce, e i figli saranno figli di lui. Come sei semplice! — disse infine vedendo il mio stupore. — Tu non credi in Dio? Sì, tu credi in Dio e in Cristo, e sai che Cristo non è morto. Vive sempre, è nel mondo, con noi, e gira, gira, va nelle case, benedice e moltiplica il pane a chi gli fa l’elemosina, benedice e fa dolce come il vino l’acqua a chi ha il cuore buono; e a tutte le spose regala una croce: d’oro, sì, ma croce! Era lui, e tu, semplice, non l’hai riconosciuto!

Così la croce — concluse il vecchietto — rimase tutta a me!

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.