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Siam tristi, Emilio, e da ogni salute
Messi in bando ambidue.
Io numerando vò le mie cadute,
Tu numeri le tue.
Precipitiam nel sonno e nel dolore
Ogni giorno più smorti,
Fameliche su noi volano l’ore
Qual su due nuovi morti.
E intanto il vulgo intuona per le piazze
La fanfara dell’ire,
Ed urla a noi fra le risate pazze:
«Arte dell’avvenire!»
E ridiamo noi pur colla baldoria
Che ci beffa e trascina,
Voltando il segno della nostra gloria
In motto da berlina.
Tali noi siam ed anco il refrigerio
Ci abbandona del canto.
E ne strugge perenne un desiderio
Sempre nuovo ed affranto.
Or sul suolo piombiam verso il fatale
Peso che a’ pesi è somma,
Or balziamo nel ciel dell’Ideale,
Vuote palle di gomma.
Sono stanco, languente, ho già percorso
Assai la vita rea,
Ho già sentito assai quel doppio morso
Del Vero e dell’Idea.
Ho perduti i miei sogni ad uno ad uno
Com’oboli di cieco;
Nè un sogno d’oro, ahimè! nè un sogno bruno
Oggi non ho più meco.
E come il bruco che rifà la seta
Colle smunte fibrille.
Rifeci il voto a una mia forte mèta
E cento volte e mille.
Carmi! poemi! liriche! ballate!
Drammi! odi! canzoni!...
Vanità! Vanità! glorie sognate!
Perdute illusïoni!
Non parliamone più; quelle rimorte
Poniam larve in obblio...
I miei pensier vanno verso la morte
Come l’acqua al pendio,
E se scendo le alture, a notte folta,
Solo, nella caligine,
L’anima mia già crede esser travolta
Dall’eterna vertigine.
1866, Marzo