< Il marito di Elena
Questo testo è stato riletto e controllato.
Il marito di Elena II

IL MARITO DI ELENA



I.




Camilla picchiò all’uscio, mentre i genitori stavano per andare a letto, e disse:

— Elena è fuggita.

Don Liborio rimase collo stivaletto in mano, sbalordito. Poscia andò ad aprire zoppicando, pallido come un morto.

La figliuola, colla sua voce calma di ragazza clorotica, ripetè tranquillamente:

— L’ho cercata dappertutto. Non c’è più.

Allora la mamma si rizzò a sedere sul letto, e cominciò a strillare: — M’hanno rubata mia figlia! m’hanno rubata mia figlia! — Taci! le disse suo marito. Non gridare così, chè i vicini sentono!

Il pover’uomo, tutto sottosopra, ancora mezzo scalzo, colla camicia che gli si gonfiava al pari di una gobba fra la croce degli straccali, andò ad accendere un’altra candela; ma non ci riusciva, tanto gli tremavano le mani. Poi si misero insieme a cercar per la casa, come se l’Elena stesse giuocando a rimpiatterello.

Quando don Liborio rientrò nella camera nuziale era più pallido della sua camicia, e i capelli gli piangevano di qua e di là del cranio nudo. Egli posò il candeliere sul tavolino da notte, e rimase colle braccia ciondoloni, di faccia a sua moglie seduta sul letto come una chioccia.

Donn’Anna ricominciò a guaire: — Perchè non correte? Siete ancora qui? M’hanno rubata mia figlia Elena!

Don Liborio andava raccattando i panni per la stanza, correndo all’impazzata su e giù, urtando nelle seggiole e nel cassettone, brancicando fra le sottane della moglie affagottate sul canapè. Camilla l’aiutava ad insaccarsi nel vestito, gli assettava la camicia sulle spalle, gli correva dietro col cappello e la mazza in mano. Donn’Anna, accosciata sul letto, seguitava ad inveire. — È stato Cesare! Bisogna andare dal Commissario, e dirgli che Cesare ci ha rubata la figliuola, e andrà in galera se non la sposa!

Continuando a gemere e a lamentarsi infilò una gonnella, si buttò uno scialletto sulle spalle, e si diede a frugare per le stanze anche lei, tirandosi dietro la Camilla col lume, mentre suo marito scendeva le scale barcollando. Ella rovistava in tutti i cassetti, buttando in aria ogni cosa, tastando in fondo colle mani i fazzoletti di seta ad uno ad uno, passando in rivista gli astucci degli oggetti d’oro, spalancando gli sportelli degli armadi che mostravano pendenti le spoglie inerti di Elena, gli stivalini messi in fila sotto, quasi volessero dire che i piedi di lei battevano a quell’ora la campagna. Infine, più tranquilla, andò a sedere al solito posto, davanti al tavolino della briscola, e diede sfogo alle lagrime. Camilla impalata sulla seggiola di faccia a lei, colle braccia sotto il seno e il viso dilavato, non apriva bocca. Dopo un pezzetto, vedendo che la mamma stava a sfogarsi da sola, cercò pian pianino il refe e la spoletta nel cestino, e si mise a far la trina cheta cheta, senza alzare gli occhi. In tutto il quartiere di Foria non si udiva che il tic-tac dell’orologio, in un angolo buio della stanza, di là del cerchio luminoso che la ventola spandeva sul lembo della sottana di donn’Anna e sulle mani color di cera della figliuola.

All’improvviso il gatto si mise a miagolare sottovoce, nel vano nero dell’anticamera, guardando il lume insolito cogli occhi luccicanti, e donn’Anna che s’era appisolata, si destò con un sospiro.

— Il babbo tarda molto a venire, disse allora Camilla.

Sua madre sgranò gli occhi del tutto, e rispose colla voce rauca:

— Pover’uomo!

Finalmente si udì tornare il pover’uomo, strascicando i passi nella via. Appena entrato si lasciò andare sul canapè, quasi avesse le gambe rotte, disfatto, col cappello in testa e il bastone fra le mani. E come le donne lo interrogarono ansiose, si mise in collera per darsi animo.

— Che volete adesso? Avete perso la mula, e andate cercando la cavezza? Mi hanno riso in faccia quando hanno sentito che il rapitore è più giovane di mia figlia. Capite, donn’Anna? Al giorno d’oggi non c’è polizia, nè giustizia, nè niente! Capite? Se la serva vi ruba le posate, dovete produrre i testimonii. Se uno vi ruba la figliuola, dovete dichiarare quanti anni ella abbia!

— Non han portato via nulla; rispose donn’Anna tuttora assonnata. Ho passato in rivista anche le posate.

— Hanno portato via il nostro onore, donna Anna! tuonò allora il marito rizzandosi in piedi, e picchiando della mazza sul pavimento. Hanno vituperato i nostri capelli bianchi!

E si mise ad andare su e giù per la stanza, come un leone. Donn’Anna, dinanzi a quella collera straordinaria, si rimpiccioliva nello scialletto. Infine disse:

— Io ho pianto tanto! Domandatene a Camilla.

Don Liborio, trovandosi di faccia alla figliuola, la quale alzava il naso dalla trina per far la testimonianza, le prese il capo fra le braccia, e se lo strinse al petto, dicendo che quella era la sua diletta, e non aveva altre figlie oramai. Poscia andò a pigliare la fotografia di Elena, messa in una cornicetta di velluto, e la voltò colla faccia contro il muro.

— Così! esclamò. Io non ho più figlia! Mia figlia è morta!

A quelle parole, per la prima volta il pover’uomo scoppiò a piangere davanti al rovescio bianco del quadretto che gli voltava le spalle. Le lagrime erano commoventi su quella faccia da ritratto antico, posata gravemente sulla barba a collana di padre di famiglia e di vice-segretario giubilato; sicchè la Camilla istessa adagio adagio trasse il fazzoletto di tasca, e si soffiò il naso; donna Anna scacciò il gatto che le si era accovacciato in grembo, e successe un silenzio funebre. In quella stanza muta tutto parlava ancora di Elena, la quale l’aveva piantata come aveva voltate le spalle nel ritratto: le copertine all’uncinetto che decoravano le spalliere venerande delle poltrone floscie; i fiori di carta, inalterabilmente petulanti, sugli stipi e sulle cantoniere senza pretese, senza stile, senza età e senza vernice; i vetri del balcone dipinti come una finestra di chiesa. — Ha le fate nelle mani quella ragazza! — soleva dire donn’ Anna allorchè passava in rivista le virtù della figlia dinanzi alle nuove conoscenze; e aggiungeva che le due ragazze erano pratiche altresì di tutti quei lavori più intimi e modesti che deve conoscere una buona madre di famiglia. Su ogni mobile c’erano dei ninnoli graziosi che Cesare aveva regalati ad Elena; sul tavolino i libri e i giornali che solevano leggere insieme; in un canto aspettava l’ultima pennellata un acquerello rappresentante una cascata argentina, fra due rocce color tanè, sotto un cielo oltremare, che due viandanti, maschio e femmina, osservavano dall’alto della rupe, tenendosi per mano, quasi avessero voluto fare il salto di Leucade; e fra i due usci si allungava il pianoforte che era costato degli anni di privazioni al povero genitore. Egli si faceva forza per aggrottare le ciglia guardando ad uno ad uno quegli oggetti, e si soffiava il naso furiosamente.

— La colpa è tutta nostra, donn’Anna! riprese infine battendosi la fronte col palmo della mano. L’abbiamo educata come una principessa! come se avesse dovuto sposare un re di corona! la figlia di un povero cancelliere di tribunale!..

Allora donn’Anna, seccata dal freddo e dal sonno, perse la pazienza.

— Voi non sapete come vanno queste cose! In giornata le ragazze se non sono bene educate non si maritano, quando non hanno dote.

— Vedete, come si maritano! proruppe don Liborio. Ecco come si maritano! Rendendovi la favola di Napoli! gettando il disonore sui vostri capelli bianchi.

Donn’Anna stavolta si passò la mano sui capelli neri come scarpe nuove, e si mise a brontolare fra i denti.

— Mamma! osservò timidamente Camilla.

— Infine, purchè si mariti! disse la mamma. Alla morte solo non c’è rimedio. E questa non è la prima, nè l’ultima....

Ma don Liborio si alzò inferocito, colle mani in aria, dalle quali penzolava il bastone, gridando:

— Mai! sentite, donn’Anna? Giammai!

— Cosa vuol dire questa parolaccia! strillò allora donn’Anna levando anche lei le mani e la voce. — Volete che vostra figlia non si mariti? Volete lasciarla nel peccato? Siete cristiano sì o no stasera? — E se ne andò infuriata a cacciarsi in letto, battendogli l’uscio in faccia. Però il marito, senza darle retta, s’era calcato il cappello in testa, e s’era rimesso a sedere col bastone fra le gambe, girando tristamente i pollici, e guardando intorno in quella stanza dove soleva passare le serate tranquille, giuocando a briscola con donn’Anna, seduto in mezzo alle figliuole, di cui l’una cercava le sciarade con Cesare, mentre l’altra ricamava al fianco del cugino Roberto, che doveva sempre sposarla da anni ed anni, e le contava i punti del canovaccio, cogli occhi fissi sulle mani di lei, senza dire una parola. A quel ricordo il genitore intenerito fissò gli occhi su di Camilla, e uscì a dire:

— Roberto sì che è un galantuomo!

Camilla sorpresa levò il capo, e guardò il padre un istante indecisa. Poscia non trovando che dire, tornò a chinare gli occhi sulla trina.

— Roberto non mi avrebbe fatto un tiro di quella fatta! seguitò don Liborio. Cesare non me l’avrebbe dovuto fare nemmen lui un simile affronto! Non era accolto come un figliuolo in casa nostra? Non gli volevamo bene tutti? Che gli mancava? Avrebbe dovuto aspettare che i suoi parenti si fossero persuasi a dir di sì, come tuo cugino, un anno, due anni, dieci anni se bisognava!

— Cosa gli andate contando a quella ragazza? gli rimbeccò la moglie dall’altra stanza. — Che avete perso il giudizio stasera? Venite a letto piuttosto, se no domani sarete malato.

— No! rispose don Liborio con fermezza. No, non m’importa di morire!

Di faccia a lui, in mezzo a tutta una parete di parenti e di amici in fotografia, rilegati in cornicette di cartapesta, c’era il ritratto di Cesare più grande degli altri, col collo preso fra due rigidi solini, che nondimeno sorrideva sempre graziosamente. Don Liborio si sentiva insultato da quel sorriso, ma non poteva staccarne gli occhi, e si sfogava apostrofando il ritratto, rimproverandogli la cornicetta dorata che lo faceva posare come un re in mezzo a tutti quegli altri ritratti più modesti. Così egli era stato accolto in quella casa confidente e ospitale a braccia aperte, come un beniamino, come un figliuolo; babbo e mamma s’erano abituati a non pensare ad Elena, a non far dei progetti per l’avvenire della figliuola, senza accomunarla al giovane avvocato. E costui li aveva ricompensati rubando loro la ragazza! Il povero genitore, stanco di brontolare e di mulinare col cervello, gemeva di tanto in tanto: Tradimento! tradimento! come un uomo preso fra le tanaglie del dentista.

— Camilla! tornò a dire dal letto donna Anna che non poteva conciliar sonno a quel miagolìo. Tuo padre domani sarà malato. Non senti che freddo? Fallo andare a letto.

Camilla si levò, avvolse accuratamente il bigherino nella spoletta, lo fermò con uno spillo, ripose il batufoletto nel cestino, infine venne a piantarsi davanti al babbo, col candeliere in mano, fissandogli in faccia tranquillamente gli occhi grigi. Don Liborio, continuando a brontolare: — No! lasciatemi crepare! seguì la figliuola in camera, picchiando un’ultima volta colla mazza sul pavimento prima di deporla al solito posto dietro l’uscio. Camilla dopo che gli ebbe preparato in silenzio la camicia e il berretto da notte sulla sponda del letto, e le pantofole dinanzi la poltrona, gli baciò la mano, andò a baciare la mano alla mamma, come le altre sere, e stava per andarsene, quando il padre le buttò le braccia al collo un’altra volta, per lamentarsi che gli restava quella sola, la sua Camilla. Essa lasciò sfogare il babbo, si rassettò i capelli, prese il lume, e se ne andò chetamente, chiudendosi dietro l’uscio perchè non entrasse il gatto.

Il letto di Elena era tuttora preparato per la notte, di faccia al suo, nella medesima cameretta bianca ornata di immagini di santi in tappezzeria colle teste e le mani di cartapecora in rilievo. Camilla disfece la rimboccatura, stese sul letto della sorella la coperta di lana a fiori, si acconciò i capelli quasi senza guardarsi nello specchio, messo fra due cortine, su di un tavolinetto ornato di mussolina trasparente, e cominciò a spogliarsi lentamente, fissando il letto vuoto della sorella, restando assorta di tanto in tanto ad accarezzarsi le braccia pallide e un po’ magre.

Don Liborio dal canto suo non poteva risolversi ad andare a letto; e seguitava a passeggiare su e giù, in maniche di camicia e col berretto da notte in capo, ficcando le dita ogni cinque minuti nella tabacchiera. Sua moglie gemeva sotto le coperte: — Io mi sento malata! Domani chiamatemi il medico, per carità!

Il buon’uomo allora si fermò dinanzi alla consorte, che gli mostrava un occhio malinconico di sotto le lenzuola, preso da una specie di singhiozzo che gli comprimeva la pancia dentro i calzoni fin sotto alle ascelle, scuotendo tristamente il fiocco del berretto di cotone. — Quell’assassino ci farà morir tutti! osservò infine. E tirò una presa per ricacciare indietro le lagrime.

— Sicuro che morremo tutti, se vi strapazzate così la salute! Adesso non abbiamo fatto tutto ciò che si poteva? Domani si penserà al resto. Ma se vi allettate voi, vedrete che bel costrutto! Vuol dire che non ve ne importa niente di vostra moglie, e dell’altra figlia che vi rimane!...

Don Liborio, vinto, cominciò a spogliarsi, con degli ohi! ad ogni movimento che faceva, seguitando a dondolare il capo amaramente. Poi mise la tabacchiera sotto il guanciale, e si cacciò fra le coperte in fretta e in furia, bofonchiando degli ohi! su di un altro tono, e rimase immobile, naso a naso colla moglie, cogli occhi chiusi, e la faccia lunga sotto il berretto da notte. Donn’Anna sperando che fosse finita per quella sera soffiò sulla candela.

Ma il marito dopo un pezzetto sospirò:

— Dove sarà adesso quella disgraziata?

Donn’Anna non fiatò. Però da lì a poco soggiunse:

— Quel giovane ha il fatto suo; ha preso la laurea d’avvocato, e non le farà mancare nulla a sua moglie. — Il dispiacere l’abbiamo avuto — riprese dopo un altro breve silenzio. — Ma quando vedremo nostra figlia ben situata ci consoleremo.

Don Liborio colla testa sprofondata nel guanciale, preso dal tepore del letto, non ebbe animo di protestare altrimenti che con un grosso sospiro. E sua moglie conchiuse:

— Guardate! Giacchè il dispiacere bisognava averlo, quasi quasi vorrei che fosse fuggita anche la Camilla.

— Roberto è un galantuomo! tornò allora a dire don Liborio riaprendo gli occhi torvi. Roberto non te l’avrebbe fatta una bricconata simile, dovesse aspettare dieci anni!

— Sì! non ve l’ha fatta perchè non l’hanno avanzato nell’impiego. Vorrei vedere che pensasse di farmela quando non ha di che mantenere la moglie!

Don Liborio voleva protestare, rispondere qualche cosa, per non sembrare che si arrendesse. Ma sua moglie stavolta gli diede sulla voce.

— Ora dormite, che ne parleremo domattina.

E fece cigolare il letto, col voltargli la schiena.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.