< Il marito di Elena
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II IV

III.


Il padre di Cesare di Altavilla era morto di una perniciosa acchiappata nel sorvegliare la magra raccolta dell’annata. Nel delirio dell’ultimo momento, guardando ad uno ad uno i visi che gli stavano attorno al letto stralunati, borbottava:

— Quei poveri orfani!.... Quei poveri orfani!.... come faranno?

Cesare era ancora fanciullo. Per fortuna un fratello del padre, canonico, aveva assunto coraggiosamente la tutela della vedova e degli orfani, aveva rimboccata la sottana sugli stivali, e s’era messo in campagna a comporre litigi, a rinnovare ipoteche, a sorvegliare i raccolti. Il primogenito d’accordo era stato destinato alla carriera forense, perchè la famigliuola, in lotta perennemente col bisogno, aveva sempre avuto paura dell’usciere, e in provincia sembra un mestiere d’oro quello di vender chiacchiere. In casa Dorello c’era l’esempio dello zio don Anselmo, il quale al Seminario aveva appeso a un chiodo di faccia allo scrittoio un berretto da prete, per averlo sempre sotto gli occhi a guisa di un faro, ed era arrivato ad essere canonico. Cesare doveva continuare la tradizione dello zio. Vedendolo delicato e malaticcio da fanciullo, i parenti avevano conchiuso che era un ragazzo di talento, e l’avevano tirato su a rossi d’uova e pannicelli caldi. Egli era stato il chierico della famiglia, il fondamento di tutti 1 castelli in aria che avevano fabbricato i genitori, quando si mettevano sul terrazzino, al fresco, dopo il sole dei campi, colle mani pendenti fra le ginocchia, tagliando col desiderio delle grosse porzioni pei bisogni della famiglia numerosa in tutto quel ben di Dio che si stendeva dinanzi ai loro occhi, al di là delle ultime case del paesello. Lo zio canonico, ogni volta che sua cognata si metteva a letto coi dolori del parto borbottava, soffiando e passeggiando nella stanza accanto, che in quella casa non c’era prudenza. Egli aveva preso quindi a ben volere Cesare per quel fisico intristito che gli sembrava una garanzia contro i rischi del matrimonio, e gli prometteva che il nipote dovesse riuscire un uomo prudente, come l’intendeva lui.

Il giovanetto aveva ricevuto un’educazione quasi claustrale. Ogni giorno estate o inverno andava a prendere lo zio canonico in chiesa, dopo i vespri, e se pioveva entravano dallo speziale a veder sgocciolare l’acqua lungo i vetri, lo zio colla sottana raccolta fra le gambe, scambiando qualche parola col farmacista o con altri della conversazione che stavano a ragionare colle mani sul pomo del bastone. Quand’era bel tempo facevano insieme quattro passi fuori del paese, lemme lemme, scambiando dei saluti coi conoscenti che s’incontravano, e si conoscevano tutti, oziando cogli occhi sulle gran macchie grigiastre degli oliveti, le quali si velavano già della tristezza del tramonto, ascoltando distrattamente il cicaleccio che facevano le donne alla fontana, e le voci che salivano dalle stradicciuole; discorrevano di quei campi che conoscevano palmo a palmo, s’interessavano alla loro cultura; misuravano a occhio il maggese della giornata che spiccava in bruno sulle stoppie giallastre; osservavano la chiusa preparata per le fave, punteggiata in nero dai mucchietti d’ingrasso; commentavano la vigna spampanata di fresco, irta e spugnosa in mezzo agli altri filari verdeggianti. Poi, giunti al limite solito della loro passeggiata, che era un muricciuolo soprastante un orto, lo zio spolverava col fazzoletto due sassi, e si mettevano a sedere, coi gomiti sui ginocchi, riposando gli sguardi sulla bella vallata che si stendeva ai loro piedi, scolorita, sparsa di ciuffetti di verde cupo, accanto ai rari casamenti, chiazzata di toni bruni, e biondicci, e verde pallido, solcata dalla striscia sottile dello stradone che si dileguava in lontananza. Accompagnavano macchinalmente col pensiero i carri che sfilavano come punti neri, e mettevano delle ore a scomparire laggiù per la grande distanza; e alle volte, nel vasto silenzio della pianura sottoposta, credevano di udire il fischio della ferrovia, di là delle colline, come l’eco di un altro mondo. Allora il prete rientrava in sè, e sorrideva discretamente della loro fantasticheria come di una scappatella. Il sole intanto tramontava dietro le montagne nebbiose, e in alto, sulle loro teste, le finestre della chiesa scintillavano in cima al paese come una fantastica illuminazione, e chiamavano a raccolta i loro pensieri.

Poi ritornavano indietro passo passo, colle mani dietro la schiena, accompagnandosi ai contadini che tornavano in paese spingendo innanzi l’asino o la mula carichi, mentre tutte le campane suonavano l’avemaria, nel paesetto aggruppato come un branco di pecore, sotto il cielo smorto. Lo zio canonico tornava dallo speziale dove convenivano immancabilmente il notaio, il vicepretore e qualchedun altro, sempre le medesime persone, a far crocchio, e raccontare i loro affari, o discorrere di quel che nella giornata avevano osservato degli affari altrui sulla faccia dei poderi, nella passeggiata vespertina. Cesare aveva il permesso di stare ad ascoltare anche lui sino ad un’ora di notte. Al primo tocco di campana augurava la buona sera alla compagnia, e andava a casa, dove le sorelle stavano sul terrazzino, al buio, chiacchierando colle vicine dalla strada. Pigliava il lume e saliva nella sua cameretta per mettersi a studiare. Più tardi si sentiva l’acciottolìo delle stoviglie, gli altri rumori delle faccenduole domestiche alle quali attendevano le donne. E ogni sera, alla stess’ora, si vedeva il solito lume alla finestra dei vicini dirimpetto che si mettevano a cenare.

L’influenza di siffatta adolescenza in quel temperamento delicato aveva sviluppata una sensibilità inquieta, una delicatezza di sentimenti affinati dalle abitudini contemplative, della stessa severa disciplina ecclesiastica che li rendeva timidi, raccolti, e meditabondi.

Don Anselmo non aveva guardato a sacrificii perchè il nipote fosse avvocato. La rivoluzione del 60 aveva gettato il discredito sulla professione del prete, e lo zio canonico anzitutto era un contadino pieno di buon senso, che prendeva le cose com’erano nel loro tempo e dal lato migliore. Ora il migliore dei mestieri gli sembrava fosse quello dell’uomo di legge, una specie di prete senza sottana che confessa in casa, e si fa pagar caro i casi di coscienza delicati, che va a passeggio spalla a spalla col sindaco e col pretore, al dopo pranzo, scappellato da tutti, salutato col grosso titolo ch’empie la bocca: — avvocato!

Per siffatto castello in aria la mamma s’era visto partire il figliuolo per l’università di Napoli, a piedi, dietro il carro che gli portava il letto e il tavolino colle gambe in aria, e le sorelle si erano cavati gli occhi a cucirgli il corredo quasi ei fosse andato a nozze.

A Napoli Cesare era andato ad abitare un quartierino da 35 lire e 75 al mese, insieme a quattro compagni, ciò che ripartiva le rate di fitto in ragione di sette lire e tanti centesimi a testa, e le frazioni davano origine a dispute senza fine, ogni qualvolta si facevano i conti, all’ora del desinare, col pane sotto il braccio, per timore che un compagno ci addentasse distrattamente.

Nella corte della stessa casa, di faccia al quartierino degli studenti, erano le finestre della signorina Elena, e quei diverbi clamorosi facevano correre al terrazzino tutta la famiglia del vicecancelliere, le signorine col sorriso impertinente, il babbo col berretto di velluto in testa, la serva collo strofinaccio in mano; e alle volte perfino la mamma affacciava fra le tende giallastre il viso scialbo e discreto.

La famiglia dirimpetto aveva una grande importanza agli occhi di studenti alloggiati in ragione di sette lire e pochi centesimi a testa, e che si rubavano il pane. Le signorine avevano ricevuta un’educazione quasi fossero destinate a sposare dei principi. Si udivano parlare inglese e francese sul terrazzino, suonavano il piano come non dovessero far altro tutta la vita, e di tanto in tanto mettevano alla finestra per asciugare dei dipinti che sembravano meravigliosi da lontano. Contuttociò la sorella maggiore aveva già 32 anni, e la signorina Elena, la quale leggeva dei romanzi, quando non suonava il pianoforte, guardava con certi occhi, allorchè era per la strada o sul terrazzino, come se aspettasse il personaggio romanzesco che doveva offrirle la mano, il cuore, e una carrozza a quattro cavalli. Ogni volta che le signore uscivano di casa tutte in fronzoli, i giovani studenti, nascosti dietro le invetriate, si mangiavano cogli occhi lo stivalino sdegnoso della signorina Elena che attraversava la corte fangosa in punta di piedi e colle gonnelle in mano.

Cesare, mentre i camerati esprimevano la loro ammirazione un po’ volgarmente, da contadini che aspiravano a prendersi la loro parte nella ricca messe della vita, era il solo che si tenesse contegnoso e riserbato, come uno avvezzo dalla educazione ecclesiastica a rispettare le gerarchie. Da ragazzo era sempre vissuto in mezzo a quella miseria decente che stende una tinta grigia su tutti gli atti della vita, e li regola con un calcolo implacabile, che dà un’enorme importanza alla ricchezza pel penoso e continuo contrasto fra l’essere e il parere. Egli sapeva quel che ci vuole a portare il don nel paesetto, il cappello a cilindro alla domenica, i guanti per andare a messa le sorelle; quel che costi di scarpe una bella passeggiata, e quel che valga una giornata di studente. Egli lavorava quindi come un mezzadro coscienzioso che non voglia rubare la sua giornata. Le signorine dirimpetto, quando rientravano a casa tardi, vedevano sempre il lume alla finestra di lui, davanti ai libri schierati sul tavolino. Egli non ignorava che bisognava picchiare e picchiare nella testa come colla zappa per farci entrare la laurea. Per tutta distrazione, alla sera, quando i camerati sgattaiolavano fuori alla conquista delle serve del vicinato, egli si metteva alla finestra, pensando alle sorelle che chiacchieravano a quell’ora colle vicine dal terrazzino, e alla mamma che gli aveva messo di nascosto cinque lire in tasca prima di partire.

La corte deserta era silenziosa e malinconica, chiusa da tre lati fra alti muri nerastri, colle finestre quasi tutte murate dall’epoca della tassa sulle aperture, e rimaste cieche dal 1848 per economia di vetri, sulle pareti scalcinate, senz’altro rilievo che quei davanzali scantonati che lasciavano colare tuttora la striscia sudicia degli antichi condotti. Dall’altro lato si rizzava un alto muro di chiesa, tutto bucherellato al pari di una colombaia, con una grande finestra ad arco in cima, che lasciava passare dai vetri cascanti e polverosi, il pallido riflesso delle lampade e un vago odor di cantina. All’imbrunire una campanella fessa suonava l’angelus, in cima al muragliene della chiesa, fra i quattro pilastri neri del campanile ritti sul fondo pallido del crepuscolo, e sembrava gettare a flotti nella corte delle ombre grigie, una solitudine più desolata, un desiderio malinconico del paesetto natale, dell’ora in cui i lumi si accendono ad uno ad uno nella stradicciuola tortuosa. Ogni sera alla stessa ora la serva di don Liborio accendeva anch’essa il lume, e lo lasciava solo, nell’anticamera vuota dalla quale arrivavano il suono gaio del pianoforte di Elena, o la voce delle ragazze.

Il giorno della laurea, quando si dovette spalancare il portone a due battenti per lasciar penetrare nella corte la carrozza che veniva a pigliare Cesare in giubba e cravatta bianca, fu un grande avvenimento per tutto il vicinato. La notizia correva da un terrazzino all’altro. Le signorine seppero in tal modo che il giovanotto andava a pigliare la laurea d’avvocato, la parola magica che faceva dire al genitore, col berretto di velluto in capo:

— Oggi quella è la carriera che mena a tutto. Chissà? forse in cotesto giovane c’è la stoffa di un ministro.

E la mamma donn’Anna che suggeriva all’Elena:

— Adesso, colla cravatta bianca, non c’è male. È vero?

La signorina Elena, com’era tornata l’estate, si affacciava spesso, coi romanzi, coi versi, coi quadri dipinti. La sorella si metteva anche lei a lavorare sul terrazzino, al fresco, silenziosamente e cogli occhi fitti sul ricamo. La mamma non compariva mai, e don Liborio, vedendo sempre quel giovanotto tranquillo e studioso alla finestra di faccia lo salutava toccandosi il berretto.

E naturalmente finirono anche per incontrarsi, di sera o di giorno, nell’androne, nell’uscire o nel tornare a casa, e attaccar discorso con un pretesto qualsiasi. Così a poco a poco, un passo dietro l’altro, mentre le ragazze procedevano per la scala a capo chino, i due coniugi dissero al giovanotto che se desiderava fare qualche visita, giacchè erano vicini, quando le sue occupazioni d’avvocato gliene avessero lasciato il tempo, sarebbero stati lietissimi di riceverlo, così alla buona, in famiglia. Le ragazze possedevano qualche piccolo talento di società, a don Liborio gli piaceva ragionare con gente istruita, per scambiare delle idee sulla legislazione, la politica, ed altri argomenti serii.

Il giovane andava in casa della signorina Elena a parlare di cose serie, molto serie, guardando di sottecchi la signorina, ed imbrogliandosi allorchè costei gli piantava in faccia i suoi occhioni castagni. La sorella Camilla, tacita come un’ombra, non levava il naso dal lavoro. Il babbo, commentando le questioni del giorno, faceva la partita colla moglie, un’abitudine che aveva presa da tanti anni, nel lungo tirocinio che aveva fatto in provincia, dove le sere durano eterne, una specie di omaggio reso alla sua buona e fedele compagna per ricompensarla dalle lunghe peregrinazioni, dell’esilio in cui l’aveva costretta a passare quasi tutta la vita. Donn’Anna, quando non stava a bisticciarsi col marito, era sempre in moto, da buona massaia. Assicurava che le sue ragazze, con quelle manine bianche, e le virtù che possedevano, sapevano anche far di tutto in famiglia, ed erano più brave di lei.

Fra gli ospiti abituali della casa c’era un giovanotto maturo, vestito sempre all’ultima moda, il quale non mancava mai, non parlava mai, non fumava, sedeva sempre accanto a Camilla, sotto il paralume verde, o passava la sera a sceglierle i gomitoli, e a contarle i punti sul canovaccio. Donn’Anna nel presentare Roberto, aveva aggiunto che era impiegato all’Ospizio dei trovatelli, ed era un po’ loro parente. Più tardi, allorchè il giovane avvocato fu maggiormente nell’intimità della famiglia, venne a sapere che doveva entrare nel parentado sposando la signorina Camilla, appena avesse ottenuto l’avanzamento che aspettava da sett’anni.

A poco a poco era arrivato ad essere come un parente della famiglia anche lui. La mamma gli sorrideva, don Liborio l’accoglieva con un Oh! cordiale, la signorina Camilla, senza aprir bocca, metteva una seggiola accanto a quella della sorella, presso il tavolino, e Roberto gli stendeva in silenzio la mano, perennemente inguantata. Ma prima di arrivare a questa intimità egli era passato per una specie di tirocinio, aveva dovuto subire qualcosa come un interrogatorio, o piuttosto un esame. Il padre della signorina Elena era stato vicecancelliere al tempo dei Borboni, e aveva sulla punta delle dita tutte le questioni legali. Peggio pel Governo attuale che aveva messo al riposo un uomo di quella capacità, tanto, s’andava a finire colla repubblica! il vecchio cancelliere borbonico, messo a riposo, era diventato rosso sino al bavaro spelato del soprabito, e prestava anche un po’ di orecchio alle novità del socialismo. La mamma, col lungo stare in provincia, quando suo marito era in carica, aveva appreso perfettamente che in certi paesuccoli ci sono delle fortune modeste e solide da invidiare sinceramente, quei giorni in cui il calzolaio o il fornaio assediano la casa, e tutta la famiglia esciva a passeggio in gran gala per non udire ad ogni momento il campanello dell’uscio. Ella assumeva il contegno bonario di una donna di casa ormai lontana dalle frivolezze, e si intratteneva col giovane in discorsi serii anch’essa, a modo suo, di quel che rendevano i suoi poderi di Altavilla, del vino che davano le vigne, di quanti erano a berlo, e il giovanotto, commosso della premura affettuosa, raccontava per filo e per segno i fatti di casa sua, faceva il conto delle poche entrate della famiglia, e di quanti erano a tavola; anzi un poco vergognoso del numero, arrivava a sopprimerne qualcuno, diceva che una delle sue sorelle era troppo devota per entrare nel mondo, e voleva darsi a Dio. — La sproporzione delle ricchezze è un’ingiustizia! sentenziava don Liborio calcandosi il berretto sugli occhi. — Voi non avete che una modesta indipendenza, ma siete giovane e avete una professione che vi può far giungere a tutto. Mi piacete meglio così! — Donn’Anna allora gli sorrideva amorosamente, Camilla cercava cogli occhi la sorella, e poi interrogava collo sguardo Roberto, il quale approvava silenziosamente, con un cenno del capo.

Elena sola si manteneva riservata in tutta quella espansione d’amicizia. Se il giovane sorprendeva i suoi sguardi fissi su di lui, ella abbassava tosto gli occhi. Leggeva delle sere intere a capo chino, colla nuca bianca vellutata da una lanuggine finissima. Suonava delle ore, cogli occhi lucenti piantati sulla carta, appoggiava sulla tastiera le belle braccia nude sino al gomito, guardando qua e là distrattamente, e posava delle lunghe occhiate sul parente Roberto il quale sedeva accanto alla Camilla, col naso sul ricamo, guardandole le mani. Ella non aveva detto al giovane avvocato venti parole, quantunque fossero stati soli e senza alcun sospetto un centinaio di volte, cercando insieme una carta di musica dove non era, trovandosi per caso in anticamera quando egli arrivava, andando insieme a lui all’avanguardia se le dava il braccio. Però il giorno in cui da Altavilla gli scrissero, al tempo della vendemmia, che l’uva infradiciava tutta e non vedevano l’ora di abbracciarlo, appena il giovanotto andò a prender congedo dalla famiglia di Elena, la ragazza gli piantò in viso quegli stessi occhi castagni, che alle volte parevan neri, e chiese:

— Tornerete presto?

— A metà di novembre, — balbettò lui.

— Tanto tempo!

Non si dissero altro.

Donna Anna si congratulò perchè se avevano bisogno dell’assistenza di lui nella vendemmia, era segno che la raccolta sarebbe stata abbondante.

— Bisogna rendersi utili alla società! osservò il genitore. In fin dei conti la prosperità delle famiglie torna a vantaggio della ricchezza generale.

La signorina Elena non diceva più nulla. Era andata a sedersi nel vano della finestra e guardava fuori nella strada buia, sollevando le tendine, colla fronte appoggiata ai vetri. Allorchè il giovane si alzò per andarsene, si levò anch’essa lentamente, e andò a stringergli la mano, come tutti gli altri, e in mezzo al cicaleccio generale chiese:

— Ci scriverete almeno?

E non gli lasciava le mani.

Il giovanotto, tornato ad Altavilla, nelle tranquille passeggiate, mentre il tramonto si stendeva come una nebbia nella valle sottoposta, quando i lumi s’accendevano smorti ad uno ad uno sulle facciate vaghe delle case, lungo la stradicciuola tortuosa, pensava all’avemmaria che cadeva mesta dall’alto del campanile nel cortile di Elena, al gran muro tetro, seminato di buchi neri, alla lampada solitaria che si dondolava in mezzo all’anticamera silenziosa.

Per mantenere la promessa egli scrisse al padre di lei una lunga lettera, di cui fece e disfece una dozzina di minute, quasi avesse dovuto sostenere con quella l’esame di laurea, e che il babbo mise sotto la tabacchiera, sebbene ci fosse un periodo affettuosissimo per donn’Anna, e dei saluti assai rispettosi per le ragazze. La signorina Elena, colla sua bella calligrafia inglese, rispose pel babbo, ch’era occupatissimo, e gli cinguettò un po’ di tutto, con certo abbandono confidenziale, dandogli conto di quel che era avvenuto dopo la partenza di lui, del come passavano le serate, e che sentivano tutti la sua mancanza e si rammentavano spesso di lui. Qui la lettera si dilungava alquanto. Finiva «se le nostre notizie vi hanno fatto veramente piacere, pensate che quelle che ci darete voi ne faranno altrettanto al babbo, alla mamma, a Camilla, ed anche a chi fa da segretario».

Egli rispose subito, ma si ostinò a scrivere a don Liborio, stavolta senza minuta, descrivendogli le occupazioni della sua giornata ora per ora, diffondendosi con tenerezza sui ricordi delle belle serate che aveva avuto l’onore e la fortuna di passare in casa di lui. «Ah! che piacere sarebbe stato trovarci insieme alla campagna in questi ultimi giorni d’autunno! Quanti bei quadretti avrebbe fatto la signorina Elena! e come sarebbero stati contenti la signora Camilla e Roberto di chiacchierare sul ballatoio, al chiaro di luna, ascoltando le storielle ingenue e le canzoni delle vendemmiatrici, sdraiate alla rinfusa nella corte!...»

Tornò a rispondere la figliuola pel babbo sempre occupato, e si lasciò andare anch’essa sulla china delle memorie. — «Vi rammentate di quella bella sera che passammo insieme alla Villa? quasi nascosti dietro un gruppo d’alberi, attraverso i quali si vedeva sfilare la folla elegante, alla luce del gas? e i lieti suoni della musica che venivano a mischiarsi allo stormir delle frondi? Così mi par di vedervi nel quadretto che mi fate della vostra casina.» Ella firmava: «La vostra amica affezionatissima Elena.» Poi «la vostra affezionatissima Elena». — Infine, «La vostra Elena» senz’altro.

Sicchè a vendemmia finita, allorchè il giovanotto tornò in città a far la pratica d’avvocato, Elena appena lo rivide si fece di bracia in viso, e gli diede il bentornato con tal voce tremante che il giovane si chiuse quella voce in cuore per non dimenticarla mai più.

Entrambi si trovavano imbarazzati. Una volta che si sorpresero guardandosi a lungo negli occhi, arrossirono. Il rossore passava come una fiamma luminosa attraverso il pallore trasparente di Elena. Ella quasi inconsciamente gli accennò la mamma con uno sguardo rapidissimo che pel giovane fu tutta una rivelazione. Sino a quel momento egli non le aveva detto una parola che quell’angelo custode della Camilla non avesse potuto ascoltare senza levare gli occhi dal ricamo, seduta fra la sorella e il cugino. Le prime che le rivolse timidamente, una sera che don Liborio tardava a venire oltre l’avemaria, e donn’Anna era andata ad aspettarlo sul balcone, furono queste:

— Vostra madre è in collera con me?

Elena scosse il capo negativamente, ma rimase a testa bassa, colla fronte sulla mano. — Perdonatemi Elena, — aggiunse egli dopo un lungo silenzio.

Allora per la prima volta la giovinetta gli prese la mano di nascosto, timidamente, e gliela strinse forte, senza guardarlo.

Da quel momento per lui cominciò un’altra vita, tutta di sogni, in cui le esigenze della realtà sembravano svegliarlo di soprassalto con altrettante strappate al cuore. Egli s’indebitò coi colleghi, cogli amici, col sarto, colla camiciaia, per essere ben vestito e portar sempre dei guanti come Roberto. Ogni volta che scriveva alla sua famiglia gli toccava mentire, inventare de’ pretesti per farsi mandare del denaro che era divorato prima ancora che arrivasse. Nella tranquilla mediocrità in cui era vissuto sino allora non aveva mai provato quelle angoscie acute in mezzo all’indifferenza esigente d’una grande città. Molte volte, nelle tetre ore di scoraggiamento, solo nella sua cameretta, coi gomiti sul tavolino e la testa fra le mani, pensava come un rifugio alla vasta campagna serena che si svolgeva di là della sua finestra di Altavilla, a quella pace inalterabile del paesello in cui i ferri di una cavalcatura e gli stivali dei contadini che risuonavano a rari intervalli sul selciato delle stradaccie, avevano qualcosa di noto e di amico. E gli venivano le lagrime agli occhi nel contemplare le fotografie de’ suoi parenti, messe in fila lungo il muro, neri e stecchiti nei loro abiti da festa, accanto al ritratto di Elena. Ormai quando arrivava in casa di don Liborio tutto gli pareva mutato come si sentiva mutato internamente. Donn’Anna sembrava covasse l’Elena cogli occhi, posava sulla figliuola certi sguardi lunghi e desolati quasi tutte le sue viscere materne vi si stemperassero. Camilla, impassibile, quando tutti tacevano da un pezzo senza saper perchè, diceva qualche parola sottovoce al cugino, come in chiesa, colla sua voce calma che sembrava misteriosa in quel silenzio imbarazzante. Don Liborio stesso non era più quello, trinciava delle sentenze radicali sulle questioni politiche, aveva degli occhiacci torvi sulla faccia incorniciata dalla onesta barba bianca, si calcava sugli occhi il berretto ricamato, e fra una partita e l’altra tirava su delle prese di tabacco rumorose come razzi. Elena, colla testolina china sul libro o sul lavoro, in atteggiamento da vittima, figgeva in viso a Cesare delle occhiate lente e malinconiche, ogni volta che alzava il capo, e il seno le si gonfiava e faceva alitare la blonda come cosa viva. Il pianoforte, lungo disteso, taceva anch’esso da settimane e settimane, talchè la cosa più allegra di quel salotto, in mezzo al fruscìo delle carte da giuoco, e lo scricchiolìo secco dei ferri di Camilla, era Roberto, seduto accanto a lei, a guardarle le mani che facevano andare la spoletta, inamidato e taciturno.

Quell’aria di musoneria si estendeva come un contagio. Persino la briscola languiva, e don Liborio mischiava le carte svogliatamente. Donn’Anna una volta arrivò a troncare la partita prima del solito per chiedere al giovane quando pensava ad aprir studio d’avvocato, se nella sua famiglia c’era qualche progetto riguardo al suo avvenire, se le sue sorelle pensavano di accasarsi prima di lui, ecc. ecc. Don Liborio, coi gomiti sul tavolino, e il berretto fra le mani, ascoltava taciturno. Infine, sentenziò che il primo dovere di ogni galantuomo era di crearsi una famiglia, e un avvocato per posarsi agli occhi del pubblico, ha bisogno indispensabile di prender moglie. Roberto, il quale aspettava da sett’anni l’avanzamento nell’ospizio dei trovatelli per ammogliarsi anche lui, approvava col capo, seduto accanto alla sorella maggiore

— Per una madre di famiglia, conchiudeva donn’Anna, è un gran pensiero quello di dar stato ai figliuoli. Lo so io cos’è aver in casa delle figliuole da marito. E bisogna star sempre cogli occhi aperti. Non parlo per voi, Cesare, che siete un galantuomo. Ma è un pericolo serio, Dio liberi!

E don Liborio andando su e giù per la stanza colla tabacchiera in pugno, aggiungeva:

— La nostra legislazione è incompleta, perchè non punisce sufficientemente i tradimenti domestici. Chi abusa della fiducia e dell’ospitalità di una famiglia onesta dovrebbe essere condannato ai ferri!

Oppure:

— Vorrei vedere, adesso che hanno messa questa moda dei giurati, cosa mi direbbero se mi facessi giustizia colle mie mani, in un caso simile?

Fu allora che Elena, nel momento che il babbo aveva ripreso a giuocare e a bisticciarsi colla mamma, aveva piantato in faccia a Cesare gli occhi penetranti, e gli aveva detto con quella voce tutta sua:

— Ho paura!

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