< Il marito di Elena
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IV VI

V.


Era di ottobre. Tutte le famiglie di Altavilla erano in villeggiatura per sorvegliare la vendemmia. Alla Rosamarina l’arrivo degli sposi fu un avvenimento. Elena colle sue toelette nuove, coi suoi ombrellini vistosi, metteva i gai colori cittadini nel verde pallido delle vigne, sulle roccie pittoresche, già brulle, in mezzo alle tinte melanconiche dell’estate che si dileguava. Ella era realmente felice, nel pieno sviluppo della sua natura esuberante, avida di sensazioni piacevoli, sedotta dallo spettacolo nuovo della campagna, accarezzata dalla adorazione concentrata e quasi timida del marito, lusingata dal rispetto semibarbaro con cui i contadini accoglievano la nuova padrona, da quell’ammirazione attonita che leggeva sui loro volti quando si allineavano lungo il muro per lasciarla passare ogni volta che la incontravano mentre andava pei suoi viali, nella sua vigna, nel suo podere, coll’ombrellino sulla spalla, al braccio di suo marito, il padrone, che le si inginocchiava ai piedi, dietro la siepe, e le baciava gli stivalini di pelle dorata. All’alba correva nei campi velati dalla nebbia del mattino, in mezzo alle lodole che si levavano trillando verso il cielo color di madreperla, ancora spettinata, senza guanti, tenendo a due mani il lembo del vestito, respirando a pieni polmoni l’aria frizzante e imbalsamata di nepitella e di ramerino. Godeva in sentire la frescura della rugiada sotto i piedi. Le piaceva sdraiarsi sull’erba sempre verde, in mezzo al folto delle macchie, nelle ore calde del meriggio, supina, colle braccia in croce sotto l’occipite, e bersi cogli occhi, colle labbra turgide, colle narici palpitanti, con tutta la persona avida e abbandonata, l’azzurro intenso del cielo, quei profumi acuti, quel ronzìo e quel crepitìo sommesso di tanti organismi, quella quiete solenne in cui si sentiva l’espandersi di una vita universale, quel canto dei vendemmiatori che non si vedevano, tutti quei rumori e tutte quelle voci che venivano a morire sull’alta muraglia brulla della Rocca, senza un’ombra, senza un filo d’erba, arsa dal sole, in fondo al verde cupo e profondo dei nocciuoli, ritta contro il cielo turchino. Quel paesaggio per la maggior parte infruttifero era di un pittoresco stupendo, si svolgeva a destra e a sinistra con bruschi cambiamenti di prospettiva, con ricca varietà di toni e di colori, coi greppi brulli e giganteschi, le macchie sterminate, i valloni profondi, a guisa di un parco immenso, con una grandiosità di linee che Elena sola sapeva apprezzare. Però i villani facevano spallucce al suo entusiasmo per quella rocca di granito che non fruttava niente, e di cui ella andava superba come di possedere un feudo. Invece il loro entusiasmo lo riserbavano per le terre del Barone, piatte, senza una pennellata di colori ricchi, vere terre da maggese, che nell’estate si screpolavano come un vulcano estinto. Elena era forse la sola che fosse orgogliosa di possedere quel paesaggio. Il sentimento della proprietà nasceva e si sviluppava in lei con alcunchè d’artistico e di raffinato. Quando il sole tramontava nella sua vigna, aveva là, e non altrove, quegli ultimi effetti di luce calda e dorata sulle foglie ingiallite, sul verde cupo dei roveti che imboscavano il vallone, sulla grigia montagna di granito tinta di roseo e di violetto pallido. L’ombra si allargava dalla Rocca, dal folto dei nocciuoli come un velo di tristezza, e il sole invece saliva lentamente sulla facciata bianca della casina, accendeva i vetri delle finestre, sembrava far sbocciare in quel punto i fiori campestri in cima alla siepe coronata da un pulviscolo dorato. In fondo, nella valle, le terre del Barone si stendevano diggià scure, annegate nella nebbia, solcate dalla lunga fila d’aratri che preparavano il maggese tutto l’anno. E Cesare, il marito, colla testa sui ginocchi di Elena, le diceva:

— Vorrei essere ricco come il Barone per renderti felice.

Quel paesaggio, quelle nuove sensazioni avevano una grande influenza sulla natura di Elena, impressionabile e appassionata. In quel l’ora di effusione, nel gran silenzio della sera, nell’isolamento completo della campagna profumata, il marito le si abbandonava completamente, le apriva intero il suo cuore, coi pudori, colle timidezze, colle espansioni, colle angoscie e i rimorsi del suo affetto fervente e vergine. Guardando le stelle che sorgevano al disopra della Rocca, col capo fra i ginocchi di Elena, le narrava le pene che aveva sofferto pel suo amore, il rimorso che ella gli era costato, quando aveva visto partire la sua povera madre desolata. Ora anch’egli non aveva altri al mondo, perciò alle volte sentiva il bisogno di immergere il suo volto nel seno di lei, di chiudere gli occhi, di non pensare più a nulla.

Con lei dimenticava le inquiete proccupazioni dell’avvenire e le molestie pungenti e meschine del presente che lo costringevano a farsi prestar denaro dal notaio. Ella non sapeva nulla di tutto ciò. Lo credeva felice come lei era felice, avrebbe voluto correre pei campi insieme a lui, come due fanciulli, abbandonarsi completamente ai suoi capricci. La sera stavano a prendere il fresco sulla terrazza, di faccia alla roccia, che tagliava come una gran tenda nera il cielo tutto luccicante di stelle. Di là si udivano discorrere i vendemmiatori nel palmento, e dall’altra parte della vallata, nella viottola che correva sulla cornice della Rocca, si udiva il corno che annunziava l’arrivo degli altri carichi d’uva. Elena, coi gomiti sulla ringhiera, al fianco del marito, ascoltava distrattamente quell’affaccendarsi di gente a tarda ora, quei suoni di corno lontani, vagava cogli occhi sull’aspetto indeciso del podere, di cui i confini sembravano allargarsi indefinitamente nelle tenebre, sino al lumicino lontano che tremolava in fondo la valle, nel vasto caseggiato del Barone. Si sentiva ricca e felice. Allora, stranamente commossa, si stringeva contro il marito, in mezzo al discorrere sommesso di tutta quella gente che viveva per loro, e gli appoggiava la testa sulla spalla, con un abbandono pieno e riconoscente di tutto il suo essere.

Lui, nel sogno febbrile della sua luna di miele, aveva dei risvegli bruschi e penosi, dei sussulti inquieti, delle vaghe angoscie. Ogni cantuccio di quella villetta rustica aveva delle memorie care ed intime, che si ridestavano come un rimorso. Quand’era solo al balcone, verso l’avemaria, e il paesello di faccia andava abbuiandosi, e spandeva nel cielo pallido, dall’alto, le nota mesta delle sue campane, e si accendevano ad uno ad uno i suoi lumi tranquilli, gli passava dinanzi agli occhi la visione di tanti ricordi domestici che mai gli erano sembrati tanto affettuosi e impressi al vivo dentro di sè. Ripensava alle parole di sua madre: «Chissà se ti vedrò mai più?» come una dolcezza melanconica e lontana. Solo si rasserenava al sentirsi accanto l’Elena che si appoggiava al suo omero. Nè l’accusava di indifferenza, per la sua gaiezza spensierata.

— È una bambina! ella non sa nulla!... — diceva fra di sè colla generosa indulgenza delle nature vittime della propria bontà, e che cercano nella propria debolezza la spiegazione e la scusa di ogni fallo altrui.

Un giorno andò ad Altavilla all’ora dei vespri, per incontrare la mamma in chiesa.

Là, nella penombra della navata, resa più triste dal lumicino che ammiccava davanti all’altare e dalle lunghe tende violette che chiudevano le arcate, egli vide la sua vecchiarella curva sull’inginocchiatoio, e che pregava certamente il Signore anche per lui. La poveretta piangeva e rideva di gioia nel rivedere il figliuolo, e si stringeva il suo capo sul petto scarno, dinanzi agli occhi della Madonna, che è madre anche lei. Ella sembrava più grande di Cesare in quel momento. Il tramonto, scintillante sui vetri come una gloria, riempiva ancora di luce la volta della chiesa alta e sonora.

— Ora, disse la madre, inginocchiati con me. E preghiamo insieme Iddio. — Signore, dategli la grazia dell’anima! borbottava tenendo per mano Cesare come un bambino. — Signore, dategli la salute! Signore, dategli la providenza, dategli la pace e la felicità coi suoi cari, sopratutto con sua moglie,

Chi gliel’avrebbe detto allora, a quella povera madre!...

Ella rimase qualche momento pregando fervidamente dentro di sè, cogli occhi ardentemente fissi sul Crocifisso. In questo momento si udiva nelle tenebre del coro, dietro l’altare, il salmodiare funebre dei canonici, nel silenzio della chiesa che cominciava a esser rotto dallo scalpicciare di qualche fedele. In alto la campana chiamava alla benedizione. Un chierico accese quattro candele sull’altare maggiore, e un prete piccolo e grasso, rizzandosi sulla punta dei piedi, aprì il tabernacolo, orò un momento colla fronte appoggiata all’altare, e poi si voltò verso il pubblico, accompagnato dallo scampanìo festoso, colla sfera raggiante in alto, benedicendo il mondo di là del finestrone lucente, su cui calava la notte. La vecchierella agitava febbrilmente le labbra con una tacita preghiera, tenendo stretta la mano del figliuolo quasi per comunicargli la sua fede. La cantilena malinconica degli astanti si estinse a poco a poco.

— Ora lasciami vedere come stai, — gli disse conducendolo alla luce incerta del crepuscolo, sulla porta della chiesa. Ella però era abbattuta e gialla come una cartapecora. — Io son vecchia, ripeteva, e non importa. Ma ti raccomando le tue sorelle, se venisse a mancare tuo zio, e ti raccomando pure di voler sempre bene a tua moglie. Ora tu appartieni a lei. Te l’ha data quel Signore istesso che ci ha benedetti or ora.

La gente sgranava gli occhi vedendo Cesare al fianco di sua madre. Ma questa gli diceva: — Non ci badare. Tuo zio non dirà nulla se accompagni tua madre sino alla porta di casa.

Lungo la strada si andava informando di tanti piccoli particolari. Gli chiedeva se il suo studio di avvocato cominciasse ad avviarsi, se la casa l’avesse ben fornita a Napoli, se sua moglie fosse buona massaia. Gli dava dei consigli grossolani da contadina: — Pensaci, figliuol mio! ora che hai il peso della casa addosso. La Rosamarina non ti basterà a tirare innanzi. Bada a non fare debiti, chè si mangiano la casa. Settemila lire volano in un lampo. Non far debiti. — Ella andava ripetendo tutte le massime giudiziose che si dicevano in paese, e andava cercando sgomenta se non avesse dimenticato qualcosa. Non sapeva che lui aveva cominciato a far debiti sulla Rosamarina. — Vorrei vedere tua moglie per dirle queste cose.

Intanto erano giunti dinanzi alla casa, e alzando il capo vide il lume nella camera del cognato. — Se le tue sorelle avessero saputo che venivi, sarebbero al balcone per vederti. Ma torna domenica, che se posso le condurrò un po’ fuori a spasso per vederti. Le povere ragazze non osano parlarne dinanzi allo zio. Se non fosse per lui ti farei salire di sopra.... Ma sai che abbiamo bisogno di lui. Ora addio!

E infilò la scala, stanca, tenendosi alla ringhiera. Il figlio tornò indietro, col cuore stretto, avendo sempre dinanzi agli occhi quella mano scarna, che si appoggiava alla ringhiera, e quel dorso curvo, che ansimava ad ogni scalino. Quante volte, in mezzo alle spensierate prodigalità del presente ricco di sensazioni e di divertimenti, gli si sarà abbuiata la gioia rammentando le inquiete raccomandazioni della mamma e i suoi consigli di parsimonia? Finita la vendemmia, i vicini di campagna, i quali non sapevano come ingannare il tempo, mentre aspettavano la raccolta delle olive, vennero a fare visita agli sposi: la signora Goliano, la signora Brancato, le ragazze Favrini, infagottate in abiti da festa, rialzando sino al ginocchio le sottane per non insudiciarle sull’erba umida: i mariti nascondendo nei guanti nuovi le loro mani nere dal sole, vere mani da contadini. Si faceva della musica, si ballava, si improvvisavano delle merende nell’erba, delle sciarade in azione, prendendosi in giro per le mani a significare O, e camuffati colle coperte del letto, e cogli scialli avvolti in turbante quando il tutto era Serraglio. Elena, elegante, piena di brio, aveva messo in rivoluzione il vicinato. Le signore, tappate in casa, lavoravano d’ago e di forbice tutto il giorno per copiare le sue vesti attillate, i suoi guanti lunghi, i suoi cappellini arditi, si cucivano delle sottane, si mettevano in testa tutti i fiori del giardino. Ella era tanto felice che non si accorgeva dei momenti di preoccupazione, delle ansietà crudeli che passavano di tanto in tanto sul volto del marito, allorchè andava a ricantucciarsi nello studiolo per scrivere al notaio, delle lunghe confabulazioni col messo che portava la risposta. Tutt’al più gli domandava:

— Di che scrivi?

— D’affari, rispondeva lui.

— Ah! E si stringeva nelle spalle con un atto d’ingenuo egoismo, quasi il suo solo e grande affare fosse di godersi quella vita facile e allegra, senza badare alle pene segrete che arrecava a Cesare tutto quel movimento, quell’allegria rubata alla sua luna di miele, quel desiderio di piacere che ispirava sua moglie, che egli indovinava colla sua penetrazione delicata e quasi malaticcia, che sentiva ronzare là intorno per quei burroni, fra quelle macchie, dove i vicini stavano tutto il giorno col pretesto di cacciare. Però sarebbe morto di vergogna prima di confessarle la sua strana gelosia. Anzi, allorchè udiva l’abbaiare dei cani nella Rocca, o lo sparo dei fucili, la chiamava, le indicava la leggera fumata che si dileguava lentamente da un folto di macchie arrampicate sulla fenditura della montagna ad un’altezza vertiginosa, e le diceva: — Là, vedi, là! dev’essere il tale, o il tal altro.

— Ah! esclamava Elena, mettendosi una mano sugli occhi, lassù?... su quel precipizio?

E restava intenta, coi pugni stretti. Alle volte chiedeva:

— Perchè non sei cacciatore anche tu?

Ella aveva di cotesti istinti, quella giovinetta. Lui non trovava altro che un sorriso dolce e triste. Delle altre volte ella esclamava:

— Se fossi un uomo, vorrei andare a caccia anch’io!... Dev’essere una bella cosa!... una cosa in cui ci si sente vivere!

I vicini avevano progettato una cavalcata sugli asini che per Elena fu un vero avvenimento. Era una bella sera fresca e profumata. Ogni siepe, ogni macchia di capperi, ogni sterpolino di rovo era in festa, coi suoi fiori, colle sue bacche, coi suoi ciuffetti ondeggianti, col ronzìo degli insetti, col trillare dei grilli, col cinguettìo dei pettirossi che si annidavano, col gracidar delle rane che saliva dalla pianura, stesa come un mare, laggiù, sino alle montagne color di cielo. Tutte quelle cose che lasciano germi misteriosi nella testa o nel cuore. Di tanto in tanto la brezza recava il suono delle campane dal paesetto in festa, dorato dal sole, scintillante da tutte le sue finestre. Elena chiamava suo marito che cavalcava un po’ avanti, col pretesto di farsi accorciare la staffa, ma in realtà per vedersi china sul ginocchio la sola testa in cui potesse supporre in quel momento i medesimi pensieri che si agitavano nella sua, in mezzo a quegli uomini che cavalcavano come se andassero alla fiera, e quelle donne che ciarlavano tutte insieme al pari di gazze.

— Tu sei per me! gli disse all’orecchio. Stammi vicino. Non mi lasciar sola.

La viottola formava un gomito e s’internava in un boschetto lungo il vallone, di cui i rami si intrecciavano sul sentiero perennemente verde di muschio, irto di sassi umidi. In fondo l’acqua scorreva con un gorgoglìo sommesso, quasi fosse stata a cento metri di profondità sotto i roveti che coprivano il vallone, su cui si posavano le cicale al meriggio, colle ali aperte, con un ronzìo fresco anch’esso come lo scorrere delle acque, e le rondini volavano inquiete. Ogni volta che i rami si diradavano vedevasi sempre a sinistra la Rocca, ritta sino al cielo, nuda, screpolata da larghe fenditure boscose, sparsa come una lebbra da qualche rara macchia. Si sentiva sempre, a ridosso del sentiero anche quando i rami la nascondevano, dall’uggia densa, dall’umidità perpetua, da un non so che di tetro e di selvaggio che spandeva fin dove stendevasi la sua ombra. Di tratto in tratto un merlo fuggiva all’improvviso, schiamazzando, facendo scrosciare le frasche. Erano rimasti soli; si era dileguato perfino il rumore delle cavalcature che precedevano. Elena allora trasaliva e scoppiava a ridere. E all’orecchio, attirandolo più vicino a sè: — Se ci assalissero i ladri, mi difenderesti? — Egli si metteva a ridere; Elena tornava ad insistere, voleva sapere se si sentiva di difenderla. Si corrucciava quasi che egli non fosse un ercole, e che non fosse pronto a farsi ammazzare per lei. Infine gli diceva:

— Quanto ti voglio bene! Come mi sento felice!

E sporgendo il viso verso di lui, gli avventava un bacio.

Giunti alla pianura uno della comitiva propose di fare una visita alla villa del Barone.

A dritta e a manca si stendevano delle praterie immense, solcate dal maggese, tagliati a vasti quadrati di fave; qua e là giallastre di stoppia a perdita di vista. Alle falde delle colline si arrampicavano le vigne, in interminabili filari già diradati dall’autunno, sino agli oliveti, folti, vasti come un mare di nebbia, grigiastri nell’ora malinconica. Più in alto, sulle cime brulle, si vedevano errare le numerose mandre, come delle immense ombre di nuvole vaganti in un giorno procelloso sul paesaggio lontano, e i buoi che scendevano al piano, più radi, di cui si sentiva la campanella monotona nel gran silenzio del tramonto. Di tanto in tanto, s’incontrava un casolare, un gruppetto di fabbricati rustici, specie di piccoli centri di cultura, cogli arnesi sparsi all’intorno sull’aia verde, le alte biche di paglia che sovrastavano il tetto colla crocetta di canna. In fondo, in mezzo a un quadrato di verdura cinto da un muro bianco si vedeva un gran casamento col tetto rosso, i vetri delle finestre lucenti, sormontato da un campanile tozzo.

— Son le case del Barone; dicevano. C’è anche la chiesa. — Quei possessi, di qua, di là, dapertutto, erano del Barone, sin dove si vedevano biancheggiare delle mandre che pascolavano nelle sue terre, sin dove si udiva la campanella della sua chiesa. Narravano pure quel che rendevano quelle vigne, quanto valessero quegli oliveti, quanti capi di bestiame pascolassero nel suo, quanto misuravano quelle buone terre in pianura che valevano 200 ducati la salma. Pareva che volessero fare entrare nella testa di quella cittadina l’importanza enorme della ricchezza. — Alle volte, quando l’annata è buona, quei casamenti là non gli bastano per rinchiudervi la sua raccolta. — I giorni in cui vendemmia il Barone non si può avere più un ragazzo o una vendemmiatrice a 15 miglia in giro. — I suoi fattori facevano il prezzo del bestiame alle fiere. I denari gli piovevano da ogni parte come la grandine. — Ed è figliuol unico! Nelle case ricche i figliuoli vengono sempre con parsimonia! Sua madre, la baronessa, per non lasciarlo affogare nel denaro, ogni anno gli comprava una tenuta, o un oliveto. — È una donna coi calzoni, dicevano. Se campa lascerà tanta terra al figliuolo, che i suoi possessi non finiranno più. Non si può maritare, perchè è difficile trovare una moglie ricca come lui.

La viottola, dacchè erano entrati nelle terre del barone, diventava una bella strada carrozzabile, fiancheggiata da una doppia fila di alberi giovani, ancora circondati da un muricciuolo a secco per difenderli dalle bestie. — Faranno ombra quando saranno cresciuti, e intanto daranno frutto, e non si mangeranno la terra a tradimento — aggiungevano. — La baronessa è una donna coi calzoni! Facendo la strada non ha voluto perder del tutto la terra, e ha fatto la strada perchè ci hanno cavalli e carrozze. Potrebbero sfoggiarla in città, tanto son ricchi!

Sulla strada passavano continuamente carri, e bestie da soma, e vetturali che salutavano i vicini rispettosamente, da gente di buona famiglia. Di là dalle siepi, pei campi, scorazzavano stormi interi di tacchini e di polli. In fondo si vedeva il caseggiato massiccio, grande quanto un villaggio, su cui aleggiava un nugolo di piccioni. Tutt’intorno all’aia che si stendeva dinanzi al portone spalancato erano delle carrette colle stanghe in aria, degli aratri staccati, una doppia fila di cestoni giganteschi di vimini, che aspettavano i buoi, riboccanti di fieno, fissati al suolo con dei cavicchi di legno e la fune pendente da un lato. A diritta ed a manca si stendevano delle tettoie immense, delle montagne di fieno grandi come case; sulla porta stavano una dozzina di contadini, delle donne accoccolate, dei campieri massicci, colla tracolla sull’uniforme sbottonato e gli sproni agli stivali, a godersi la domenica, senza far nulla, colle mani in mano, e un branco di cani ronzanti e abbaianti intorno.

Il fattore si alzò per ricevere gli ospiti, e andò ad acquietare i cani a grida e a sassate. La piccola comitiva entrò in una corte vasta quanto una piazza, coperta di erba secca come un prato. Alcuni sentieri battuti la segnavano con lunghe strisce biancastre da un capo all’altro e la facevano sembrare più grande. All’ingiro erano dei magazzini che non finivano più, con piccole finestre ingraticolate lungo i muri screpolati, con delle immense cantine di cui l’umidità sotterranea trasudava dalle muraglie verdastre, delle rimesse spalancate come stallazzi, delle case di contadini nere e profonde a guisa di antri. Ai due lati, degli abbeveratoi larghi come stagni, che allagavano quella parte della corte, dove sguazzavano le anitre e sgambettavano i monelli colle brache tirate sul ginocchio. La notte vi si sentivano le rane. Da un lato era la scala sconquassata, tremante in ogni balaustro di granito, larga come una scalinata di cattedrale, che si arrampicava tutta a gobbe sino alla porta dell’abitazione principale sormontata da un grande scudo, sbocconcellato, incoronato da un cimiero di cui restava una sola piuma di pietra confitta a un rampone di ferro. Sotto l’arco della scala si rincantucciava come sotto il pronao di una basilica medioevale, la porta della chiesa sgangherata, bianca dal tempo, murata da ciottoli e da arnesi gettati lì contro per tener sgombra la corte, e al di sopra, sullo scudo impennacchiato che si reggeva sui ramponi arrugginiti, rizzava il capo dimezzato il campanile, colla campanella fessa, colla croce magra di ferro, sull’immenso azzurro del cielo.

Elena camminava adagio sull’erba secca, in quell’immensa corte deserta e silenziosa, quasi timida, dietro il servo dagli scarponi da contadino che andava ad annunziare la visita col berretto in mano, precedendoli in punta di piedi per la vasta anticamera sonora e scura come una chiesa, dall’ammattonato nudo, dalle pareti imbiancate a calce, alle quali tutt’ingiro, al disopra di selle vecchie e di finimenti messi sul cavalletto, di giganteschi cestoni colmi di legumi e di nocciuoli, erano appesi dei ritratti di famiglia, fatti colla scopa, polverosi, alcuni senza cornice, ma tutti decorati da un grosso blasone messo in cima, di lato, sotto i piedi, coronato, zeppo di croci, di torri, di sbarre, di stelle, e di bestie feroci. I ritratti rappresentavano cavalieri bardati di ferro, gentiluomini di S. M. Cattolica, colla testa adagiata sul collaretto spagnuolo come su di un piatto, creadi del Re; gli ultimi, i più recenti, vestiti dell’abito di spada, o in costume da senatore, la più alta carica municipale del paese, imbacuccati nella toga che nessuno aveva mai avuto, e che l’artista disegnava di maniera su di un modello noto; dame stecchite nel busto, e che sembrava fossero state sempre dipinte, per non aversi a piegare. Tutti sotto il nero fumo, e il giallo d’ocra, serbavano il cipiglio solenne, l’atteggiamento maestoso di gente che ha lì, a portata di mano, il berretto ricamato di perle da barone; e persino quei faccioni moderni di buoni campagnuoli, erano posati pian piano dall’artista sul rettangolo bianco del collare della toga, onde mostrare che erano teste per quelle corone là. — Son gli antenati del Barone, — andavano chiacchierando dietro le spalle di Elena — Gente venuta di Spagna col Re, ce n’è di 600 anni fa! Hanno avuto sempre voce in capitolo. E la fortuna poi di non aver mai troppi figliuoli!

Elena ascoltava, intenta, colle sopracciglia aggrottate, passando in rivista i ritratti, senza dire una parola, mentre gli altri chiacchieravano familiarmente col domestico della raccolta, degli armenti, dei nuovi acquisti che aveva fatto la baronessa, interessandosi come se fossero della famiglia anche loro; il servitore stesso diceva: — Le nostre pecore, le nostre vigne, la tenuta che abbiamo acquistato da ultimo.

La baronessa soleva stare in una cameraccia tutta bucata da porte e da finestre, nella quale si gelava d’inverno, ingombra di mobili dorati, di specchi, di scaffali pieni di cartaccie polverose, di macchine per far nascere i bachi, di sacchetti che contenevano i campioni delle derrate, col suo vecchio scrittoio in mezzo, e le sue donne in giro, ciarlanti tutte in una volta, spettinate, male in arnese, alcune delle quali si arrischiavano di venire anche scalze nelle ore tarde, filavano, facevano la calza, litigavano fra loro, mentre la padrona rivedeva i conti, dava gli ordini ai fattori, consultava l’avvocato che veniva apposta da Altavilla, spartiva il lavoro. Ella accolse i nuovi arrivati colla cordialità che si leggeva sulla faccia dei suoi antenati imbavagliati nel collare della toga; baciò le donne, fece portare dei rinfreschi che sarebbero bastati per una compagnia, li menò in giro per la casa, vasta quanto un convento, nel tinello in cui nessuno mangiava più da un secolo, nel salone che non era stato mai terminato, negli stanzoni abbandonati e ingombri di mobili vecchi, e che servivano quasi tutti da magazzini.

— Non c’è dove mettere uno spillo — diceva la baronessa. — La casa è tanto piccola! — Gli uomini ammiccavano cogli occhi, e immergevano le mani nei cestoni riboccanti di ogni ben di Dio. — Queste son le stanze di mio figlio; — disse poi la baronessa conducendoli in un altro quartierino un po’ meglio arredato del resto della casa, di cui però il solo lusso erano delle armi e degli arnesi da caccia di gran prezzo, sparsi per ogni dove, in ogni angolo, sui divani, sui mobili, sullo scrittoio polveroso e dal calamaio vergine.

— È la sua passione, — diceva la baronessa. — Cani e schioppi! non pensa ad altro. Voglio maritarlo per fargli entrare qualche altra cosa in testa. — Le signore guardavano contegnose, colle labbra strette, e il fazzoletto ricamato fra le mani inguantate.

Ella si era presa di una gran simpatia per l’Elena, la conduceva per mano, la chiamava figliuola mia, le diceva: — Voglio cercargli una moglie bella come voi, al mio Peppino. Ma non una cittadina, perchè con noi non saprebbe adattarsi, in paese, e da mio figlio voglio separarmi solo quando sarò morta. Che volete, è figlio unico! — Poi facendogli vedere nella sua camera, a capo del lettuccio piatto, il ritratto di un giovanotto bruno e tarchiato, un po’ al modo di quei signori messi a festa, soggiunse: — Questo è Peppino! Elena lo guardò un po’ per compiacenza, e rispose qualche parola insignificante. Peppino era uno come tutti gli altri, coi capelli ricciuti per giunta, e pettinati apposta per andare a farsi il ritratto, insaccato in un vestito che voleva esser di città, con certi solini e certa cravatta che Elena aveva visti solamente ad Altavilla. Poi si rimise a considerare silenziosamente la baronessa che discorreva con gli uomini di maggese, di rimonda d’olive, di prezzi di derrate, e interrogava le donne sui lavori che avevano per mano, con la benevolenza di una parente. Era una donnetta piccola e magra, cogli occhiali sul naso, vestita sempre di scuro dacchè le era morto il marito, con un grembiale di seta verde, ed un scialletto nero incrocicchiato sul petto; infine aveva sul mento un po’ di barba, e un modo di camminare dondolandosi, così piccola com’era, quasi fosse stata sempre a cavallo, per giustificare quel che dicevano di lei che portasse i calzoni — per forza! diceva a chi le raccomandava di riposarsi oramai alla sua età; — quel ragazzo non ha nessuno altri che badi ai suoi interessi; se non ci fossi io se lo mangerebbero vivo. Tutti ladri! lo sapete meglio di me, cari miei!

Al momento di accomiatarsi li accompagnò sino al ballattoio, volle assolutamente farli scortare da due campieri colle lanterne accese, che si era fatto buio. — La cittadina avrà paura a quest’ora, per le nostre campagne. Io non avrei paura di niente; tutti mi conoscono, grazie a Dio. Mi dispiace che non ci sia Peppino. Ma tornate un’altra volta, quando andrete a spasso da queste parti. Venite a San Martino, sapete, gusteremo il vino nuovo.

Era sopraggiunta la notte, profonda tutto intorno ai lumi del casamento, nella campagna silenziosa, scintillante di stelle al di sopra della Rocca che si stampava in distanza come un nugolone minaccioso. Le cavalcature andavano passo passo, fiutando il cammino dietro i fanali delle guide che sembravano far saltellare i ciottoli della viottola. Qua e là un lumicino ammiccava nel tenebrore, e ad ogni fermata si udiva l’acqua del vallone che scorreva lenta, sotto i macchioni, e il gracidare lontano delle rane nella pianura. Ad intervalli arrivava l’uggiolare di un cane, perduto nello spazio, in quello sterminato silenzio che faceva rabbrividire leggermente l’Elena quasi pel primo freddo dell’autunno inoltrato. Tutto a un tratto si udì lo scalpitìo di un cavallo.

— Questo è il Barone! disse uno dei campieri.

Un cane si mise ad abbaiare sospettoso e feroce in fondo alla viottola. Poco dopo comparve infatti don Peppino, nell’ombra, sull’alto cavallo pugliese come un fantasma nero, seguito da due campieri di cui luccicavano le borchie d’ottone, e le carabine ad armacollo.

Qualcuno diede la voce, e il Barone fermò il cavallo per salutare le signore.

— Siamo stati alla villa, — gli dissero. — Questa qui è la signora forestiera. Don Peppino allora smontò da cavallo, per salutare la signora, tenendo il cappello in mano, colossale al lume dei fanali che lo rischiaravano dal petto in su; ma timido, come un ragazzo.

Elena aveva inchinato appena il capo. Il barone consegnò le redini ad un dei campieri. Egli continuava a discorrere, col piede su d’un sasso, mentre il vecchio servo inginocchiato gli sfibbiava gli sproni, colla testa bianca a livello degli stivali del padrone.

— Ora andate alle case, disse infine. Io verrò dopo. Badate di non fare star fermo il cavallo a questa aria.

Egli volle accompagnare la brigatella sino al principio della viottola. Poi salutò le signore, si inchinò più profondamente all’Elena, e scomparve nel buio.

— E pensare che se lo incontrasse qualche briccone, potrebbe cavargli 20 mila ducati di taglia! osservò uno della brigata.

— Don Peppino è bravo come un cane corso, — aggiunse un altro. — E non si lascerebbe pigliare.

Allora senza saper perchè Elena, per tutto il resto del viaggio, pensò a quel ragazzo che non aveva paura di andare solo al buio, a quell’ora.

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