Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | IV | VI | ► |
V.
L’indomani mattina scesi alle sei e incominciai subito ad aspettarla; scioccamente, perchè non era probabile che scendesse prima delle sette e mezzo o delle otto. Discese alle nove e la vidi un solo momento; forse aveva preso il thè in camera. Era in toeletta da passeggio e mi salutò come chi vuol essere cortese ma non desidera compagnia. Partì subito con un ragazzo che le portava uno sgabello, un ombrello e un album. Il cameriere mi disse che andava a dipingere e che il ragazzo doveva accompagnarla alla chiesa di S. Nazaro. Ero ben risoluto, comunque lei l’intendesse, di parlarle; mezz’ora dopo mi avviai alla volta di S. Nazaro. Con che tremor di cuore, con che confusione di pensieri, con che intorpidimento di membra feci quella strada! Assorto nel sentimento di dover dire parole decisive, andavo, andavo, senza badare alla via, portato dall’istinto; non udivo che le voci, non vedevo che le immagini del mio pensiero. A pochi minuti da San Nazaro incontrai il ragazzo, che mi disse spontaneamente:
— La signora è giù presso la chiesa.
Ignoro se mi abbia creduto il marito o altri; a me parve una voce dello stesso Ignoto che mi aveva mandato il sogno.
La signora Yves stava in un praticello poco discosto dal sentiero, disegnando. Alzò il capo, mi vide e continuò a disegnare. Discesi lentamente sul prato e mi fermai a pochi passi da lei. Essa mi guardò daccapo, rispose sorridendo al mio saluto e tornò a lavorare in silenzio. Io non sapevo ancor leggere le tacite parole avvolte ne’ suoi sorrisi; mi parve tuttavia che quella fosse pungente. Mi avvicinai, e si parlò un poco della chiesa longobarda ch’ella stava disegnando. Il tono della signora era affabile ed indifferente.
— Ho trovato bene — mi disse rispondendo ad una mia frase sull’atto pittoresco della chiesuola, che mi pareva tutta raggomitolata nella sua umile vecchiaia. — Se Lei ora va cercando poesia, altrettanta fortuna!
Ella desiderava che io partissi, ma non volevo partire così. Nel silenzio che seguì si udiva il gorgoglìo roco dell’acquicella che casca dal prato.
— Senta la poesia come chiama! — dissi. — La poesia è qui.
Vidi Mrs. Yves aggrottar le ciglia. Non rispose e disegnava in fretta; i suoi occhi andavano e venivano rapidamente dalla chiesa all’album.
— Non Le pare poesia? — ripresi.
— Sì — rispose alquanto nervosa — e mi fa molto piacere di non saper dove passa questa poesia così pura, perchè è forse in un tubo assai comune.
— Signora — diss’io allora — ho paura ch’Ella non abbia bene intesa, iersera, una mia parola.
— Non so che parola — rispose tranquilla. — Non faccio mica tanta attenzione alle parole. E Lei crede che sarebbe una disgrazia se non l’avessi intesa?
— Sì signora.
Mrs. Yves ebbe un tocco di riso argentino.
— Questo è troppo italiano per me — diss’ella.
— Le ho detto — ripresi senza curarmi della sua ironia — che desideravo di conoscerla, ed Ella ha preso forse queste parole per un complimento. Non faccio complimenti. Desideravo di conoscerla solo perchè molti anni sono ho udita la Sua voce senza vedere il Suo viso.
Alzò bruscamente il capo dal disegno e mi guardò sorpresa. Adesso l’anima sua non era più del tutto chiusa; gliela potei vedere in fondo agli occhi mentre diceva:
— Dove mi ha udita?
— Questo non importa molto — risposi. — Solo mi rincresceva che una parola indifferente fosse presa per una parola sciocca. Adesso La lascio disegnare in pace.
Mi congedai così, sentendo il mio vantaggio e non volendo perderlo. Ella fu tentata un momento, lo vidi, di trattenermi, ma non lo fece.
Andai a meditar la mia piccola vittoria nell’ombra del vallone vicino, a ripensar il particolare fascino di quel viso e di quella voce nell’ironia.
«Quando mi amerai!» dicevo tra me. «Quando vorrai e non vorrai dirlo!» Non volevo pensare che non fosse libera, mi pareva che amandomi lo diventerebbe; e mi stringevo le mani al petto. Davvero il mio petto era troppo breve per una gioia così grande, mi doleva già. Sentivo il bisogno di stancarmi e feci un lungo giro per valli e boschi, camminando a slanci come portato da ondate di vento, sorridendo a me stesso, dicendo insulti con allegra tenerezza alle care stupide piante e ai sassi che non capivano niente. Ecco, un semplice odor di liquore forte come mi ubbriacava!
A pochi passi dall’albergo, dove arrivai tardi, incontrai Mrs. Yves che dava il braccio a un signore pallido, magro, evidentemente malato. Era facile indovinare chi fosse. Alto, rigido, pareva toccare i cinquant’anni; aveva un viso triste e duro, una fissa intensità ostile di sguardo. La signora mi salutò; il marito nemmanco mostrò di avermi veduto.
Per tre giorni non ebbi più occasione di parlare a Mrs. Yves. Era sempre col suo convalescente; passeggiavano qualche poco, sedevano lungamente insieme sotto gl’ippocastani. Ella mi salutava con la sua soavità seria, ma non cercava parlarmi, nè io cercavo parlare a lei; pure gli occhi nostri s’incontravano non di rado e mi pareva che le facesse piacere di trovarsi vicina a me; lo stesso maggior riserbo che ora s’imponeva per la presenza del marito mi pareva pieno di dolcezza. Talvolta ella gli leggeva un giornale; io fingevo allora leggerne un altro e me le ponevo tanto presso da poterla udire. Quando se ne accorgeva lo sentivo, per un istante, nella sua voce. La bella signora dal profumo di rose conversava spesso amichevolmente con la Yves e scambiava poche parole con l’accigliato marito. Cercai di stringer relazione con lei per aver qualche cosa, almeno indirettamente, di Mrs. Yves, ma poi credetti leggere in un’occhiata di quest’ultima che le dispiacesse; ne fui felice ed evitai quind’innanzi la signora. Mrs. Violet aveva l’ultima camera dell’ala di ponente, al secondo piano, e la terrazza attigua. La sera stava con suo marito nella sala di lettura fino alle nove; poi salivano insieme. Io allora uscivo portando meco il tesoro d’uno sguardo, d’un saluto e restavo fuori per tutto il tempo che le piccole finestre lucevano. Mi pareva talora indovinar sulla terrazza la forma di lei; ma la mia vista corta e l’ombra dei boschi che dal monte scendono sull’albergo me ne lasciarono sempre in forse. Quanto mi fosse doloroso il subito mancar del lume alle finestre, come mi tormentassero allora il cuore e la fantasia, non lo voglio neanche ricordare. Il mio stato era insomma un misto, un’alternativa incessante di delizia e di pena, in cui venivo legandomi sempre più strettamente a lei e sentendo sempre più che pensava a me. Ci eravamo divisi sul prato di S. Nazaro con un saluto freddo, non le avevo più detto parola; e dopo tre giorni mi pareva che al primo trovarci soli ci saremmo parlato come amanti.
Nel pomeriggio del quarto giorno la trovai sulle scale dell’albergo. Mi salutò così tranquillamente che tutti i miei sogni, per un momento, caddero; poi mi chiese sorridendo se le tenevo il broncio. Io protestai che me ne stavo in disparte perchè la vedevo occupata di suo marito e non volevo essere indiscreto. Mrs. Yves arrossì molto, rispose che lo sapeva e che aveva scherzato; soggiunse di volermi domandare qualche cosa sui miei libri e anche su altri libri italiani. Ci accordammo di trovarci alle cinque sotto gl’ippocastani.