< Il mistero del poeta
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XI XIII

XII.


Partii per Norimberga con un treno del pomeriggio. Quando uscimmo dalla blanda valle erbosa dell’Altmühl per correre, fra sterminati orizzonti, diritto al nord, non era lontano il tramonto. Assorto in una sola idea, scosso ad ogni momento da vampe di accese immaginazioni, non avevo quasi mai avuto coscienza del paese così diverso dall’Italia che veniva continuamente mutando sugli occhi miei; ma pure la mobile visione si mescolava al mio pensiero, lo colorava, in qualche modo, di sè. Guardando, nello splendore del sole cadente, la quieta Altmühl così azzurra tra l’erbe dorate, riposavo un poco, mi venivano immagini di un avvenire sereno. Quando non la vidi più, il mio cuore riprese a palpitar forte. Sapevo che Norimberga non era lontana, il sole infuocava un rossastro paesaggio solenne di alte pinete e di sabbie immense, l’aria soffiava fredda, e se porgevo il capo a guardar dove ci portasse la locomotiva, non vedevo all’orizzonte che nebbie; sentivo il Nord, mi pareva che quello fosse il vero cielo, il vero paese di un’anima come Violet. Là mi aspettavo di trovarla ancor più chiusa nel cupo fuoco del suo cuore. Ma la troverei, la troverei?

Verso le otto mi affacciavo dai tozzi baluardi medioevali, dai passaggi bui del Frauenthor a un largo di lastricati tra due scomposte fughe di case aguzze, a torri che salivano giganti, sul fondo, nei misti chiarori del crepuscolo e della luna. Norimberga, l’enigma, era davanti a me.

All’albergo domandai della famiglia Yves. I camerieri non la conoscevano, il padrone nemmeno. Questi ne chiese a due signori che stavano cenando. Uno di costoro sapeva soltanto che vi era una fonderia Yves nella Burgschmiedstrasse. Non posso dire l’impressione che mi fece il nome Yves pronunciato con indifferenza in quella sala d’albergo.

The very music of the name has gone
Into my being.

«Persin la musica del suo nome è infusa nell’esser mio.» Il mio orecchio coglie nella voce che lo pronuncia ogni intimo disaccordo con la musica eterna che suona dentro a me; e più è grande, più ne soffro.

Uscii la sera stessa, girovagai a caso, pensando che l’indomani mattina andrei nella Burgschmiedstrasse, trovando intanto una voluttà profonda nel mescolarmi quanto più potevo, fra le ombre della notte, a questa sognata Norimberga, nel pensare che l’una o l’altra casa potrebbe forse esser la casa degli Yves e qual cuore avrebbe Violet se sapesse ch’io passavo sotto le sue finestre. Questo era un mondo ben più fantastico che la valle dell’Inn e l’Englischer Garten. Entrai nell’ombra della nera Lorenzkirche, dietro alle cui torri enormi si alzava la luna, discesi e risalii per ineguali andirivieni di vie, ora scure ora sfolgorate nel mezzo da una lampada elettrica, sospesa in alto. Intorno al fulgor d’argento nereggiavano le case vecchione, con i lor grandi cappelli aguzzi, tutti scolpiti, aggruppate per diritto e per isghembo, ciascuna secondo il proprio talento. Passai pei vicoli tenebrosi da un bagliore all’altro, e so d’essermi fermato gran tempo sur un crocicchio pendente al fiume, con la sua lampada nel mezzo, fra cinque o sei bocche di vie inclinate per ogni verso. Ombre silenziose andavano e venivano nella intensa luce bianca. Mi ero fitto in mente che mi fosse più probabile di abbattermi in miss Yves sull’incontro di tante vie; e mi tenevo sicuro di riconoscerla da lontano, almeno all’andatura. Ma il tempo passava, le ombre dei viandanti si facevano più rade, la mia speranza veniva meno. Finalmente, adagio adagio, me ne partii.

Venivo su per la Königsgasse, che lì è stretta e scura, verso il mio punto d’orientazione in quel mondo sconosciuto, le torri della Lorenzkirche presso alla quale alloggiavo. Un landau scoperto, senza fanali, che mi precedeva al passo, si fermò quasi dirimpetto al caffè Sonne.

Un piccolo signore ne discese, chiuse lo sportello e vi appoggiò i gomiti parlando vivacemente ad alta voce. Subito dopo udii un riso e un’altra voce che mi pietrificarono.

Sie Böser! Cattivo!

Era Violet.

Mi fermai, palpitante, a due passi dalla carrozza. L’uomo voltò il capo verso di me. Allora girai dietro la carrozza, mi fermai in mezzo alla via, fingendo di guardare il tetto e i pinnacoli della casa Nassau che spuntavano nel chiaro di luna. Violet e colui continuarono a parlare, lei in tono affettuoso, egli in tono gaio. La voce sconosciuta non era giovanile. Pareva che disputassero sul vedersi o non vedersi all’indomani. — E così? — disse finalmente miss Yves — A posdomani mattina? — A posdomani — rispose l’altro. — Alla stazione, alle sei e mezzo.

Si salutarono. L’uomo entrò nel caffè e Violet si chinò avanti per parlare al cocchiere. Allora io dissi abbastanza forte i due primi versi della poesia tanto a lei cara:

Ah no, se tu m’ami, vorrei
Posar nel più fondo vallon.

Ella si voltò di slancio a me ch’ero già allo sportello. Le presi ambo le mani; per alcuni istanti non fummo in grado di proferir parola, nè lei, nè io. Faceva scuro, ma eravamo così vicini ch’io potei vederle negli occhi e sulla fronte la stessa improvvisa passione cupa di quel felice momento in cui, letti per la prima volta i versi dell’amore e della morte, mi aveva guardato in silenzio. Ella gittò quindi un’occhiata al cocchiere, ritirò le mani rapidamente.

— Qui? — mormorò in italiano — Come è qui?

— Lo domanda? — risposi. — Come mai lo può domandare? Vengo da Napoli.

— Oh viene da Napoli! — esclamò in tedesco. — Bravo! Si ferma? Oh! — soggiunse, stavolta, in italiano e nel tono di prima. — Non doveva venire! Dio mio, perchè è venuto?

Tacque un istante e poi mi chiamò sottovoce, deliziosamente, per nome; ebbe ancora come un sussulto, uno slancio represso di tutta la persona verso di me.

— Addio! — riprese. — Non posso più restar qui e non la posso rivedere. Hanno anche avuto sospetti per le lettere.

— Non mi può rivedere?

La mia voce dovette suonare molto accorata.

— Mio Dio! — rispose miss Yves. — Egli sa se voglio farle del male. Forse non dovrei far questo, ma senta; dov’è alloggiato?

— All’albergo Zum rothen Hahn, qui vicino.

— Domani avrà una mia lettera. Addio! Il Signore La guardi. E grazie di tutto! Non sono mica un’ingrata, sa! — Addio! riprese in tedesco — se non ho il piacere di rivederla, si diverta e buon viaggio. Mi saluti tanto Napoli e lo scoglio.

Si era intanto venuta levando un guanto e mi stese la mano, che afferrai con ambo le mie e baciai.

— Mi dica dove sta — susurrai. — Non verrò, ma me lo dica!

— La prego! — rispose, atterrita, disperata, come se si difendesse a un punto da me e da sè stessa. — Le scriverò. Addio!

— Mi dica — replicai — se quegli che parlava con Lei...

— No, no! — diss’ella, e sorrise. Solo quando sorrise le vidi lagrime negli occhi.

Mi balenò un sospetto; che fosse già sposa. Glielo dissi; non lo era ancora.

— Non importa — diss’ella. — Lo sarò.

— Lei mi ama — risposi — non cedo. Lo sappia bene!

Furono le ultime parole. Violet ritirò la sua mano e disse qualche cosa al cocchiere. La carrozza partì, andò a voltarsi nella vicina piazzetta e mi tornò incontro al trotto. Passarono i cavalli, passò miss Yves salutando col capo, passò tutto, rumore e visione, giù nella discesa ombrosa della Königsgasse.

Andai all’albergo e mi chiusi nella mia camera a palpitar senza pensiero nella dolcezza intensa del momento appena trascorso. La idea che di là ond’eran venuti i sogni profetici veniva pure quest’ultimo incontro, questa offerta suprema, era per me di un’evidenza fulminea. Avevo trovata miss Yves, sapevo che mi amava e ch’era tuttavia libera; adesso toccava a me non perdere un solo momento.

All’indomani riceverei la sua lettera. Mi apprenderebbe qualche cosa su queste nozze certo imminenti, sulle ragioni che ve la costringevano? Forse; ma intanto dovevo informarmi per mio conto. Cercai subito, sulla pianta di Norimberga, la Burgschmiedstrasse, dov’era la fonderia Yves. Se gli Yves non abitavano colà, mi vi farei almeno indicare la loro dimora. L’incognito e Violet si erano dato appuntamento alla stazione per le sei e mezzo del mattino; trovai nell’orario che fra le sei e le sette partiva un treno per Monaco.

Prima di coricarmi apersi la finestra, guardai la selva di tetti acuti e le torri della Lorenzkirche, oltrepassate ormai dalla luna, che ne inargentava gli alti trafori gotici. Contemplai lungamente la città dove aveva vissuto miss Yves, dov’ella, chi sa in qual parte, stava allora pensando a me. Provai l’ebbrezza spirituale del viaggiatore che giunto in un paese d’antica fama vede tutto insolito e grande intorno a sè, e discopre, non senza commozione, che fra questo ignoto paese e il proprio sentimento vi è qualche affinità misteriosa; che anche quest’altra parte della terra è un poco, non sa come, la patria sua.



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