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XLIII.
Eccomi al principio del dolore, di ciò che ho insieme orrore e avidità di raccontare. Mi par di viaggiare in ferrovia, d’aver finora percorsa con lentezza un’ampia valle variata di aspetti dolcemente malinconici, di aspetti ridenti, e che ora le montagne si stringano improvvise e sinistre addosso al treno che accelera e precipita la fuga, furioso di spavento. Infatti questo vivere mio presente che segue agli eventi raccontati qui, non somiglia egli un correr nella galleria centrale di qualche gran valico alpino? Non vengo io dal sole, dai piani ridenti, dalle valli selvagge a queste tenebre sonore dove son portato a precipizio, senza tregua, nell’ansiosa attesa di uscirne, non so quando, non so dove, ma nel sole?
È alla sala d’aspetto della piccola stazione di Assmannshausen che ora io penso. Tre giorni dopo la gita a St. Goar salimmo al Niederwald insieme agli Steele e a certi loro amici di Magonza. Era una domenica e s’incontrò molta gente allegra che usciva dai boschi con mazzi di fiori e di frondi, le donne in mano e sul seno, gli uomini al cappello. Presso al monumento nazionale, di cui non sorgeva ancora che la base, un gruppo cantava qualche cosa di patriottico che pareva religioso. V’era una lontana minaccia di temporale e non dimenticherò mai l’effetto di quel cielo nero verso la Francia, di quel gran fiume a’ nostri piedi, disputato dalle genti, di quel canto grave e solenne. Violet aveva fatto la salita a cavallo, non essendovi ancora in quel tempo la ferrovia da Rüdesheim al monumento, e mi pareva aver sofferto di questa cavalcata, benchè non lo volesse ammettere. Dallo Iagdschloss dove comincia la discesa sull’altro fianco del monte, fino ad Assmannshausen dove intendevamo prendere il treno per Rüdesheim, ella discese a piedi, appoggiata al mio braccio. Si fermava spesso, e allora mi si appoggiava pure con la spalla: una dolcissima cosa, ma insolita. La discesa essendo così ripida, le chiesi più volte se fosse stanca; sempre mi rispondeva di no e sorrideva un po’ tristemente. L’ultima volta non rispose alla domanda. — Ti amo — disse — ti amo tanto, sei il mio sole, sei tutto, in questa vita, per me, e sarebbe un tal dolore se non potessi arrivare a esser tua moglie!
Le sue parole mi commossero e mi atterrirono più ch’io non sappia dire. Perchè parlava così? Lì per lì non potei saperne nulla per colpa dei nostri compagni, ch’erano allegri, loro; e avevano raccolto, da buoni tedeschi, una gran quantità di fiori cui facevano adesso a gara, ridendo e contendendo assai, di offrire a Violet. Questa aveva veduto il mio sgomento e cercava distruggere in me con una gaiezza nuova l’impressione delle sue parole tristi. Quando Dio volle s’arrivò a quel malinconico Assmannshausen, un villaggio posato in fondo al valloncello di vigneti grigi per cui eravamo scesi, sul fiume stretto, scuro e iracondo. Mancando quasi un’ora all’arrivo del treno, Violet e io entrammo nella stazione, mentre gli altri andavano a bere il celebre vino rosso del paese.
Ella mi confessò allora che durante la notte si era svegliata di soprassalto sentendosi male; quasi mancar la vita. Era passato prestissimo, ma intanto le era rimasta l’impressione di un gran pericolo corso, e l’idea che un altro assalto potrebbe riuscir fatale.
La rincorai come potei, l’accarezzai. Ella alzò il viso che teneva basso, mi guardò, sorrise. — Adesso sei pallido più di me — disse. Non seppi rispondere che uno sciocco — no. — Mi mancò la voce. Dopo un breve silenzio Violet mi susurrò che doveva dirmi un’altra cosa. Cosa? Ella non parlava più, io non sapevo immaginar niente, ma il petto mi faceva male.
— Iersera — diss’ella a capo chino, sottovoce — ho avuto una lettera di...
Nominò la persona cui aveva amato un tempo. Udendo quel nome pronunciato in quel modo, un doloroso gelo mi colse, lasciai la mano di lei che prima tenevo tra le mie. Essa la riafferrò ansante.
— Non far così — disse piano — non far così, non far ch’io lo debba odiare!
Mi dolsi di me stesso, le chiesi perdono di quell’atto.
— Lo sai — mi rispose con dolcezza dolente — che tu sei tutto per me nel mondo, ch’io sono una parte di te.
Poi, rinfrancata, mi raccontò ch’egli aveva diretta la lettera a Norimberga, e non pareva saper nulla dell’attuale posizione di lei; ch’era molto infelice, che tutte le sue aspettazioni erano state deluse, tutti i suoi piani troncati, ch’era senza forza e senza speranza. Si rivolgeva a lei invocando almeno una parola pietosa, dicendo che il rimorso di aver fatto male a lei era uno de’ suoi maggiori tormenti; chiedeva, non espressamente ma in nube, se il cuore di lei fosse libero o preso.
Io ascoltavo Violet in silenzio, collegando il suo accesso della notte, il suo aspetto triste colla lettera, soffrendo e sforzandomi di non lasciarlo apparire sia per alterezza, sia perchè sentivo non aver diritto nè ragione di dolermi. Quando tacque non le domandai niente, neppure di dove la lettera fosse venuta. Desideravo solo non se ne parlasse più, preferivo non saper dove quest’uomo fosse, relegarne la immagine fuori, quanto potevo, dalla realtà. Violet fece un nuovo sforzo per dirmi che credeva suo dovere, dovere di carità, non lasciare una lettera simile senza risposta. Parve alla mia fantasia gelosa ch’ella dicesse questo in modo da esprimere una risoluzione che avrebbe mantenuta, benchè a malincuore, anche contro di me; immaginai che, pure amando me, si compiacesse femminilmente di essere sempre amata da colui, e un tal sospetto mi irritava. Per fortuna Violet non mi lasciò il tempo di proferir una sola parola sgradevole, e mi porse la sua risposta che aveva seco. Vi erano parole di severa e misurata pietà, savie parole di consiglio, e finiva con queste:
«Il mio cuore appartiene oramai, tutto e per sempre, ad un uomo che mi ama come io amo lui, con l’amore più intenso. Mai non saprò ringraziar abbastanza Iddio che ha fatto incontrare le nostre vie. Il paradiso è in qualche modo incominciato per me che non potrò più essere, checchè avvenga, del tutto infelice. Se la Sua condotta verso di me ha contribuito alla mia condizione presente non deve certo aver rimorsi.
«Sia forte e si ricordi pure che fu amato da me, se questo può valere a tenerla sul retto cammino.»
Queste ultime parole mi guastarono l’impressione dolcissima delle precedenti e pregai Violet di toglierle. Ella vi consentì sorridendo con dolcezza indulgente, come chi cede per affetto e non per convinzione, sì che io mi pentii della mia domanda, ne vergognai, e quando fummo di ritorno a Rüdesheim pregai Violet di mandar la lettera come stava.
Ella volle incaricar me di recarla alla Posta. Allora vidi ch’era diretta a Wetzlar, e compresi il consiglio di Topler.