< Il mistero del poeta
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XLIV XLVI

XLV.


È fra le mie ultime gradite memorie la sconosciuta signora bruna, di sorprendente bellezza, che salì sul nostro vapore a Bonn. Non ricordo più affatto il suo viso, ma certo era impossibile non ammirare la sua grazia seducente, i suoi occhi mobili, parlanti e voluttuosi. Siccome i pochissimi viaggiatori erano tutti sotto coperta, compresi gli Steele, e sul ponte non eravamo che Violet e io, così la bellissima signora si mise a guardarmi come sua preda e trastullo di viaggio, tanto più di proposito, credo, quanto più si capiva ch’ero legato alla mia vicina. Quella fu la prima e l’ultima volta che vidi Violet tocca da un’ombra di gelosia. Ella si crucciava e ne rideva insieme, tutta palpitante; rideva di sè stessa nel parlare sdegnosamente di quella signora, nel giudicarla una merciaiuola benchè fosse elegante assai; rideva confessando che non temeva di me, ma che la sfacciataggine di colei la irritava; rideva del contegno di alterezza e di sfida ch’ella stessa pigliava talora involontariamente. Per me questa sua gelosia era talmente nuova e deliziosa che me ne inebbriavo tacendo o lodando la bellezza e l’eleganza dell’altra. Se ne avvide subito e si finì col ridere ambedue di cuore sino a quando apparvero davanti a noi fra le nebbie dell’orizzonte e del fiume, in mezzo al piatto paese nudo, le torri colossali del Duomo di Colonia.

A Colonia passammo un giorno e mezzo. Se visiterà, amica mia, la santa, lunata Colonia, vada in quel fantastico San Gereone e vi preghi per lei che fu là dentro tanto gaia e felice e si divertì tanto di un ridicolo frate scolpito nella Vorhalle da averne poi quasi rimorso. Vada altresì nel chiostro di San Pietro così nero intorno al giardinetto così verde, e vi colga un fiore in memoria del ristoro che Violet trovò in quella pace innocente dopo il raccapriccio recatole dall’orribile Rubens ch’è nella chiesa. Vada finalmente al Museo e guardi in una sala a pian terreno, le mani spirituali di una Madonna di Guglielmo da Colonia; potrà dire d’aver vedute le mani di Violet. La signora Emma pretendeva trovare la stessa rassomiglianza anche nel viso; ma il viso ideato dal pittore antico era molto più soave e mistico, aveva un carattere affatto diverso da quello della bellezza di Violet, piena di pensiero moderno e di sentimento nascosto.

— Io trovo — disse Paolo molto bene — che questa Madonna non somiglia a miss Yves, ma ha la sua stessa voce.

Ritornando da Colonia sostammo a Königswinter e salimmo, verso il tramonto, alla Drachenburg. Gli Steele mettevano in gesti ed esclamazioni il loro entusiasmo per la splendida, bizzarra Burg polifronte, tutta guglie, pinnacoli, torri, scale, balconi, sculture di marmo e di bronzo, versi e motti parlanti al sole, ai venti, al Reno profondo che si perde curvo all’orizzonte di levante, si perde curvo all’orizzonte di ponente; visione dell’antico appassionato di sentimento moderno, gittata da un grande poeta della pietra in quell’alta solitudine, a duecento metri sul fiume. Violet era muta, oppressa dall’ammirazione. Sedette presso all’entrata della fronte opposta al Reno, riposando quasi lo sguardo sulle vicine cupole verdi dei coni che sorgono dietro il Drachenfels; e dichiarò che non avrebbe potuto ammirare altro così presto, e che rinunciava quindi a salir sulla cima dove son le rovine del castello antico. Volle però ad ogni costo che vi salissi io. Gli Steele, che conoscevano già le rovine, decisero di rimaner con Violet; Paolo andò a esaminare da vicino gli animali di bronzo che posano sulle terrazze esterne, e la signora Emma si mise a trascrivere sul suo taccuino l’iscrizione che si legge sulla fronte nord-ovest della Burg. Quando partii Violet era sola. Vicino a lei stava scritto a mosaico sul suolo:

Geh hin, gch’aus
Bleib’ Freund dem Haus1.

Bleib’ Freund! — diss’ella porgendomi la mano con un sorriso.

Le accennai di no, senza parlare; odiavo la gelida parola amico! Ella m’intese, non sorrise più, accettò il mio rifiuto porgendomi anche l’altra mano. Tenni la sue mani un momento. Quando le lasciai mi disse sottovoce:

— Ho dei cattivi presentimenti. — Trasalii; anch’io ne avevo spesso dopo Assmannshausen, ma li cacciavo come pensieri maligni. Se Violet mi pareva pallida e dimagrita, cercavo persuadermi che fosse per effetto di tante agitazioni passate, non volevo confessare a me stesso che ogni mattina, recandomi da lei, tremavo di trovarla malata. Ora le chiesi se si sentisse male, protestai di non voler salire al Drachenfels. Ella mi rispose che stava bene e che dovevo andare subito subito; le sarebbe stato troppo dispiacere che, per causa sua, non lo vedessi.

Non mi pare aver impiegato più di quindici o venti minuti dalla Drachenburg alla cima. Non so che convegno vi fosse, quel giorno, sul Drachenfels; vidi scendere e salire molta gente, a piedi e a cavallo, signore, soldati, studenti di Bonn dai berretti d’ogni colore. Oltrepassai l’osteria della Terrasse, piena di bevitori e di baccano, toccai il cocuzzolo deserto del monte, colsi tra le macerie un fiore per Violet e, data un’occhiata distratta alle torri diroccate e agli abissi, ridiscesi a salti, impaziente di lasciare quella sinistra solitudine, impaziente di rivedere la mia fidanzata, immaginando sventure e rimproverandomene come di una pazzia.

A pochi passi dal cancello della Drachenburg incontrai Steele. Sorrideva, ma con imbarazzo; e mi chiese subito, con gran premura, le mie impressioni. L’osservai, era pallido; vide un sospetto negli occhi miei e fece atto di trattenermi — Dio mio! — esclamai, slanciandomi avanti. — Cosa c’è?

Egli mi afferrò alle braccia e ripeteva: — Si fermi, non c’è niente, ma si fermi un poco. — Mi strappai da lui e corsi dove avevo lasciato Violet.

Ella non v’era più; non v’era nessuno. Mi guardai attorno smarrito. — Senta! mi gridò Steele che stava per raggiungermi. Non lo ascoltai e feci rapidamente il giro della villa. Dall’altra parte, davanti alla fronte che guarda il Reno, vidi Violet e mi fermai di botto, senza respiro, come colpito al cuore.

Era in piedi, non mostrava di aver male alcuno e parlava, voltandomi le spalle, con un giovane signore a me sconosciuto. Vi era pure la signora Steele che, quando mi vide, mi venne incontro per trattenermi come aveva fatto suo marito. Violet parlava con veemenza a quel signore che l’ascoltava a quattro passi da lei, col cappello in mano, colla fronte alta e corrucciata.

Indovinai sul momento ch’era l’uomo di Wetzlar; egli pure mi vide e indovinò chi ero io.

Violet, al lampo che brillò negli occhi di lui, comprese, si voltò a me.

— Eccolo — disse; poi sorrise e soggiunse — venga — accennandomi del capo con uno sguardo così tenero e lieto che tutta la mia gelosia svanì e fui subito al mio posto, presso a lei.

— Un conoscente di Norimberga — mi disse Violet — il signor***. — Poi pronunciò il mio nome e soggiunse: — mio fidanzato. — Prese in pari tempo il mio braccio, vi si appoggiò tutta e salutò colui del capo senza stendergli la mano, dicendo:

— Addio, signore. Buona fortuna.

Credetti per un momento che l’uomo volesse rispondere qualche cosa d’acerbo, mi tenni pronto. Invece si frenò, fece in silenzio un inchino esagerato, pieno d’ironia, e partì a gran passi agitando il cappello che teneva in mano.

Violet mi trasse dalla parte opposta stringendomi il braccio forte forte. Gli Steele, imbarazzati, si fecero in disparte, ci lasciarono soli. Io mi sentivo soffocare dall’emozione, non potevo proferir parola, non potevo che rispondere col mio braccio alla sua stretta. — Caro, caro — mi diss’ella teneramente, sottovoce, tenendo gli occhi ansiosi nei miei — come ti amo, come ti amo! Lo sai che sei tutto per me? Non potrei più rinunciare a te, non so come ho potuto resistere tanto tempo. Hai sofferto, caro? Soffri ancora? Non voglio che tu soffra. Io sono tu.

Le risposi ch’ero commosso; come non lo sarei stato? Ma che non soffrivo perchè sapevo bene quanto ero amato. Sentivo che la mia voce era alterata, mi forzavo a renderla naturale, non vi riuscivo. Soggiunsi che temevo per lei, temevo che soffrisse lei di questa scossa, proprio materialmente, nella salute.

— Oh no — diss’ella. — Mi sento assai bene. Bene davvero.

Fui ben cieco e stupido di non avvedermi degli eroici sforzi che faceva per reggersi e nascondermi il suo stato. A pochi passi da Königswinter si fermò, mi fece vedere il sole rovente che scendeva dietro i pioppi delle isole in un freddo cielo da inverno.

— Come si sente il nord! — disse. — Come son felice che tu veda questo paese!

Appena dette, con un ultimo sforzo, queste parole, venne meno e sarebbe caduta s’io non l’avessi stretta tra le mie braccia.



  1. Entra ed esci
    Resta amico della casa.


Note

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