< Il mistero del poeta
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Capitolo XLVII
XLVI

XLVII.


Diletta mia, Violet, compagna eterna, hai ragione di guardarmi così, di guardarmi fiso accarezzandomi con la diafana mano i capelli e sorridendo; non è finito, non ho detto tutto. Debbo pur dire, o infinitamente cara, quanta parte di te Iddio mi concede ancora dopo dieci anni, quanto sei viva per me e qual è il frutto della nostra unione da che sei fatta invisibile.

L’ottobre cade e io scrivo quest’ultima pagina nel paesello perduto fra le montagne, dove la mia famiglia ebbe il suo umile principio, dove uso condurre ogni anno, in perfetta solitudine, un mese di vita più semplice e contemplativa che gli amici miei non comporterebbero. Il mite sole autunnale, la grande quiete del mezzogiorno, il suono della campana che commoveva la mia fanciullezza immaginosa, entrano per le finestre aperte in questa camera dove dormirono i miei venerati genitori e ch’io scelsi per camera mia nuziale, per camera nuziale della morte. Dio mio, l’abito nuziale di Violet non è qui, i miei amici Steele sanno dov’è; ma la sua piccola toque da viaggio, il grazioso costume che portò nelle ultime ore, la semplice veste bianca ch’ella aveva a Rüdesheim quando la strinsi per la prima volta nelle mie braccia, pendono qui dall’attaccapanni. Il suo fazzoletto colle cifre di sposa, i guanti, l’orologio, il ventaglio di marocchino, i braccialetti e gli anelli sono sul marmo del cassettone col nastrino di velluto nero in cui sento e bacio ancora il tepore fragrante del suo collo. Sul letto il suo guanciale porta la sua cifra e il suo tavolino da notte porta i suoi prediletti sonetti di Shakespeare, la sua Imitazione legata in avorio; un lume di bronzo donatole dalla signora Emma, un ritrattino in miniatura di sua madre fatto da suo padre e ch’ella portava sempre con sè. Sulla scrivania, fra le carte odorate di mughetto, odore e fiore a lei cari, vi è una sua lettera ai signori Giacomo e Roberto Yves di Norimberga, incominciata a Rüdesheim e non finita. Era nella sua borsa da viaggio con due rose del giardino Steele di cui conservo la polvere come dell’altra rosetta che perdè il profumo


In quella sera ch’ella soffrì tanto.


Nella stessa scrivania son pure i versi e i ricordi scritti da me per lei e riferiti qui solo in parte; i versi di Rüdesheim e alquanti altri di cui nessuno leggerà mai parola.

Reliquie preziose, ma ben altro mi resta di lei; mi resta la sua presenza. Non si tratta di manifestazioni spiritiche, non sono spiritista, non ho bisogno di una dottrina nuova per credere nella sopravvivenza delle anime e nelle nostre comunicazioni con quelle che uscirono dalla vita mortale; non domando quindi e non vedo fantasmi, non ascolto e non odo i susurri dell’invisibile, non ho misteriosi contatti di ombre. Ciò che possiedo è migliore, è vita vera, è potenza. Sento la diletta mia con la fede soltanto, ma con un vero e proprio senso altresì, benchè intermittente; con un senso che non ha nome ancora, ma ch’è, direi la sostanza, il principio degli imperfetti sensi corporei e che mi dà lampi di certezza. Sento Violet, di tratto in tratto, in quella parte dell’anima dove nascono i pensieri senza la nostra volontà, dove sorgon gl’impulsi al bene ed al male, al tedio e al fervore, alla ilarità ed alla tristezza. La sento sempre nei movimenti buoni e anche talora in alcuni pensieri singolari che mi vengono, benchè non comprenda come li operi in me. Ella vive poi nella mia coscienza come quando scrissi il sonetto:

Nel mio mortal tu vivi, imago eterna.

A lei sottopongo ancora ogni parola, ogni pensiero, ogni azione della mia vita, e non è possibile ch’io resti mai più in un dubbio grave circa i miei doveri verso Dio e verso gli uomini, tanto è pronto e netto il mio consiglio, il quale ha tuttavia un’impronta personale benchè alquanto mutata; ha, voglio dire, l’impronta delle sue idee, della sua rettitudine, del suo sdegno d’ogni pregiudizio e di ogni rispetto umano, ma non l’impronta di alcune lievi imperfezioni che furono in lei e che certo rimasero in terra colla sua spoglia mortale, perchè io che un tempo le conobbi e le amai, non so più immaginarla con esse. Per esempio, le fu difficilissimo, mentre visse, di perdonare le offese recate a me, i giudizi acerbi sulle opere mie. Ora non è così e se leggo un’ingiuria contro di me, subito è lei che mi chiama e mi leva a sè amorosamente fuor d’ogni rancore, in una calma non superba. Allora, come ogni volta ch’io le obbedisco, la coscienza del nuovo bene ch’ella opera in me mi mette questa divina gioia di saper che ne ha sicuramente un premio, che ne crescono la sua felicità e la sua gloria. È vero che io, misero, spesso fallisco al proposito di regolar la mia vita come Dio mi mostra per mezzo di lei, perchè le mie infermità sono molte, le prave inclinazioni della mia natura non sono estinte. Anche le tristezze sterili, che una volta mi assalivano di frequente, non sono scomparse del tutto. In quell’abbattimento perdo il senso della compagna mia e delle cose divine, il dubbio mi gela e mi prostra, e, quasi approfittando dell’assenza di lei, pensieri indegni ascendono, malgrado me stesso, nel mio cuore. Se la mia opposta volontà oscilla e cade, ecco spandersi in me un improvviso dolore che non è solamente mio, ecco il senso acuto del ritorno di lei ed ecco quindi il suo perdono benchè non tanto sollecito e sereno quanto me l’avrebbe accordato da viva. Allora è la mia pena di sentire ch’ella ha sofferto e soffre per colpa mia; come poi questa sofferenza si accordi col suo stato felice, vicino a Dio, Egli lo sa. Se ricordo il sogno in cui ho prima udita la sua voce, sento che mi ha tratto dall’abisso ma che potrei ricadervi ancora; e in tale idea è umiliazione, è dolore che io accetto come conducenti a salute.

Qualche volta, questa è la confessione più dura presso a donne giovani e belle che potrebbero forse amarmi, ne rimango turbato e immagino la possibilità d’essere infedele a Violet benchè il cuore non vi avrebbe parte. Sono allora assalito da incredibili terrori e agitazioni di spirito onde mi rifugio affranto e mi riposo nell’appassionata speranza di esser sciolto dal corpo mortale.

Adesso non la odo mai, in sogno, la dolce voce; e ben di rado veggo lei. Quando la sogno mai non mi apparve venuta da morti, ma sempre come nella vita prima; e ben di rado mi abbraccia e mi bacia come amante. Quando ciò avviene mi sveglio e mi dispero che non sia presso a me, non lo posso credere.

Sì, anche questo mi fa guerra, l’inestinguibile amore per il suo corpo. Vi hanno momenti in cui l’idea di una ventura trasformazione del suo corpo sia pure gloriosa, mi opprime. Vorrei che nella vita futura Violet avesse i suoi capelli ricciuti, i suoi occhi color dell’onda, le sue bianche mani, ah le sue labbra così dolci. Vorrei che avesse la sua stessa persona con quell’andatura stanca, la vita sottile che io cinsi, le braccia che cinsero il collo a me. Non sogno splendori, vorrei che non fosse più bella di quando era qui.

Ma so come son ciechi e stolti questi desideri, riconosco la impotenza del cuore e della immaginazione umana a concepire il nostro stato di futura gloria, credo che la essenza di ciascun corpo rimane riconoscibilmente, comprimo in questa fede i miei sensi, e riposo.

Su argomenti d’arte non ho mai da lei comunicazioni interne. Quando eravamo fidanzati mi chiese se le avrei permesso di starmi vicina durante il mio lavoro, e mi promise con un sorriso, con un accento indimenticabile, di tacer sempre, di non guardarmi neppure. Così fa. Mi guarda, forse; ma tace. Intende tuttavia ed ama tutto quello che scrivo, ne gode umilmente, come in vita; e se i miei libri non piacciono altrui, lo si dica, lo si predichi, lo si stampi e mi si lasci in pace, poichè io mi contento per mio premio, di questa umile gioia.

Il mondo, amica mia, non me la guasterà mai come invece mi ha guastato. Le dirò in qual modo la dolcezza del mio segreto e del mio rifugio. Dieci anni son passati dalla morte di Violet ed io mi tengo sicuro di aver soddisfatto, in sostanza, il desiderio espressomi da lei quando navigando il Reno da Bingen a Rüdesheim mi disse che se fosse improvvisamente scomparsa non avrei dovuto far saper niente a nessuno, in Italia, del nostro legame. La sventura accadde e fu conosciuta a Rüdesheim prima che Steele spedisse le lettere di partecipazione; ed io tenevo ancora presso di me per recarle alla Posta di Stuttgart le lettere che avevo dirette ai parenti e agli amici più stretti. In Italia non mi confidai che con mio fratello e n’ebbi la promessa formale e solenne del segreto. Lei mi riferì poi le dicerie corse sui miei amori e le trovai lontane dal vero. La presente narrazione era già molto inoltrata quando Ella m’invitò a’ suoi grandi ricevimenti di quaresima. Ci venni, se si ricorda, tre volte, e l’ultima volta ebbi una conversazione abbastanza lunga colla bella e ammirata signora... che ostentava, quella sera, di ricercare la mia compagnia. Trovandomi forse troppo diverso dagli altri, mi disse: «Le sono antipatica o Lei nasconde nel cuore qualche segreto» e si mise a interrogarmi sul colore dei capelli e degli occhi della mia amante, mi domandò a quante centinaia di chilometri la stessi adorando col mio spiritualismo trascendentale. Siccome io rispondevo un poco ironicamente, la signora mi susurrò:

— Guardi bene, io so cosa c’è nella Sua casa di... non ricordo il nome del paese, adesso; ma insomma lassù fra le montagne.

Come lo sapeva? Qui non porto domestici; qui non ricevo amici. Replicai subito, benchè colpito al cuore, che poteva parlare ad alta voce perchè in casa mia non vi erano misteri. Allora Lei ci si avvicinò e disse: che conversazione animata! — Subito si fece ardito d’intervenire il nostro vecchio amico X, innocente corteggiatore della dama, che ci girava intorno da un pezzo, pieno di sospetto.

— Parleranno di qualche libro, m’immagino — diss’egli.

— Appunto — rispose la mia interlocutrice. — Si parlava di un libro interessantissimo, non ancora pubblicato, che avrà per titolo: Il mistero del poeta.

Si ricorda? Lei mi diede un occhiata compromettente e c’invitò a prendere il thè. Ci alzammo e la conversazione fu rotta. Riavutomi dal primo turbamento mi persuasi che se una curiosità profana è entrata qua dentro, non abbia tuttavia potuto decifrar l’enigma di queste reliquie. Però mi pesa che il mio tesoro non appartenga quasi più a me solo.

Ora ho finito davvero. Pensava Lei che nel Libro chiuso, com’Ella usa chiamarmi, fossero tali pagine, e Le pare che il mondo avrebbe ragione di sospettarle? Non prendo io parte alla vita comune, non lavoro, non mostro goder la bellezza delle cose, non mi toccano il tragico e il comico della natura umana, non sono quasi sempre sereno, non sono qualche volta gaio? No, il mondo può frugare nelle mie camere; legger nel mio cuore non può.

Guardo l’orologio; le cinque del mattino! Mi trovo qui a scrivere dalle undici di iersera e ho la testa grave di sonno, di fantasmi confusi; sono tuttavia contento di aver finito a quest’ora perchè l’alba è vicina e il mio lume muore. Non è un buon augurio? Addio, amica mia.


fine.


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