< Il pastor fido
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Atto IV Errori da correggersi

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ATTO QUINTO


SCENA PRIMA

URANIO, CARINO.


   
P
ER tutto è buona stanza, ov’altri goda,

   Ed ogni stanza al valent’huomo è patria.
   Car.Gli è vero Uranio, e troppo ben per prova
   Te’l sò dir’io, che le paterne case
   Giovinetto lasciando, e d’altro vago,
   Che di pascer armenti, ò fender solco
   Hor quà, hor là peregrinando; al fine
   Torno canuto, onde partij già biondo.
   Pur è soave cosa à chi del tutto
   Non è privo di senso, il patrio nido:
   Che diè natura al nascimento humano,

   Verso il caro paese, ov’altri è nato
   Un non sò che di non inteso affetto,
   Che sempre vive, e non invecchia mai.
   Come la calamita, ancor che lunge
   Il sagace nocchier la porti errando
   Hor dove nasce, hor dove more il sole,
   Quell’occulta virtù, con ch’ella mira
   La tramontana sua non perde mai;
   Così chi và lontan da la sua patria;
   Benche molto s’aggiri, e spesse volte
   In peregrina terra anco s’annidi,
   Quel naturale amor sempre ritiene,
   Che pur l’inchina à le natie contrade.
   O da me più d’ogn’altra amata, e cara
   Più d’ogn’altra gentil terra d’Arcadia
   Che col piè tocco, e con la mente inchino:
   Se ne’ confini tuoi madre gentile
   Foss’io giunto à chiusi occhi, anco t’havrei
   Troppo ben conosciuto. così tosto
   M’è corso per le vene un certo amico
   Consentimento incognito, e latente,
   Sì pien di tenerezza, e di diletto,
   Che l’hà sentito in ogni fibra il sangue.
   Tu dunque Uranio mio se del cammino
   Mi sè stato compagno, e del disagio,
   Ben è ragion, che nel gioire ancora
   De le dolcezze mie tu m’accompagni.
   Ur.Del disagio compagno e non del frutto
   Stato ti son, che tu sè giunto homai

   Ne la tua terra, ove posar le stanche
   Membra potrai, e più la stanca mente.
   Ma io che giungo peregrino, e tanto
   Dal mio povero albergo e da la mia
   Più povera, e smarrita famigliuola
   Dilungato mi son, teco trahendo
   Per lunga via l’affaticato fianco?
   Posso ben ristorar l’afflitte membra,
   Ma non l’afflitta mente, à quel pensando
   Che m’ho lasciato à dietro, e quanto ancora
   D’aspro cammin per riposar m’avanza.
   Nè sò qual altro in questa età canuta
   M’havesse se non tu d’Elide tratto,
   Senza saper de la cagion, che mosso
   T’habbia à condurmi in sì remota parte.
   Car.Tu sai che ’l mio dolcissimo Mirtillo,
   Che ’l ciel mi diè per figlio, infermo venne
   Qui per sanarsi, e già passati sono
   Duo mesi, e più fors’anco, il mio consiglio,
   Anzi quel de l’Oracolo seguendo:
   Che sol potea sanarlo il ciel d’Arcadia.
   Io che veder lontan pegno si caro
   Lungamente non posso, à quella stessa
   Fatal voce ricorsi, à quella chiesi
   Del bramato ritorno anco consiglio
   La qual rispose in cotal guisa à punto.
   Torna à l’antica patria, ove felice
   Sarai col tuo dolcissimo Mirtillo:
   Però, ch’ivi à gran cose il ciel sortillo,

   Ma fuor d’Arcadia il ciò ridir non lice.
   Tu dunque ò fedelissimo compagno,
   Diletto Uranio mio, che meco à parte
   D’ogni fortuna mia sè stato sempre;
   Posa le membra pur, c’havrai ben onde
   Posar anco la mente. ogni mia sorte,
   S’ella pur fia, come l’addita il cielo,
   Sarà teco commune. indarno fora
   Di sua felicità lieto Carino,
   Se si dolesse Uranio. Vra. ogni fatica,
   Che sia fatta per te, pur che t’aggradi
   Sempre, Carino mio, seco hà il suo premio.
   Ma qual fù la cagion che fè lasciarti,
   Se t’è sì caro, il tuo natio paese?
   Car.Musico spirto in giovanil vaghezza
   D’acquistar fama, ov’è più chiaro il grido.
   Ch’avido anch’io di peregrina gloria.
   Sdegnai, che sola mi lodasse, e sola
   M’udisse Arcadia, la mia terra, quasi
   Del mio crescente stil termine angusto.
   E colà venni, ov’è sì chiaro il nome
   D’Elide, e Pisa, e fa sì chiaro altrui.
   Quivi il famoso EGON di lauro adorno
   Vidi poi d’ostro, e di virtù pur sempre:
   Si che Febo sembrava, ond’io devoto
   Al suo nome sacrai la cetra e ’l core.
   E ’n quella parte, ove la gloria alberga,
   Ben mi dovea bastar d’esser homai
   Giunto à quel segno ov’aspirò il mio core,

   Se, come il ciel mi fè felice in terra,
   Cosi conoscitor, così custode
   Di mia felicità fatto m’havesse.
   Come poi per veder Argo, e Micene
   Lasciassi Elide, e Pisa, e quivi fussi
   Adorator di Deità terrena,
   Con tutto quel che ’n servitù soffersi,
   Troppo noiosa historia à te l’udirlo,
   A me dolente il raccontarlo fora.
   Ti dirò sol, che perdei l’opra e ’l frutto.
   Scrissi, piansi, cantai, arsi, gelai,
   Corsi, stetti, sostenni, hor tristo, hor lieto,
   Hor alto, hor basso, hor vilipeso, hor caro:
   E, come il ferro Delfico stromento
   Hor d’impresa sublime, hor d’opra vile
   Non temei risco, e non schivai fatica:
   Tutto fei, nulla fui. per cangiar loco,
   Stato, vita, pensier, costumi, e pelo,
   Mai non cangiai fortuna. al fin conobbi
   E sospirai la libertà primiera.
   E dopo tanti strazi Argo lasciando
   E le grandezze di miseria piene,
   Tornai di Pisa a i riposati alberghi,
   Dove mercè di provvidenza eterna,
   Del mio caro Mirtillo acquisto fei
   Consolator d’ogni passata noia.
   Ur.Oh mille volte fortunato, e mille
   Chi sà por meta à suoi pensieri in tanto
   Che per vana speranza immoderata

   Di moderato ben non perde il frutto.
   Car.Ma chi creduto havria di venir meno
   Tra le grandezze, e ’mpoverir ne l’oro?
   I mi pensai, che ne’ reali alberghi
   Fossero tanto più le genti humane,
   Quant’esse han più di tutto quel dovizia,
   Ond’è l’humanità sì nobil fregio.
   Ma vi trovai tutto ’l contrario Uranio.
   Gente di nome, e di parlar cortese,
   Ma d’opre scarsa, e di pietà nemica:
   Gente placida in vista, e mansueta,
   Ma più del cupo mar tumida, e fera,
   Gente sol d’apparenza, in cui se miri
   Viso di carità, mente d’invidia
   Poi trovi, e ’n dritto sguardo animo bieco,
   E minor fede alhor, che più lusinga.
   Quel ch’altrove è virtù, quivi è difetto,
   Dir vero, oprar non torto, amar non finto
   Pietà sincera, inviolabil fede,
   E di core, e di man vita innocente:
   Stiman d’animo vil, di basso ingegno
   Sciocchezza, e vanità degna di riso.
   L’ingannare, il mentir, la frode, il furto
   E la rapina di pietà vestita,
   Crescer col danno, e precipizio altrui
   E far à se de l’altrui biasmo honore
   Son le virtù di quella gente infida.
   Non merto, non valor, non riverenza
   Nè d’età, nè di grado, nè di legge,

   Non freno di vergogna: non rispetto:
   Nè d’amor, nè di sangue: non memoria
   Di ricevuto ben: ne finalmente
   Cosa si venerabile, o si santa,
   O si giusta esser può, ch’à quella vasta
   Cupidigia d’onori, à quella ingorda
   Fame d’havere inviolabil sia.
   Hor’io ch’incauto e di lor arti ignaro
   Sempre mi vissi, e portai scritto in fronte
   Il mio pensiero, e disvelato il core,
   Tu puoi pensar s’à non sospetti strali
   D’invida gente fui scoperto segno.
   Ur.Hor chi dirà d’esser felice in terra,
   Se tanto à la virtù noce l’invidia?
   Car.Uranio mio, se da quel dì, che meco
   Passò la Musa mia d’Elide in Argo,
   Havessi avuto di cantar tant’agio
   Quanta cagion di lagrimar sempr’hebbi;
   Con sì sublime stil forse cantato
   Havrei del mio signor l’armi, e gli onori,
   C’hor non havria de la Meonia tromba
   Da invidiar Achille, e la mia patria,
   Madre di Cigni sfortunati, andrebbe
   Già per me cinta del secondo alloro.
   Ma hoggi è fatta (oh secolo inhumano)
   L’arte del poetar troppo infelice.
   Lieto nido, esca dolce, aura cortese
   Bramano i Cigni, e non si và in Parnaso
   Con le cure mordaci, e chi pur sempre

   Col suo destin garrisce, e col disagio
   Vien roco, e perde il canto, e la favella.
   Ma tempo è già di ricercar Mirtillo,
   Ben che sì nuove e sì cangiate i’ trovi
   Da quel ch’esser solean queste contrade,
   Che ’n esse à pena i’ riconosco Arcadia.
   Con tutto ciò vien lietamente Uranio.
   Scorta non manca à peregrin, c’hà lingua.
   Ma forse è ben, ch’al più vicino hostello,
   Poi che sè stanco, à riposar ti resti.


SCENA II.

TITIRO, MESSO.


   
C
HE piangerò di te prima, mia figlia,

   La vita, ò l’honestate?
   Piangerò l’honestate,
   Che di padre mortal sè tu ben nata,
   Ma non di padre infame,
   E’n vece de la tua
   Piangerò la mia vita hoggi serbata

   A veder in te spenta
   La vita, e l’honestate.
   O Montano Montano
   Tu sol co’ tuoi fallaci,
   E mali intesi oracoli, e col tuo
   D’amore, e di mia figlia
   Disprezzator superbo, a cotal fine
   L’hai tu condotta. ai quanto meno incerti
   Degli oracoli tuoi
   Son’hoggi stati i miei.
   C’honestà contr’Amore
   E troppo frale schermo
   A giovinetto core.
   E donna scompagnata
   E sempre mal guardata.
   Mes.Se non è morto, ò se per l’aria i venti
   Non l’han portato, i’ devrei pur trovarlo.
   Ma eccol s’io non erro,
   Quando meno il pensai.
   O da me tardi, e per te troppo à tempo,
   Vecchio padre infelice al fin trovato.
   Che novelle t’arreco.
   Tit.Che rechi tu ne la tua lingua? Il ferro
   Che svenò la mia figlia?
   Mes.Questo non già, ma poco meno; e come
   L’hai tu per altra via sì tosto inteso?
   Tit.Vive ella dunque? M. Vive, e ’n man di lei
   Stà il vivere, e ’l morire.
   Tit.Benedetto sij tu, che m’hai da morte

   Tornato in vita. hor come non è salva,
   S’à lei stà il non morire?
   Mes.Perche viver non vuole.
   Tit.Viver non vuole? e qual follia l’induce
   A sprezzar sì la vita? M. L’altrui morte.
   E se tu non la smovi,
   Hà così fisso il suo pensiero in questo,
   Che spende ogn’altro in van preghi, e parole.
   Tit.Hor che sì tarda? andiamo.
   Mes.Fermati, che le porte
   Del tempio ancor son chiuse.
   Non sai tu, che toccar la sacra soglia
   Se non à piè sacerdotal non lice;
   Fin che non esca del sacrario adorna
   La destinata vittima à gli altari?
   Tit.E s’ella desse intanto
   Al fiero suo proponimento effetto?
   Mes.Non può, ch’è custodita.
   Tit.In questo mezzo dunque
   Narrami il tutto, e senza velo homai
   Fa’ che ’l vero n’intenda.
   Mes.Giunta dinanzi al Sacerdote (ahi, vista
   Piena d’horror) la tua dolente figlia
   Che trasse, non dirò dai circostanti,
   Ma, per mia fè da le colonne ancora
   Del tempio stesso, e da le dure pietre
   Che senso haver parean, lagrime amare;
   Fù quasi in un sol punto
   Accusata, convinta, e condennata.

   Tit.Misera figlia, e perche tanta fretta?
   MesPerche de la difesa eran gli indici
   Troppo maggiori, e certa
   Sua Ninfa, ch’ella in testimon recava
   De l’innocenza sua,
   Nè quivi era presente, nè fù mai
   Chi trovar la sapesse.
   I fieri segni in tanto
   E gli accidenti mostruosi, e pieni
   Di spavento e d’orror, che son nel tempio,
   Non pativano indugio:
   Tanto più gravi à noi, quanto più nuovi,
   E più mai non sentiti
   Dai dì, che minacciar l’ira celeste,
   Vendicatrice dei traditi amori
   Del sacerdote Aminta,
   Sola cagion d’ogni miseria nostra.
   Suda sangue la Dea, trema la terra,
   E la caverna sacra
   Mugge tutta, e risuona
   D’insoliti ululati, e di funesti
   Gemiti, e fiato si putente spira,
   Che da l’immonde fauci
   Più grave non cred’io l’esali Averno.
   Già con l’ordine sacro
   Per condur la tua figlia a cruda morte
   Il sacerdote s’inviava, quando,
   Vedendola Mirtillo (ò che stupendo
   Caso udirai) s’offerse

   Di dar con la sua morte à lei la vita:
   Gridando ad alta voce
   Sciogliete quelle mani, ah lacci indegni,
   Ed in vece di lei, ch’hesser dovea
   Vittima di Diana;
   Me trahete à gli altari,
   Vittima d’Amarilli.
   Tit.Oh di fedele amante
   E di cor generoso atto cortese.
   Mes.Hor odi maraviglia.
   Quella, che fù pur dianzi
   Sì da la tema del morire oppressa,
   Fatta alhor di repente
   A le parole di Mirtillo invitta
   Con intrepido cor così rispose.
   Pensi dunque Mirtillo,
   Di dar col tuo morire
   Vita à chi di te vive?
   O miracolo ingiusto. Sù ministri,
   Sù che si tarda? homai
   Menatemi à gli altari.
   Ah che tanta pietà non volev’io,
   Soggiunse alhor Mirtillo,
   Torna cruda Amarilli,
   Che cotesta pietà si dispietata
   Troppo di me la miglior parte offende.
   A me tocca il morire. anzi à me pure
   Rispondeva Amarilli, che per legge
   Son condennata. e quivi

   Si contendea tra lor, come s’a punto
   Fosse vita il morire, il viver morte.
   Oh anime ben nate. ò coppia degna
   Di sempiterni honori,
   O vivi, e morti gloriosi amanti
   Se tante lingue havessi, e tante voci
   Quant’occhi il cielo, e quante arene il mare,
   Perderien tutte il suono, e la favella
   Nel dir’à pien le vostre lodi immense.
   Figlia del cielo eterna,
   E gloriosa donna,
   Che l’opre de mortali al tempo involi,
   Accogli tu la bella historia, e scrivi
   Con lettre d’oro in solido diamante
   L’alta pietà de l’uno, e l’altro amante.
   Tit.Ma qual fin hebbe poi
   Quella mortal contesa?
   Mes.Vinse Mirtillo. ò che mirabil guerra,
   Dove del vivo ebbe vittoria il morto.
   Però che ’l sacerdote
   Disse à la figlia tua, quetati Ninfa,
   Che campar per altrui
   Non può, chi per altrui s’offerse à morte,
   Cosi la legge nostra à noi descrive.
   Poi comandò, che la donzella fosse
   Si ben guardata, che ’l dolore estremo
   A disperato fin non la traesse.
   In tale stato eran le cose, quando
   Di te mandommi à ricercar Montano.

   In somma egli è pur vero,
   Senza odorati fiori
   Le rive, e i poggi, e senza i verdi honori
   Vedrai le selve à la stagion novella,
   Prima che senza amor vaga donzella.
   Ma se qui dimoriam, come sapremo
   L’hora di gir al tempio?
   Mes.Qui meglio assai, ch’altrove,
   Che questo à punto è ’l loco, ov’esser deve
   Il buon pastore in sacrificio offerto.
   Ti.E perche non nel tempio?
   Mes.Perche si dà la pena, ove fu il fallo.
   Ti.E perche no ne l’antro,
   Se ne l’antro fù il fallo?
   Mes.Perche à scoperto ciel sacrar si deve.
   Ti.E onde hai tù questi misteri intesi?
   Mes.Dal ministro maggior. così dic’egli
   Da l’antico Tirenio haver inteso,
   Che il fido Aminta, e l’infedel Lucrina
   Sacrificati foro.
   Ma tempo è di partire. ecco che scende
   La sacra pompa al piano.
   Sarà forse ben fatto,
   Che per quest’altra via
   Ce n’andiam noi per la tua figlia al tempio.

SCENA III.


CHORO DI PASTORI,

CHORO DI SACERDOTI,

Montano, Mirtillo.


   
O
FIGLIA del gran Giove,

   O sorella del Sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel Febo secondo
   Ch.S.Tu che col tuo vitale,
   E temperato raggio
   Scemi l’ardor de la fraterna luce;
   Onde quà giù produce
   Felicemente poi l’alma natura
   Tutti i suoi parti, e fà d’herbe, e di piante,
   D’huomini, e d’animai ricca, e feconda
   L’aria, la terra, e l’onda;
   Che si come in altrui tempri l’arsura,
   Cosi spegni in te l’ira,

   Ond’hoggi Arcadia tua piagne, e sospira.
   CP.O figlia del gran Giove,
   O sorella del Sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel Febo secondo
   Mon.Drizzate homai gli altari
   Sacri ministri, e voi
   O devoti pastori à la gran Dea,
   Reiterando le canore voci,
   Invocate il suo nome.
   Ch.pas.O figlia del gran Giove,
   O sorella del Sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel Febo secondo
   Mon.Traetevi in disparte
   Pastori, e servi miei, nè quà venite,
   Se da la voce mia non sete mossi.
   Giovane valoroso,
   Che, per dar vita altrui, vita abbandoni;
   Mori pur consolato.
   Tu con un breve sospirar, che morte
   Sembra à gli animi vili,
   Immortalmente al tuo morir t’involi:
   E quando havrà già fatto
   L’invida età dopo mill’anni, e mille,
   Di tanti nomi altrui l’usato scempio,
   Vivrai tu alhor, di vera fede esempio.
   Ma perche vuol la legge,
   Che taciturna vittima tu moia,
   Prima che pieghi le ginocchia à terra,
   Se cosa hai qui da dir, dilla, e poi taci.

   Mir.Padre, che padre di chiamarti, ancora
   Che morir debbia per tua man, mi giova,
   Lascio il corpo à la terra
   E lo spirto à colei, ch’è la mia vita.
   Ma s’avien ch’ella moia,
   Come di far minaccia, oime qual parte
   Di me resterà viva?
   O’ che dolce morir, quando sol meco
   Il mio mortal moria,
   Ne bramava morir l’anima mia.
   Ma se merta pietà colui, che more
   Per soverchia pietà, padre cortese,
   Provvedi tu, ch’ella non moia, e ch’io
   Con questa speme à miglior vita i’ passi;
   Paghisi il mio destin de la mia morte,
   Sfoghisi col mio strazio,
   Ma poi ch’io sarò morto, ah non mi tolga,
   Ch’i’ viva almeno in lei
   Con l’alma da le membra disunita,
   Se d’unirmi con lei mi tolse in vita.
   Mon.A gran pena le lagrime ritegno.
   O’ nostra humanità quanto sè frale.
   Figlio stà di buon cor, che quanto brami
   Di far prometto: e ciò per questo capo
   Ti giuro: e questa man ti dò per pegno.
   Mir.Hor consolato moro e consolato
   A te vengo Amarilli.
   Ricevi il tuo Mirtillo,
   Del tuo fido pastor l’anima prendi,

   Che ne l’amato nome d’Amarilli
   Terminando la vita, e le parole,
   Qui piego à morte le ginocchia; e taccio.
   Mon.Hor non s’indugi più sacri ministri,
   Suscitate la fiamma
   Con l’odorato, e liquido bitume,
   E spargendovi sopra incenso, e mirra,
   Traetene vapor, ch’in alto ascenda.
   CP.O figlia del gran Giove,
   O sorella del Sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel Febo secondo.



ATTO QUINTO



SCENA IIII




CARINO, MONTANO,

Nicandro, Mirtillo,

CHORO DI PASTORI.



   
HI vide mai sì rari abitatori

   In sì spessi abituri? hor s’io non erro,
   Eccone la cagione:

   Velli quà tutti in un drappel ridotti.
   Oh quanta turba, ò quanta,
   Com’è ricca, e solenne, veramente
   Qui si fà sacrifizio.
   Mon.Porgimi il vasel d’oro
   Nicandro, ov’è riposto
   L’almo licor di Bacco. N. eccotel pronto.
   Mon.Così il sangue innocente
   Ammollisca il tuo petto ò santa Dea,
   Come rammorbidisce
   L’incenerita, ed arida favilla
   Questa d’almo licor cadente stilla.
   Hor tu riponi il vasel d’oro, & poscia
   Dammi il nappo d’argento. N. Eccoti il nappo.
   Mon.Così l’ira sia spenta,
   Che destò nel tuo cor perfida Ninfa,
   Come spegne la fiamma
   Questa cadente linfa.
   Car.Pur questo è sacrifizio,
   Nè vittima ci veggio.
   Mon.Hor tutto è preparato,
   Nè manca altro che’l fin. dammi la scure.
   Car.Vegg’io forse, ò m’inganno un che nel tergo
   Ad uom si rassomiglia
   Con le ginocchia à terra?
   E forse egli la vittima? ò meschino,
   Egli è per certo, e gli tien già la mano
   Il sacerdote in capo.
   Infelice mia patria ancor non hai

   L’ira del ciel dopò tant’anni estinta?
   C.P.O figlia del gran Giove,
   O sorella del sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel, Febo secondo
   Mon.Vindice dea, che la privata colpa
   Con publico flagello in noi punisci
   (Cosi ti piace, e forse
   Cosi stà ne l’abisso
   De l’immutabil providenza eterna)
   Poi, che l’impuro sangue
   De l’infedel Lucrina in te non valse
   A dissetar quella giustizia ardente,
   Che del ben nostro ha sete,
   Bevi questo innocente
   Di volontaria vittima, e d’amante
   Non men d’Aminta fido,
   Ch’al sacro altare in tua vendetta uccido.
   CP.O figlia del gran Giove,
   O sorella del Sol, ch’al cieco mondo
   Splendi nel primo ciel, Febo secondo
   Mon.Deh come di pietà pur’hora il petto
   Intenerir mi sento,
   Che ’nsolito stupor mi lega i sensi.
   Par che non osi il cor, nè la man possa
   Levar questa bipenne.
   Car.Vorrei prima nel viso
   Veder quell’infelice, e poi partirmi,
   Che non posso mirar cosa si fiera.
   Mon.Chi sà che ’n faccia al Sol, ben che tramonti,

   Non sia fallo il sacrar vittima humana?
   E perciò la fortezza
   Languisca in me de l’animo, e del corpo?
   Volgiti alquanto, e gira
   La moribonda faccia inverso il Monte.
   Cosi stà ben. Ca. misero me, che veggio?
   Non è quello il mio figlio?
   Il mio caro Mirtillo?
   Mon.Hor posso. Ca. è troppo desso. M. E’l colpo libro.
   Car.Che fai sacro ministro?
   Mon.E tu huomo profano,
   Perche ritieni il sacro ferro, ed osi
   Di por tu quì la temeraria mano?
   Car.O Mirtillo ben mio
   Già d’abbracciarti in si dolente guisa
   Ni.Và in mal’hora insolente, e pazzo vecchio
   Car.Non mi credev’io mai. Ni. Scostati dico,
   Che con impura man toccar non lice
   Cosa sacra à gli Dei. Ca. Caro à gli Dei
   Son ben’anch’io, che con la scorta loro
   Quì mi condussi. Mon. Cessa
   Nicandro, udiamlo prima, e poi si parta.
   Car.Deh ministro cortese
   Prima, che sopra il capo
   Di quel garzon cada il tuo ferro, dimmi
   Perche more il meschino. io te ne prego
   Per quella Dea, ch’adori.
   Mon.Per nume tal tu mi scongiuri, ch’empio
   Sarei se te’l negassi

   Ma che t’importa ciò? Car. più che non credi.
   Mon.Perch’egli stesso à volontaria morte
   S’è per altrui donato.
   Car.Dunque per altrui more?
   Anch’io morrò per lui. deh per pietate
   Drizza in vece di quello
   A questo capo già cadente il colpo.
   Mon.Amico tu vaneggi.
   Car.E perche à me si nega
   Quel ch’à lui si concede?
   Mon.Perche sè forestiero. Car. e se non fussi?
   Mon.Nè far anco il potresti.
   Che campar per altrui
   Non può chi per altrui s’offerse à morte.
   Ma dimmi chi sè tu? se pur è vero
   Che non sij forestiero:
   A l’habito tu certo
   Arcade non mi sembri. Car. Arcade sono:
   Mon.In questa terra già non mi sovviene
   D’haverti io mai veduto.
   Car.In questa terra nacqui, e son Carino
   Padre di quel meschino.
   Mon.Padre tù di Mirtillo? ò come giugni
   A te stesso, ed à noi troppo importuno.
   Scostati immantenente.
   Che col paterno affetto
   Render potresti infruttuoso, e vano
   Il sacrifizio nostro.
   Car.Ah, se tu fussi padre.
   Mon.Son padre, e padre ancor d’unico figlio,

   E pur tenero padre, nondimeno
   Se questo fosse del mio Silvio il capo,
   Già non sarei men pronto
   A far di lui, quel che del tuo far deggio.
   Che sacro manto indegnamente veste
   Chi, per publico ben del suo privato
   Comodo non si spoglia
   Car.Lascia ch’i ’l baci almen prima che mora.
   Mon.E questo molto meno. Car. ò sangue mio,
   E tu ancor sè si crudo,
   Che non rispondi al tuo dolente padre?
   Mir.Deh Padre homai t’acqueta. Mon. ò noi meschini
   Contaminato è ’l sacrificio. ò Dei
   Mir.Che spender non potrei più degnamente
   La vita che m’hai data.
   Mon.Troppo ben m’avisai.
   Ch’à la paterne lagrime costui
   Romperebbe il silenzio.
   Mir.Misero, qual errore
   Hò io commesso, ò come
   La legge del tacer m’uscì di mente?
   Mon.Ma che si tarda? sù, ministri: al Tempio
   Rimenatelo tosto,
   E ne la sacra cella un’altra volta
   Da lui si prenda il volontario voto.
   Quì poscia ritornandolo portate
   Con esso voi per sacrificio novo
   Nov’acqua, novo vino, e novo foco.
   Sù speditevi tosto,
   Che già s’inchina il Sole.

SCENA V

MONTANO, CARINO,

Dameta.


   
M
A tu vecchio importuno

   Ringrazia pur il ciel che, padre sei:
   Se ciò non fosse, i’ ti farei (per questa
   Sacra testa tel giuro) hoggi sentire
   Quel che può l’ira in me, poi che si male
   Usi la sofferenza.
   Sai tu forse chi sono?
   Sai tu che qui con una sola verga
   Reggo l’humane e le divine cose?
   Car.Per domandar mercede
   Signoria non s’offende.
   Mon.Troppo t’hò io sofferto, e tu per questo
   Sè venuto insolente.

   Nè sai tù, che se l’ira in giusto petto
   Lungamente si coce,
   Quanto più tarda fu, tanto più noce
   Car.Tempestoso furor non fu mai l’ira
   In magnanimo petto;
   Ma un fiato sol di generoso affetto,
   Che spirando ne l’alma,
   Quand’ella è più con la ragione unita,
   La desta, e rende à le bell’opre ardita.
   Dunque se grazia non impetro, almeno
   Fa che giustizia i’ trovi, e ciò negarmi
   Per debito non puoi:
   Che chi da legge altrui,
   Non è da legge in ogni parte sciolto:
   E quanto sè maggiore
   Nel comandar, tanto più d’ubbidire
   Sè tenut’anco à chi giustizia chiede:
   Ed ecco i’ te la cheggio,
   S’a me far non la vuoi, falla à te stesso,
   Che Mirtillo uccidendo, ingiusto sei.
   Mon.E come ingiusto son? fà che l’intenda.
   Car.Non mi dicesti tu, che quì non lice
   Sacrificar d’huomo straniero il sangue?
   Mon.Dissilo, e dissi quel, che ’l ciel comanda.
   Car.Pur quello è forestier, che sacrar’vuoi.
   Mon.E come forestier? non è tuo figlio?
   Car.Bastiti questo, e non cercar più innanzi.
   Mon.Forse perche trà noi nol generasti?
   Car.Spesso men sà, chi troppo intender vuole.

   Mon.Ma quì s’attende il sangue, e non il loco.
   Car.Perche nol generai, straniero il chiamo.
   Mon.Dunque è tuo figlio, e tu no’l generasti?
   Car.E se no’l generai, non è mio figlio.
   Mon.Non mi dicesti tu ch’è di te nato?
   Car.Dissi ch’è figlio mio, non di me nato.
   Mon.Il soverchio dolor t’ha fatto insano.
   Car.Non sentirei dolor, se fussi insano.
   Mon.Non puoi fuggir d’esser malvagio, ò stolto.
   Car.Come può star malvagità co’l vero?
   Mon.Come può star in un figlio, e non figlio?
   Car.Può star, figlio d’amor, non di natura.
   Mon.Dunque, s’è figlio tuo non è straniero,
   E se non è, non hai ragione in lui.
   Cosi convinto sè padre, ò non padre.
   Car.Sempre di verità non è convinto
   Chi di parole è vinto.
   Mon.Sempre convinta è di colui la fede,
   Che nel suo favellar si contraddice.
   Car.Ti torno à dir, che tu fai opra ingiusta.
   Mon.Sopra questo mio capo,
   E sopra il capo di mio figlio cada
   Tutta questa ingiustizia.
   Car.Tu te ne pentirai.
   Mon.Ti pentirai ben tu, se non mi lasci
   Fornir l’ufficio mio.
   Car.In testimon ne chiamo huomini, e Dei.
   Mon.Chiami tu forse i Dei, c’hai disprezzati?
   Car.E poi che tu non m’odi,

   Odami cielo e terra,
   Odami la gran Dea, che qui s’adora,
   Che Mirtillo è straniero,
   E che non è mio figlio, e che profani
   Il sacrificio santo. M. Il ciel m’aiti
   Con quest’huomo importuno.
   Chi è dunque suo padre,
   Se non è figlio tuo? Ca. non te’l so dire;
   Sò ben, che non son’io.
   Mon.Vedi come vacilli?
   È egli del tuo sangue?
   Car.Nè questo ancora. M. e perche figlio il chiami?
   Car.Perche l’ho come figlio
   Dal primo dì, ch’i’ l’ebbi,
   Per fin à questa età sempre nudrito
   Ne le mie case, e come figlio amato.
   Mon.Il comprasti? il rapisti? onde l’avesti?
   Car.In Elide l’hebb’io, cortese dono
   D’huomo straniero. M. e quell’huomo straniero
   Donde l’hebb’egli? Car. à lui l’havea dat’io.
   Mon.Sdegno tu movi in un sol punto, e riso.
   Dunque avesti tu in dono
   Quel che donato havevi?
   Car.Quel ch’era suo gli diedi,
   Ed egli à me ne fè cortese dono.
   Mon.E tu (poi c’hoggi à vaneggiar mi tiri)
   Onde avuto l’havevi?
   Car.In un cespuglio d’odorato mirto
   Poco prima i’ l’haveva

   Ne la foce d’Alfeo trovato à caso:
   Per questo solo il nominai Mirtillo.
   Mon.O come ben favole fingi, ed orni.
   Han fere i vostri boschi? Car. e di che sorte.
   Mon.Come nol divoraro?
   Car.Un rapido torrente
   L’havea portato in quel cespuglio, e quivi
   Lasciatolo, nel seno
   Di picciola isoletta,
   Che d’ogn’intorno il difendea con l’onda.
   Mon.Tu certo ordisci ben menzogne, e fole.
   Ed era stata si pietosa l’onda
   Che non l’havea sommerso?
   Son sì discreti in tuo paese i fiumi,
   Che nudriscon gl’infanti?
   Car.Posava entro una culla: e questa quasi
   Discretta navicella
   D’altra soda materia,
   Che soglion ragunar sempre i torrenti,
   Accompagnata, e cinta
   L’havea portato in quel cespuglio à caso.
   Mon.Posava entro una culla? Ca. entro una culla.
   Mon.Bambino in fasce? Ca. e ben vezzoso ancora.
   Mon.E quando ha, che fu questo? Ca. fà tuo conto
   Che son passati già dicianove anni
   Dal gran diluvio e son tant’anni à punto.
   Mon.O qual mi sento orror vagar per l’ossa
   Car.Egli non sà che dire.

   De le grand’alme, ò pertinace ingegno,
   Che vinto anco non cede,
   E pensa d’avanzar così di senno,
   Come di forze avanza.
   Questi certo è convinto, e se ne duole.
   S’io bene al mal inteso
   Suo mormorar l’intendo, e ’n qualche modo,
   C’havesse pur di verità sembianza
   Coprir vorrebbe il fallo
   De l’ostinata mente.
   Mon.Ma che ragione in quel bambino havea
   Quell’huom di cui tù parli? era suo figlio?
   Car.Questo non ti sò dir. Mon. nè mai di lui
   Notizia havesti tu maggior di questa?
   Car.Tanto à punto ne sò. vedi novelle
   Mon.Conosceresti tù? Car. Sol ch’io ’l vedessi
   Rozzo pastor a l’habito, ed al viso,
   Di mezzana statura, e di pel nero
   D’hispida barba, e di setose ciglia.
   Mon.Venite à me, pastori e servi miei.
   Dam.Eccoci pronti. Mon. hor mira
   A qual di questi più si rassomiglia,
   L’huom di cui parli. Car. a quel che teco parla.
   Nol sol si rassomiglia,
   Ma quegli à punto è desso:
   E mi par quello stesso,
   Ch’era vent’anni già, ch’un pelo solo
   Non ha canuto, ed io son tutto bianco.
   Mon.Tornatevi in disparte, e tù qui meco

   Resta, Dameta, e dimmi
   Conosci tu costui? Dam. mi par di sì, ma dove
   Già non sò dirti, ò come. Ca. hor io di tutto
   Ben ricordar farollo. Mon. à me tu prima
   Lascia favellar seco. e non t’incresca
   D’allontanarti alquanto. Ca. e volentieri
   Fò quanto mi comandi. Mon. hor mi rispondi
   Dameta, e guarda ben di non mentire.
   Car.Che sarà questo? ò Dei.
   Mon.Tornando tu da ricercar (già sono
   Vent’anni) il mio bambin, che non la culla
   Rapì il fiero torrente;
   Non mi dicesti tu che le contrade
   Tutte, che bagna Alfeo cercate havevi
   Senz’alcun frutto? Dam. e perche ciò mi chiedi?
   Mon.Rispondi à questo pur. non mi dicesti
   Che ritrovato non l’avevi? Dam. il dissi.
   Mon.Hor che bambino è quello,
   Ch’alhor donasti in Elide à colui
   Che qui t’hà conosciuto? Dam. hor son vent’anni,
   E vuoi, ch’un vecchio si ricordi tanto?
   Mon.Ed egli è vecchio, e pur se ne ricorda.
   Dam.Più tosto egli vaneggia. M. Hor il vedremo.
   Dove sè peregrino? Ca. Eccomi. D. ò fosti
   Tanto sotterra. Mon. dimmi
   Non è questo il pastor, che ti fè il dono?
   Car.Questo per certo. Dam. e di qual dono parli?
   Car.Non ti ricordi tù quando nel tempio
   De l’Olimpico Giove; havendo quivi

   Da l’Oracolo havuta
   Già la risposta, e stando
   Tu per partire, i’ mi ti feci incontro,
   Chiedendoti di quello
   Che ricercavi i segni, e tu li desti,
   Indi poi ti condussi
   A le mie case, e quivi il tuo bambino
   Trovasti in culla, e me ne festi il dono?
   Dam.Che vuoi tu dir per questo? Car. hor quel bambino,
   Ch’alhor tu mi donasti, e ch’io poi sempre
   Hò come figlio appresso me nudrito
   E ’l misero garzon, ch’à questi altari
   Vittima è destinato.
   Dam.Oh forza del destino. Mon. Ancor t’infingi?
   E vero tutto ciò, ch’egli t’ha detto?
   Dam.Così morto fuss’io, com’è ben vero
   Mon.Ciò t’avverrà, s’anco nel resto menti.
   E qual cagion ti mosse
   A donar quello altrui, che tuo non era?
   Dam.Deh non cercar più innanzi
   Padron, deh non per Dio, bastiti questo.
   Mon.Più sete hor me ne viene.
   Ancor mi tieni à bada? ancor non parli?
   Morto sè tu, s’un’altra volta il chiedo.
   Dam.Perche m’havea l’oracolo predetto,
   Che ’l trovato bambin correa periglio,
   Se mai tornava à le paterne case
   D’esser dal padre ucciso. Car. e questo è vero,
   Che mi trovai presente. Mon. oime che tutto

   Già troppo è manifesto. il caso è chiaro:
   Col sogno e col destin s’accorda il fatto.
   Car.Hor che ti resta più? vuoi tu chiarezza
   Di questa anco maggior? Mon. troppo son chiaro.
   Troppo dicesti tu, troppo intes’io.
   Cercato havess’io men, tu men saputo
   O Carino Carino,
   Come teco dolor cangio, e fortuna.
   Come gli affetti tuoi son fatti miei.
   Questo è mio figlio, ò figlio
   Troppo infelice d’infelice padre;
   Figlio da l’onde assai più fieramente
   Salvato, che rapito;
   Poi che cader per le paterne mani
   Dovevi à i sacri altari,
   E bagnar del tuo sangue il patrio suolo.
   Car.Padre tu di Mirtillo? ò maraviglia.
   In che modo il perdesti?
   Mon.Rapito fù da quel diluvio horrendo,
   Che testè mi dicevi. ò caro pegno
   Tu fusti salvo alhor, che ti perdei,
   Ed hor solo ti perdo,
   Perche trovato sei.
   Car.O provvidenza eterna,
   Con qual alto consiglio
   Tanti accidenti hai fin’à qui sospesi,
   Per farli poi cader tutti in un punto.
   Gran cosa hai tu concetta,
   Gravida sè di mostruoso parto.

   O gran bene, ò gran male
   Partorirai tu certo.
   Mon.Questo fù quel, che mi predisse il sogno.
   Ingannevole sogno,
   Nel mal troppo verace,
   Nel ben troppo bugiardo.
   Questa fu quella insolita pietate,
   Quell’improvviso horrore,
   Che nel mover del ferro
   Sentij scorrer per l’ossa.
   Ch’abborriva natura un così fiero
   Per man del Padre abominevol colpo.
   Car.Ma che? Darai tu dunque
   A sì nefando sacrificio effetto?
   Mon.Non può per altra man vittima humana
   Cader à questi altari. Car. Il padre al figlio
   Darà dunque la morte?
   Mon.Così comanda à noi la nostra legge.
   E qual sarà di perdonarla altrui
   Carità si possente, se non volle
   Perdonar’à se stesso il fido Aminta?
   Car.O malvagio destino,
   Dove m’hai tu condotto?
   Mon.A veder di duo padri
   La soverchia pietà fatta homicida,
   La tua verso Mirtillo,
   La mia verso gli Dei.
   Tu credesti salvarlo
   Col negar d’esser padre, e l’hai perduto,

   Io cercando, e credendo
   D’uccider il tuo figlio,
   Il mio trovo, e l’uccido.
   Car.Ecco l’horribil mostro,
   Che partorisce il fato. ò caso atroce,
   O Mirtillo mia vita, è questo quello,
   Che m’hà di te l’Oracolo predetto?
   Cosi ne la mia terra
   Mi fai felice? ò figlio
   Figlio, di questo sventurato vecchio
   Già sostegno, e speranza, hor pianto, e morte.
   Mon.Lascia à me queste lagrime Carino.
   Che piango il sangue mio,
   Ah perche sangue mio,
   Se l’ho da sparger io? misero figlio
   Perche ti generai? perche nascesti?
   A te dunque la vita
   Salvò l’onda pietosa,
   Perche te la togliesse il crudo padre?
   Santi Numi immortali,
   Senza il cui alto intendimento eterno
   Nè pur in mar un’onda
   Si move, ò in aria spirto, ò in terra fronda,
   Qual sì grave peccato
   Ho contra voi commesso, ond’io sia degno
   Di venir col mio seme in ira al cielo?
   Ma s’hò pur peccat’io,
   In che peccò il mio figlio?
   Che non perdoni à lui?

   E con un soffio del tuo sdegno ardente
   Me folgorando non ancidi ò Giove?
   Ma se cessa il tuo strale
   Non cesserà il mio ferro.
   Rinnoverò d’Aminta
   Il doloroso esempio,
   E vedrà prima il figlio estinto il padre,
   Che ’l padre uccida di sua mano il figlio.
   Mori dunque, Montano. hoggi morire
   A te tocca, à te giova.
   Numi, non sò s’io dica
   Del cielo, ò de l’inferno,
   Che col duolo agitate
   La disperata mente,
   Ecco il vostro furore,
   Poi che così vi piace, hò già concetto.
   Non bramo altro, che morte, altra vaghezza
   Non ho che del mio fine.
   Un funesto desio d’uscir di vita
   Tutto m’ingombra, e par, che mi conforte.
   A la morte à la morte
   Car.O infelice vecchio,
   Come il lume maggiore
   La minor luce abbaglia,
   Cosi il dolor, che del tuo male i sento,
   Il mio dolore hà spento.
   Certo sè tu d’ogni pietà ben degno.

SCENA VI.

TIRENIO, MONTANO,

Carino.


   
A
FFRETTATI mio figlio,

   Ma con sicuro passo,
   Si ch’i’ possa seguirti, e non inciampi
   Per questo dirupato, e torto calle
   Col piè cadente, e cieco.
   Occhio sè tu di lui, come son’io
   Occhio de la tua mente,
   E quando sarai giunto
   Innanzi al sacerdote, ivi ti ferma.
   Mon.Ma non è quel, che colà veggio il nostro
   Venerando Tirenio,
   Ch’è cieco in terra, e tutto vede in cielo?
   Qualche gran cosa il move;
   Che da molt’anni in quà non s’è veduto
   Fuor de la sacra cella.
   Car.Piaccia à l’alta bontà de’ sommi Dei,

   Che per te lieto, ed opportuno giunga.
   Mon.Che novità vegg’io padre Tirenio?
   Tu fuor del tempio? ove ne vai? che porti?
   Tir.A te solo ne vengo,
   E nuove cose porto, e nuove cerco.
   Mon.Come teco non è l’ordine sacro?
   Che tarda? ancor non torna
   Con la purgata vittima, e col resto,
   Ch’à l’interrotto sacrificio manca?
   Tir.O quanto spesso giova
   La cecità degli occhi al veder molto
   Ch’alhor, non traviata
   L’anima, ed in se stessa
   Tutta raccolta, suole
   Aprir nel cieco senso occhi lincei.
   Non bisogna Montano
   Passar si leggermente alcuni gravi
   Non aspettati casi,
   Che tra l’opere humane han del divino.
   Però che i sommi Dei
   Non conversano in terra,
   Nè favellan con gli huomini mortali,
   Ma tutto quel di grande, ò di stupendo,
   Ch’al cieco caso il cieco volgo ascrive
   Altro non è che favellar celeste:
   Così parlan trà noi gli eterni Numi,
   Queste son le lor voci
   Mute à l’orecchie, e risonanti al core
   Di chi le ’ntende. ò quattro volte, e sei

   Fortunato colui, che ben le ’ntende
   Stava già per condur l’ordine sacro,
   Come tu comandasti, il buon Nicandro,
   Ma il ritenn’io per accidente nuovo
   Nel Tempio occorso ed è ben tal, che mentre
   Vò con quello accopiandolo, che quasi
   In un medesmo tempo
   E hoggi à te incontrato;
   Un non sò che d’insolito, e confuso
   Tra speranza e timor tutto m’ingombra,
   Che non intendo, e quanto men l’intento
   Tanto maggior concetto,
   O buono, ò rio, ne prendo.
   Mon.Quel che tu non intendi,
   Troppo intend’io miseramente, e ’l provo.
   Ma dimmi. à te, che puoi
   Penetrar del destin gli alti segreti,
   Cosa alcuna s’asconde? Tir. ò figlio, figlio.
   Se volontario fosse
   Del profetico lume il divin’uso,
   Saria don di natura, e non del cielo.
   Sento ben’io ne l’indigesta mente,
   Che ’l ver m’asconde il fato,
   E si riserba alto segreto in seno.
   Questa sola cagione à te mi mosse
   Vago d’intender meglio
   Chi è colui, che s’è scoperto padre
   (Se da Nicandro ho ben inteso il fatto)
   Di quel garzon, ch’è destinato à morte.

   Mon.Troppo il conosci. ò quanto
   Ti dorrà poi Tirenio
   Ch’ei ti sia tanto noto, e tanto caro
   Tir.Lodo la tua pietà, c’humana cosa
   È l’haver degli afflitti
   Compassione, ò figlio. nondimeno
   Fa’ pur che seco i’ parli.
   Mon.Veggio ben’hor, che ’l cielo
   Quanto haver già solevi
   Di presaga virtute in te sospende.
   Quel padre, che tu chiedi,
   E con cui brami di parlar, son io.
   Tir.Tu padre di colui, ch’è destinato
   Vittima à la gran Dea?
   Mon.Son quel misero padre
   Di quel misero figlio.
   Tir.Di quel fido pastore,
   Che per dar vita altrui, s’offerse à morte?
   Mon.Di quel, che fa morendo,
   Viver, chi gli dà morte.
   Morir chi gli diè vita. Tir. e questo è vero?
   Mon.Eccone il testimonio.
   Car.Ciò che t’hà detto è vero.
   Tir.E chi sè tu che parli? Car. Io son Carino
   Padre fin qui di quel garzon creduto.
   Tir.Sarebbe questo mai quel tuo bambino,
   Che ti rapì il diluvio? Mon. Ah tu l’hai detto,
   Tirenio. Tir. E tu per questo
   Ti chiami padre misero Montano?

   Oh cecità de le terrene menti,
   In qual profonda notte,
   In qual fosca caligine d’errore
   Son le nostr’alme immerse,
   Quando tu non le illustri, ò sommo Sole.
   A che del saper vostro
   Insuperbite ò miseri mortali?
   Questa parte di noi, che ’ntende, e vede,
   Non è nostra virtù, ma vien dal cielo.
   Esso la dà come à lui piace, e toglie
   O Montano di mente assai più cieco,
   Che non son io di vista.
   Qual prestigio, qual demone t’abbaglia,
   Sì che s’egli è pur vero,
   Che quel nobil garzon sia di te nato,
   Non ti lasci veder, c’hoggi sè pure
   Il più felice padre
   Il più caro agli Dei di quanti al mondo
   Generasser mai figli?
   Ecco l’alto segreto,
   Che m’ascondeva il fato,
   Ecco il giorno felice
   Con tanto nostro sangue
   E tante nostre lagrime aspettato,
   Ecco il beato fin de’ nostri affanni.
   O Montano ove sè? torna in te stesso.
   Come à te solo è de la mente uscito
   L’oracolo famoso?
   Il fortunato oracolo nel core

   Di tutta Arcadia impresso?
   Come co’l lampeggiar, c’hoggi ti mostra
   Inaspettatamente il caro figlio;
   Non senti il tuon de la celeste voce?
   Non havrà prima fin quel che v’offende
   Che duo semi del ciel congiunga Amore.
   (Scaturiscon dal core
   Lagrime la dolcezza in tanta copia
   Ch’io non posso parlar) Non havrà prima,
   Non havrà prima fin quel che v’offende,
   Che duo semi del ciel congiunga Amore,
   E di donna infedel l’antico errore
   L’alta pietà d’un PASTOR FIDO ammende.
   Hor dimmi tu Montan questo pastore,
   Di cui si parla, e che dovea morire
   Non è seme del ciel, s’è di te nato?
   Non è seme del cielo anco Amarilli?
   E chi gli ha insieme avvinti altro che Amore?
   Silvio fù dai parenti, e fù per forza
   Con Amarilli in matrimonio stretto:
   Ed è tanto lontan, che gli strignesse
   Nodo amoroso, quanto
   L’haver in odio è da l’amar lontano.
   Ma s’esamini il resto, apertamente
   vedrai, che di Mirtillo hà solo inteso
   La fatal voce. e qual si vide mai,
   Dopo il caso d’Aminta
   Fede d’amor, che s’agguagliasse à questa?
   Chi hà voluto mai per la sua donna

   Dopo il fedele Aminta
   Morir se non Mirtillo?
   Questa è l’alta pietà del pastor fido,
   Degna di cancellar l’antico errore
   De l’infedele, e misera Lucrina.
   Con quest’atto mirabile, e stupendo
   Più che col sangue humano
   L’ira del ciel si placa,
   E quel si rende à la giustizia eterna,
   Che già le tolse il femminile oltraggio.
   Questa fù la cagion, che non si tosto
   Giuns’egli al Tempio a rinnovar’il voto,
   Che cessar tutti i mostruosi segni.
   Non stilla più dal simulacro eterno
   Sudor di sangue, e più non trema il suolo,
   Nè strepitosa più,nè più putente
   È la caverna sacra, anzi da lei
   Vien sì dolce armonia, sì grato odore,
   Che non l’havrebbe più soave il cielo,
   Se voce, ò spirto haver potesse il cielo.
   O alta providenza, ò sommi Dei,
   Se le parole mie
   Fosser’anime tutte,
   E tutte al vostro honore
   Hoggi le consacrassi; à le dovute
   Grazie non basteria di tanto dono.
   Ma come posso ecco le rendo, ò santi
   Numi del ciel, con le ginocchia à terra
   Humilemente. ò quanto

   Vi son’io debitor, perch’hoggi vivo.
   Hò di mia vita corsi
   Cent’anni già, nè seppi mai che fosse
   Viver, nè mi fù mai
   La cara vita, se non hoggi cara.
   Hoggi à viver comincio, hoggi rinasco.
   Ma che perd’io con le parole il tempo,
   Che si dè dar’à l’opre?
   Ergimi figlio, che levar non posso
   Già senza te queste cadenti membra.
   Mon.Un’allegrezza hò nel mio cor Tirenio,
   Con sì stupenda maraviglia unita,
   Che son lieto, e nol sento,
   Nè può l’alma confusa
   Mostrar di fuor la ritenuta gioia,
   Sì tutti lega alto stupore i sensi.
   O non veduto mai, ne mai più inteso
   Miracolo del cielo,
   O grazia senza esempio,
   O pietà singolar de’ sommi Dei.
   O fortunata Arcadia,
   O sovra quante il Sol ne vede, e scalda,
   Terra gradita al ciel, terra beata.
   Cosi il tuo ben m’è caro,
   Che’l mio non sento, e del mio caro figlio,
   Che due volte ho perduto,
   E due volte trovato, e di me stesso,
   Che da un’abisso di dolor trappasso
   A un’abisso di gioia,

   Mentre penso di te; non mi sovviene,
   E si disperde il mio diletto, quasi
   Poca stilla insensibile confusa
   Ne l’ampio mar de le dolcezze tue.
   Oh benedetto sogno,
   Sogno non già, ma vision celeste,
   Ecco ch’Arcadia mia,
   Come dicesti tu sarà anchor bella.
   Tir.Ma che tardi Montano?
   Da noi più non attende
   Vittima humana il cielo.
   Non è più tempo di vendetta, e d’ira,
   Ma di grazia, e d’amore. hoggi comanda
   La nostra Dea, che’n vece
   Di sacrifizio orribile, e mortale;
   Si faccian liete, e fortunate nozze.
   Ma dimmi tu quant’hà di vivo il giorno?
   Mon.Un’hora, ò poco più. Tir. Cosi vien sera?
   Torniamo al tempio, e quivi immantinente
   La figliuola di Titiro, e’l tuo figlio
   Si dian la fede maritale, e sposi
   Divengano d’amanti, e l’un conduca
   L’altra ben tosto à le paterne case.
   Dove convien prima che’l sol tramonti,
   Che sian congiunti i fortunati heroi.
   Così comanda il ciel. tornami figlio
   Onde m’hai tolto, e tu Montan, mi segui.
   Mon.Ma guarda ben Tirenio,
   Che senza violar la santa legge

   Non può ella à Mirtillo
   Dar quella fè, che fù già data à Silvio.
   Car.Ed à Silvio fiè data
   Parimente la fede: che Mirtillo
   Fin dal suo nascimento hebbe tal nome;
   Se dal tuo servo mi fù detto il vero;
   Ed egli si compiacque,
   Ch’io ’l nomassi Mirtillo, anzi che Silvio.
   Mon.Gli è vero. hor mi conviene. e cotal nome
   Rinnovai nel secondo
   Per consolar la perdita del primo.
   Tir.Il dubbio era importante, hor tu mi segui.
   Mon.Carino andiamo al tempio, e da qui innanzi
   Duo padri havrà Mirtillo. hoggi hà trovato
   Montano un figlio, ed un fratel Carino.
   Car.D’amor padre à Mirtillo, à te fratello;
   Di riverenza à l’uno e al’altro servo
   Sarà sempre Carino.
   E poi che verso me sè tanto humano,
   Ardirò di pregarti,
   Che ti sia caro il mio compagno ancora,
   Senza cui non sarei caro à me stesso.
   Mon.Fanne quel ch’à te piace,
   Car.Eterni numi. ò come son diversi
   Quegli alti inacessibili sentieri,
   Onde scendono à noi le vostre grazie,
   Da quei fallaci, e torti,
   Onde i nostri pensier salgono al cielo.

SCENA VII

CORISCA, LINCO.


   
E
COSI Linco il dispietato Silvio,

   Quando men se’l pensò, divenne Amante.
   Ma che seguì di lei? Lin. noi la portammo
   A le case di Silvio, ove la madre
   Con lagrime l’accolse,
   Non sò se di dolcezza, ò di dolore.
   Lieta sì che ’l suo figlio
   Già fosse amante, e sposo, ma del caso
   De la Ninfa dolente, e di due nuore
   Suocera mal fornita,
   L’una morta piangea, l’altra ferita.
   Cor.Pur è morta Amarilli?
   Lin.Dovea morir. così portò la fama.
   Per questo sol mi mossi inverso’l Tempio
   A consolar Montano, che perduta
   S’hoggi hà una nuora, ecco ne trova un’altra.
   Cor.Dunque Dorinda non è morta? Lin. morta?
   Fossi sì viva tu, fossi sì lieta
   Cor.Non fu dunque mortal la sua ferita?

   Lin.A la pietà di Silvio,
   Se morta fosse stata
   Viva saria tornata. Cor. e con qual arte
   Sanò sì tosto? Lin. I’ ti dirò da capo
   Tutta la cura, e maraviglie udrai.
   Stavan d’intorno à la ferita Ninfa
   Tutti con pronta mano
   E con tremante core huomini, e donne.
   Ma ch’altri la toccasse
   Non volle mai che Silvio suo, dicendo
   La man che mi ferì, quella mi sani.
   Cosi soli restammo
   Silvio, la madre, ed io,
   Duo col consiglio, un con la mano oprando.
   Quell’ardito garzon, poiche levata
   Hebbe soavemente
   Dal nudo avorio ogni sanguigna spoglia,
   Tentò di trar da la profonda piaga
   La confitta saetta: ma cedendo
   Non so come à la mano
   L’insidioso calamo, nascosto
   Tutto lasciò ne le latebre il ferro.
   Quì da dovero incominciar l’angosce.
   Non fù possibil mai,
   Nè con maestra mano,
   Nè con ferrigno rostro,
   Nè con altro argomento indi spiantarlo.
   Forse con altra assai più larga piaga
   La piaga aprendo; à le segrete vie

   Del ferro penetrar con altro ferro
   Si poteva, ò doveva.
   Ma troppo era pietosa, e troppo amante,
   Per sì cruda pietà la man di Silvio.
   Con sì fieri stromenti
   Certo non sana i suoi feriti Amore.
   Quantunque à la fanciulla innamorata
   Sembrasse che ’l dolor si raddolcisse
   Tra le mani di Silvio:
   Il qual per ciò nulla smarrito disse,
   Quinci uscirai ben tu ferro malvagio,
   E con pena minor, che tu non credi.
   Chi t’ha spinto quì dentro
   E ben anco di trartene possente:
   Ristorerò con l’uso de la caccia
   Quel danno, che per l’uso
   De la caccia patisco.
   D’un herba hor mi soviene,
   Ch’è molto nota à la silvestre capra,
   Quand’hà lo stral nel saettato fianco:
   Essa à noi la mostrò, natura à lei.
   Nè gran fatto è lontana. indi partissi,
   E nel colle vicin subitamente
   Coltone un fascio, à noi se’n venne, e quivi
   Trattone succo e misto
   Con seme di verbena, e la radice
   Giuntavi del centauro, un molle empiastro
   Ne feo sopra la piaga.
   Oh mirabil virtù. cessa il dolore

   Subitamente, e si ristagna il sangue,
   E ’l ferro indi à non molto
   Senza fatica, ò pena
   La man seguendo ubbidiente n’esce.
   Tornò il vigor ne la donzella, come
   Se non havesse mai piaga sofferta.
   La qual però mortale
   Veramente non fù, però che ’ntatto
   Quinci l’alvo lasciando, e quindi l’ossa
   Nel muscoloso fianco
   Era sol penetrata.
   Cor.Gran virtù d’herba, e via maggior ventura
   Di donzella mi narri.
   Lin.Quel che tra lor sia succeduto poi
   Si può più tosto immaginar, che dire.
   Certo è sana Dorinda, ed hor si regge
   Sì ben sul fianco, che di lui servirsi
   Ad ogn’uso ella può, con tutto questo
   Credo Corisca, e tu fors’anco il credi,
   Che già ferita sia più d’una piaga.
   Ma come l’han trafitta arme diverse,
   Cosi diverse ancor le piaghe sono.
   D’altra è fero il dolor, d’altra è soave:
   L’una saldando si fà sana, e l’altra
   Quanto si salda men, tanto più sana.
   E quel fero garzon di saettare,
   Mentr’era cacciator, fu così vago,
   Che non perde costume, ed hor ch’egli ama,
   Di ferir anco ha brama.

   Cor.O Linco ancor sè pure
   Quell’amoroso Linco,
   Che fosti sempre. Lin. ò Corisca mia cara,
   D’animo Linco, e non di forze sono
   E ’n questo vecchio tronco
   E più che fosse mai verde il desio.
   Cor.Hor ch’è morta Amarilli,
   Mi resta di veder quel ch’è seguito
   Del mio caro Mirtillo.



SCENA VIII

ERGASTO, CORISCA.


   
O
GIORNO pien di maraviglie, ò giorno

   Tutto Amor, tutto grazie, e tutto gioia,
   O terra avventurosa, ò ciel cortese
   Cor.Ma ecco Ergasto. ò come viene à tempo.
   Erg.Hoggi ogni cosa si rallegri. terra,
   Cielo, aria, foco e ’l mondo tutto rida.
   Passi il nostro gioire

   Anco fin ne l’inferno,
   Nè hoggi e’ sia luogo di pene eterno.
   Cor.Quanto è lieto costui. E. selve beate,
   Se sospirando in flebili susurri,,
   Al nostro lamentar vi lamentaste,
   Gioite anco al gioire, e tante lingue
   Sciogliete quante frondi
   Scherzano al suon di queste
   Piene del gioir nostro aure ridenti.
   Cantate le venture, e le dolcezze
   De’ duo beati amanti. Cor. Egli per certo
   Parla di Silvio, e di Dorinda. in somma
   Viver bisogna. tosto
   Il fonte de le lagrime si secca,
   Ma il fiume de la gioia abonda sempre.
   De la morta Amarilli,
   Ecco più non si parla, e sol s’ha cura
   Di goder con chi gode. ed è ben fatto.
   Pur troppo è pien di guai la vita humana.
   Ove si và si consolato, Ergasto?
   A nozze forse? Er. E tu l’hai detto à punto.
   Inteso hai tu l’avventurosa sorte
   De’ duo felici amanti? udisti mai
   Caso maggior, Corisca? Cor. i l’hò da Linco
   Con molto mio piacer pur hora udito,
   E quel dolor ho mitigato in parte,
   Che per la morte d’Amarilli i’ sento.
   Erg.Morta Amarilli? e come? e di qual caso
   Parli tu hora? ò pensi tu ch’io parli?

   Cor.Di Dorinda e di Silvio.
   Erg.Che Dorinda? che Silvio?
   Nulla dunque sai tu la gioia mia.
   Nasce da più stupenda,
   E più alta e più nobile radice.
   D’Amarilli ti parlo, e di Mirtillo,
   Coppia di quante hoggi ne scaldi Amore
   La più contenta, e lieta. Cor. non è morta
   Dunque Amarilli? Er. Come morta? è viva,
   E lieta, e bella, e sposa. Cor. eh tu mi beffi.
   Erg.Ti beffo? il vedrai tosto. Cor. à morir dunque
   Condennata non fu? Er. fù condennata,
   Ma tosto anche assoluta.
   Cor.Narri tù sogni, ò pur sognando ascolto?
   Erg.Tosto la vedrai tù, se quì ti fermi,
   Col fortunato suo fedel Mirtillo
   Uscir dal tempio, ov’hora sono, e data
   S’han già la fede maritale, e verso
   Le case di Montano ir li vedrai,
   Per cor di tante, e di sì lunghe loro
   Amorose fatiche il dolce frutto.
   Oh se vedessi l’allegrezza immensa,
   S’udissi il suon de le gioiose voci
   Corisca: già d’innumerabil turba
   E tutto pieno il tempio. huomini e donne
   Quivi vedresti tu, vecchi, e fanciulli,
   Sacri, e profani in un confusi, e misti
   E poco men che per letizia insani.
   Ogn’un con maraviglia

   Corre à veder la fortunata coppia;
   Ogn’un la riverisce, ogn’un l’abbraccia.
   Chi loda la pietà, chi la costanza
   Chi le grazie del ciel, chi di natura.
   Risuona il monte, e ’l pian, le valli, e i poggi
   Del pastor fido il glorioso nome.
   O ventura d’amante
   Il divenir sì tosto
   Di povero pastore un semideo,
   Passar in un momento
   Da morte à vita, e le vicine esequie
   Cangiar con sì lontane,
   E disperate nozze,
   Ancor che molto sia,
   Corisca, è però nulla.
   Ma goder di colei, per cui morendo
   Anco godeva? di colei, che seco
   Volle si prontamente
   Concorrer di morir, non che d’amare?
   Correr in braccio di colei, per cui
   Dianzi si volentier correva à morte,
   Questa è ventura tal, questa è dolcezza
   Ch’ogni pensiero avanza.
   E tu non ti rallegri? e tu non senti
   Per Amarilli tua quella letizia,
   Che sent’io per Mirtillo?
   Cor.Anzi sì pur Ergasto:
   Mira come son lieta. Erg. ò se tu havessi
   Veduta la bellissima Amarilli,

   Quando la man per pegno de la fede
   A Mirtillo ella porse.
   E per pegno d’amor Mirtillo à lei
   Un dolce sì, ma non inteso bacio,
   Non so se dir mi debbia, ò diede, ò tolse,
   Saresti certo di dolcezza morta.
   Che purpura? che rose?
   Ogni colore ò di natura, ò d’arte
   Vincean le belle guance,
   Che vergogna copriva
   Con vago scudo di beltà sanguigna,
   Che forza di ferirle
   Al feritor giungeva.
   Ed ella in atto ritrosetta, e schiva,
   Mostrava di fuggire
   Per incontrar più dolcemente il colpo,
   E lasciò in dubbio, se quel bacio fosse
   O rapito, ò donato.
   Con sì mirabil arte
   Fu conceduto, e tolto e quel soave
   Mostrarsene ritrosa,
   Era un nò, che voleva, un atto misto
   Di rapina, e d’acquisto,
   Un negar sì cortese, che bramava
   Quel che negando dava,
   Un vietar, ch’era invito
   Sì dolce d’assalire,
   Ch’à rapir, chi rapiva, era rapito;
   Un restar, e fuggire,

   Ch’affrettava il rapire.
   Oh dolcissimo bacio
   Non posso più, Corisca.
   Vo diritto, diritto
   A trovarmi una sposa:
   Che ’n sì alte dolcezze
   Non si può ben gioir, se non amando.
   Cor.Se costui dice il vero,
   Questo è quel dì Corisca,
   Che tutto perdi, ò tutto acquisti il senno.


SCENA IX

CHORO DI PASTORI,

Corisca, Amarilli, Mirtillo


   
V
IENI santo Imeneo:

   Seconda i nostri voti, e i nostri canti;
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno, e l’altro celeste semideo;
   Stringi il nodo fatal, santo Imeneo.
   Cor.Oime che troppo è vero. e cotal frutto
   Da le tue vanità misera mieti.

   O pensieri, o desiri
   Non meno ingiusti, che fallaci, e vani.
   Dunque d’una innocente
   Hò bramata la morte
   Per adempir le mie sfrenate voglie?
   Sì cruda fui? sì cieca?
   Chi m’apre hor gli occhi? ah misera che veggio?
   L’horror del mio peccato,
   Che di felicità sembianza havea.
   Cho.Vieni, santo Imeneo,
   Seconda i nostri voti e i nostri canti;
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno, e l’altro celeste semideo
   Stringi il nodo fatal santo Imeneo.
   Deh mira ò Pastor Fido
   Dopo lagrime tante,
   E dopo tanti affanni ove sè giunto.
   Non è questa colei, che t’era tolta
   Da le leggi del cielo, e de la terra?
   Dal tuo crudo destino?
   Da le sue caste voglie?
   Dal tuo povero stato?
   Da la sua data fede, e da la morte?
   Eccola tua, Mirtillo.
   Quel volto amato tanto, e que’ begli occhi,
   Quel seno, e quelle mani,
   E quel tutto, che miri, & odi, e tocchi
   Da te già tanto sospirato in vano
   Sarà hora mercede

   De la tua invitta fede. e tu non parli?
   Mir.Come parlar poss’io
   Se non sò d’esser vivo?
   Nè sò s’io veggia, ò senta
   Quel che pur di vedere
   E di sentir mi sembra?
   Dica la mia dolcissima Amarilli,
   Però che tutta In lei
   Vive l’anima mia, gli affetti miei.
   CHO.Vieni santo Imeneo:
   Seconda i nostri voti, e i nostri canti;
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno, e l’altro celeste semideo;
   Stringi il nodo fatal santo Imeneo.
   Cor.Ma che fate voi meco
   Vaghezze insidiose, e traditrici,
   Fregi del corpo vil, macchie de l’alma?
   Itene. assai m’havete
   Ingannata, e schernita.
   E perche terra sete, itene à terra.
   D’amor lascivo un tempo arme vi fei.
   Hor vi fò d’honestà spoglie, e trofei.
   CHO.Vieni santo Imeneo:
   Seconda i nostri voti, e i nostri canti,
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno, e l’altro celeste semideo;
   Stringi il nodo fatal santo Imeneo.
   Cor.Ma che badi Corisca?
   Comodo tempo è di trovar perdono:

   Che fai? temi la pena?
   Ardisci pur, che pena
   Non puoi haver maggior de la tua colpa.
   Coppia beata e bella,
   Tanto del cielo, e de la terra amica,
   S’al vostro altero fato hoggi s’inchina
   Ogni terrena forza;
   Ben’è ragion, che vi s’inchini ancora
   Colei che contra il vostro fato, e voi
   Ha posto in opra ogni terrena forza.
   Già no’l nego, Amarilli, anch’io bramai
   Quel che bramasti tu. ma tu tel godi
   Perche degna ne fusti,
   Tu godi il più leale
   Pastor che viva, e tu Mirtillo godi
   La più pudica Ninfa
   Di quante n’habbia, ò mai n’havesse,il mondo.
   Credetel pur à me, che cote fui
   Di fede à l’uno, e d’honestate à l’altra.
   Ma tu Ninfa cortese,
   Prima che l’ira tua sopra me scenda
   Mira nel volto del tuo caro sposo.
   Quivi del mio peccato,
   E del perdono tuo vedrai la forza.
   In virtù di sì caro
   Amoroso tuo pegno
   A l’amoroso fallo hoggi perdona
   Amorosa Amarilli. ed è ben dritto,
   C’hoggi perdon de le sue colpe trovi

   Amore in te, se le sue fiamme provi.
   Am.Non solo i ti perdono,
   Corisca, ma t’ho cara,
   L’effetto sol non la cagion mirando
   Che ’l ferro, e ’l foco, ancor che doglia apporti,
   Pur che risani, à chi fù sano è caro.
   Qualunque mi sij stata
   Hoggi amica, ò nemica,
   Basta à me che ’l destino
   T’usò per felicissimo stromento
   D’ogni mia gioia. avventurosi inganni
   Tradimenti felici. e se ti piace
   D’esser lieta ancor tu, vientene, e godi
   De le nostre allegrezze.
   Cor.Assai lieta son io
   Del perdon ricevuto, e del cor sano.
   Mir.Ed io pur ti perdono
   Ogni offesa Corisca, se non questa
   Troppo importuna tua lunga dimora.
   Cor.Vivete lieti, à Dio
   CHO.Vieni santo Imeneo,
   Seconda i nostri voti, e i nostri canti;
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno e l’altro celeste semideo,
   Stringi il nodo fatal, santo Imeneo.

SCENA X.


MIRTILLO, AMARILLI,

Choro di Pastori


   
C
OSI dunque son’io

   Avezzo di penar, che mi convenga
   In mezzo de le gioie anco languire?
   Assai non ci tardava
   Di questa pompa il neghittoso passo.
   Se trà piè non mi dava anco quest’altro
   Intoppo di Corisca?
   Am.Ben sè tu frettoloso. Mir. ò mio tesoro,
   Ancor non son sicuro, ancor’i’ tremo;
   Nè sarò certo mai di possederti,
   Perfin che ne le case
   Non sè del padre mio fatta mia donna.
   Questi mi paion sogni
   A dirti il vero. e mi par d’hora in hora,
   Che ’l sonno mi si rompa,
   E che tu mi t’involi anima mia.
   Vorrei pur ch’altra prova
   Mi fesse homai sentire,
   Che ’l mio dolce vegghiar non è dormire.

   Cho.Vieni santo Imeneo,
   Seconda i nostri voti, e i nostri canti:
   Scorgi i beati amanti,
   L’uno e l’altro celeste semideo:
   Stringi il nodo fatal santo Imeneo.


                 CHORO.


   Oh fortunata coppia,
   Che pianto hà seminato, e riso accoglie
   Con quante amare doglie
   Hai raddolciti tu gli affetti tuoi.
   Quinci imparate voi
   O ciechi, e troppo teneri mortali
   I sinceri diletti, e i veri mali.
   Non è sana ogni gioia,
   Nè mal ciò che v’annoia.
   Quello è vero gioire,
   Che nasce da virtù dopò il soffrire.


   IL FINE DEL PASTOR FIDO.

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