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XVI.
La mattina del 20 giugno, lunedì, alle dieci, incominciò la publica vendita delle tappezzerie e dei mobili appartenuti a S. E. il Ministro plenipotenziario del Guatemala.
Era una mattina ardente. Già l’estate fiammeggiava su Roma. Per la via Nazionale correvano su e giù, di continuo, i tramways, tirati da cavalli che portavano certi strani cappucci bianchi contro il sole. Lunghe file di carri carichi ingombravano la linea delle rotaje. Nella luce cruda, tra le mura coperte d’avvisi multicolori come d’una lebbra, gli squilli delle cornette si mescevano allo schiocco delle fruste, agli urli dei carrettieri.
Andrea, prima di risolversi a varcare la soglia di quella casa, vagò pe’ marciapiedi, alla ventura, lungo tempo, provando una orribile stanchezza, una stanchezza così vacua e disperata che quasi pareva un bisogno fisico di morire.
Quando vide uscir dalla porta su la strada un facchino con un mobile su le spalle, si risolse. Entrò, salì le scale rapidamente; udì, dal pianerottolo, la voce del perito.
― Si delibera!
Il banco dell’incanto era nella stanza più ampia, nella stanza del Buddha. Intorno, s’affollavano i compratori. Erano, per la maggior parte, negozianti, rivenditori di mobili usati, rigattieri: gente bassa. Poichè d’estate mancavano gli amatori, i rigattieri accorrevano, sicuri d’ottenere oggetti preziosi a prezzo vile. Un cattivo odore si spandeva nell’aria calda, emanato da quegli uomini impuri.
― Si delibera!
Andrea soffocava. Girò per le altre stanze, ove restavano soltanto le tappezzerie su le pareti e le tende e le portiere, essendo quasi tutte le suppellettili radunate nel luogo dell’asta. Sebbene premesse un denso tappeto, egli udiva risonare il suo passo, distintamente, come se le volte fossero piene di echi.
Trovò una camera semicircolare. Le mura erano d’un rosso profondo, nel quale brillavano disseminati alcuni guizzi d’oro; e davano imagine d’un tempio e d’un sepolcro; davano imagine d’un rifugio triste e mistico, fatto per pregare e per morire. Dalle finestre aperte entrava la luce cruda, come una violazione; apparivano gli alberi della Villa Aldobrandini.
Egli ritornò nella sala del perito. Sentì di nuovo il lezzo. Volgendosi, vide in un angolo la principessa di Ferentino con Barbarella Viti. Le salutò, avvicinandosi.
― Ebbene, Ugenta, che avete comprato?
― Nulla.
― Nulla? Io credevo, invece, che voi aveste comprato tutto.
― Perchè mai?
― Era una mia idea... romantica.
La principessa si mise a ridere. Barbarella la imitò.
― Noi ce ne andiamo. Non è possibile rimaner qui, con questo profumo. Addio, Ugenta. Consolatevi.
Andrea s’accostò al banco. Il perito lo riconobbe.
― Desidera qualche cosa il signor conte?
Egli rispose:
― Vedrò.
La vendita procedeva rapidamente. Egli guardava intorno a sè le facce dei rigattieri, si sentiva toccare da quei gomiti, da quei piedi; si sentiva sfiorare da quegli aliti. La nausea gli chiuse la gola.
― Uno! Due! Tre!
Il colpo di martello gli sonava sul cuore, gli dava un urto doloroso alle tempie.
Egli comprò il Buddha, un grande armario, qualche majolica, qualche stoffa. A un certo punto udì come un suono di voci e di risa feminili, un fruscio di vesti feminili, verso l’uscio. Si volse. Vide entrare Galeazzo Secìnaro con la marchesa di Mount Edgcumbe, e poi la contessa di Lucoli, Gino Bommìnaco, Giovanella Daddi. Quei gentiluomini e quelle dame parlavano e ridevano forte.
Egli cercò di nascondersi, di rimpicciolirsi, tra la folla che assediava il banco. Tremava, al pensiero d’essere scoperto. Le voci, le risa gli giungevano di sopra le fronti sudate della folla, nel calor soffocante. Per ventura, dopo alcuni minuti, i gai visitatori se ne andarono.
Egli si aprì un varco tra i corpi agglomerati, vincendo il ribrezzo, facendo uno sforzo enorme per non venir meno. Aveva la sensazione, in bocca, come d’un sapore indicibilmente amaro e nauseoso che gli montasse su dal dissolvimento del suo cuore. Gli pareva d’escire, dai contatti di tutti quegli sconosciuti, come infetto di mali oscuri e immedicabili. La tortura fisica e l’angoscia morale si mescolavano.
Quando egli fu nella strada, alla luce cruda, ebbe un po’ di vertigine. Con un passo mal sicuro, si mise in cerca d’una carrozza. La trovò su la piazza del Quirinale; si fece condurre al palazzo Zuccari.
Ma, verso sera, una invincibile smania l’invase, di rivedere le stanze disabitate. Salì, di nuovo, quelle scale; entrò col pretesto di chiedere se gli avevano i facchini portato i mobili al palazzo.
Un uomo rispose:
― Li portano proprio in questo momento. Ella dovrebbe averli incontrati, signor conte.
Nelle stanze non rimaneva quasi più nulla. Dalle finestre prive di tende entrava lo splendore rossastro del tramonto, entravano tutti gli strepiti della via sottoposta. Alcuni uomini staccavano ancora qualche tappezzeria dalle pareti, scoprendo il parato di carta a fiorami volgari, su cui erano visibili qua e là i buchi e gli strappi. Alcuni altri toglievano i tappeti e li arrotolavano, suscitando un polverio denso che riluceva ne’ raggi. Un di costoro canticchiava una canzone impudica. E il polverio misto al fumo delle pipe si levava sino al soffitto.
Andrea fuggì.
Nella piazza del Quirinale, d’innanzi alla reggia, sonava una fanfara. Le larghe onde di quella musica metallica si propagavano per l’incendio dell’aria. L’obelisco, la fontana, i colossi grandeggiavano in mezzo al rossore e si imporporavano come penetrati d’una fiamma impalpabile. Roma immensa, dominata da una battaglia di nuvoli, pareva illuminare il cielo.
Andrea fuggì, quasi folle. Prese la via del Quirinale, discese per le Quattro Fontane, rasentò i cancelli del palazzo Barberini che mandava dalle vetrate baleni; giunse al palazzo Zuccari.
I facchini scaricavano i mobili da un carretto, vociando. Alcuni di costoro portavano già l’armario su per la scala, faticosamente.
Egli entrò. Come l’armario occupava tutta la larghezza, egli non potè passare oltre. Seguì, piano piano, di gradino in gradino, fin dentro la casa.
Francavilla al Mare: luglio-dicembre 1888.