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Capitolo XV.
Della falce che cresceva, e dello strano lavoro che riusciva a fornire.
Gli scabini precedettero. Rainerio voleva seguire; ma, fosse allucinazione o realtà, gli parve che là punta della falce di Legio si allungasse un po’ troppo verso di lui, con una voglia evidentissima di accarezzargli il collo.
Perciò si trasse indietro, e lasciò che andassero gli altri ad assegnare il posto al falciatore importuno.
Infine, se ancora ci fosse stata speranza di vincere, il meglio era di andare più oltre, a vedere i suoi scherani, per confortarli a raddoppiare i loro sforzi. Ma a qual pro’, se il nuovo falciatore era un personaggio investito di un magico potere e per conseguenza assistito dal diavolo? Che fosse il diavolo in persona gli era passato per il capo; ma aveva anche discacciato il pensiero. Con qual ragione lo spirito delle tenebre si sarebbe posto in gara egli stesso? Partecipava egli forse alle passioni e alle altre debolezze degli uomini? Era più naturale il pensare che per virtù, di scongiuri una creatura mortale avesse ottenuto il patrocinio del maligno.
E un’altra cosa avrebbe creduta volentieri il castellano Rainerio; che quanto gli accadeva da parecchi dì non fosse altro che il brutto sogno di una cattiva notte. Ah, come si sarebbe volentieri destato, per ridere dei suoi terrori d’allora!
Ma intanto, sotto il peso di quei terrori, il fosco castellano, sbigottito, perduto dell’animo, andò a sedersi sul muricciuolo che chiudeva il sagrato della chiesa, e stette là, inerte, aspettando.
Ritornarono gii scabini, e uno di loro gli disse:
— Strano uomo, quel Legio! Sai tu di qual paese egli sia! —
Rainerio lo guardò, istupidito, e non rispose. Non aveva neanche intesa la domanda.
— Come poi si confidi di vincere, mettendosi a lavoro due ore dopo i suoi competitori, io non riesco ad intendere; — soggiunse l’altro scabino. — Egli non vorrà mica giovarsi di arti magiche! In questo caso la gara non sarebbe fatta ad armi eguali, e il conte dovrebbe considerarla come non avvenuta.
— Ah, lo credete anche voi altri, che sia un negromante? — esclamò il castellano.
— Ecco.... io non so nulla di ciò.... — risposo lo scabino. — Dico che per vincere, a questa ora, non ci vuol altro che l’aiuto del demonio. Vedi là Marbaudo, corn’ò già innanzi nel suo lavoro! In due ore ha fornito il còmpito di una giornata.
— Ah! — mormorò il castellano. — Se ha da vincere Marbaudo.... vinca pure quell’altro.
— Tu non ami Marbaudo! — notò lo scabino.
— Io? perchè dici tu questo? Io non ho preferenze, nè per lui, nè per gli altri.
— E fai voti per ognun di loro, anzi che per lui, che infine è un buon giovinotto; — replicò lo scabino.
— Voti! — disse Rainerio. — Non mi pare di averne fatti. Mi sarò espresso male. Ciò avviene qualche volta, quando si ha lo spirito oppresso da qualche grave pensiero.. Vinca chi può; io non ci ho che vedere.
— Sì, — replicò lo scabino, — vinca chi può. Ma se questo nuovo venuto vincesse per virtù di un sortilegio?
— Un sortilegio! — gridò rabbrividendo Rainero. — Come può esser ciò? Temete anche voi di qualche brutta cosa?
— Eh, sì; anche noi. Quel giunger così tardi, e con tanta sicurezza del fatto suo.... quel tronco di salcio che gli cresce appena tagliato!... Ci ha detto che il legno fresco fa così; ed ha avuto aria di canzonarci. Qui sotto c’è una malìa.
— Avete ragione.... forse.... — balbettò il castellano. — Ma che fareste voi? che consigliereste?
— Per me, consiglierei, se questo Legio vince la gara, di rimettere la decisione al conte Anselmo. Che cosa ne dice il mio compagno?
— La penso ancor io in questo modo; — rispose l’altro scabino. — Non ci sarebbe giustizia a dargliela vinta, se c’entra un’arte diabolica.
— Ma forse, — ripigliò il primo scabino, — ci sarebbe anche modo di farlo pentire in tempo, questo Legio del malanno.
— E in che modo?
— Mandando subito al chiostro di Santa Maria, per uno di quei canonici, che venga a far gli esorcismi. Se Legio ha una malia per vincere, la malia sarà subito scongiurata.
— Sì, — disse l’altro scabino, — mandiamo per il canonico Ansperto. Egli è il più dotto uomo del capitolo, e saprà come fare, per ridurre all’impotenza gli spiriti maligni. Vuoi tu dunque che lo facciamo avvertire? È qui per l’appunto Scarrone, che potrà andare e tornare, nello spazio di mezz’ora.
— Fate voi, chiamate voi; — disse Rainerio, che non osava più consigliare, nè risolvere. — Sono stanco, disfatto; il mio cervello non regge; non so che dirvi; rimetto in voi ogni cosa.
— Si sta freschi, allora! — borbottò lo scabino che aveva espresso il parere.
Frattanto, il giovane Marbaudo lavorava a gran furia. Aveva veduto giungere il nuovo competitore, ma non ci aveva badato più die tanto. — Per lui, fossero quattro, in gara, o fossero cento, doveva faticare egualmente; e il fermarsi a guardare non lo avrebbe punto vantaggiato.
Perciò seguitava a falciare; e in due ore di fatica, senza posar mai un istante, aveva fatto il lavoro di quattro uomini.
Ma più avanzava, spesseggiando i suoi colpi, più doveva pensare che la stanchezza lo avrebbe vinto.
Già incominciava a grondargli dalle tempia il sudore; ed egli per non perdere il tempo, non si rasciugava nemmeno la fronte.
— Ancora un centinaio di falciate„ diceva tra sè — e poi mi riposerò il tempo di un’avemaria. —
Ma quando i cento colpi eran dati, rimandava quell’istante di riposo dopo altri cento; poi dopo altri cinquanta, dopo altri venti, dopo altri dieci, e così via, mantenendo le forze con la promessa di ricogliere il fiato tra breve.
Certo, se avesse potuto durarle fino a sera con quella celerità di lavoro e con quell’inganno continuo ai suoi muscoli, in capo ad un giorno avrebbe falciata la metà dello sterminato maggese.
E frattanto, se l’orecchio non lo tradiva, altri lavorava con una rapidità pari alla sua, se non forse maggiore. Gli giungeva dal mezzo della valle un suono sottile, prolungato, a guisa d’un sibilo, che ricordava per l’appunto quello di una gran lama scorrente.
Di sicuro, quello era il suono d’una falce. Ma che taglio faceva essa mai, se il suono era così lungo? Inoltre era un suono lontano lontano, che dal mezzo del prato pareva andare al lato opposto, verso la sponda sinistra del fiume.
A tutta prima se n’era spaventato, immaginando che il nuovo venuto avesse fatto in breve ora così grande cammino da giungere verso il centro del prato.
Sicuramente, per correr tanto, non aveva fatto troppo largo lo squarcio; ma era sempre un bel lavorare, quell’avvicinarsi al centro, anche su breve lista di falciatura, avendo attaccato il maggese da un punto della circonferenza. Ed ecco che lo sgrigiolìo del ferro, scambio di avvicinarsi dell’altro, si allontanava sempre più verso il fiume! Marbaudo non capiva più che cosa fosse avvenuto.
L’idea che il nuovo competitore avesse incominciato dai centro non gli si era affacciata alla mente.
Ci pensò poi, e gli parve strano.
Ma infine, strano o naturale che fosse, quel lavoro procedeva sollecito, e faceva sì che Marbaudo non osasse più neanche promettersi quell’istante di riposo.
E seguitava a falciare, trattenendo il respiro, mordendosi ad ogni tanto le labbra.
Così passò un certo spazio di tempo, che poteva esser lungo, o breve, ma che egli non misurò, poichè non contava neanche più i suoi colpi di falce.
Tutto ad un tratto, lo sgrigiolio di quel ferro lontano cessò; poscia riprese più vivo, ma anche più vicino.
Evidentemente il falciatore aveva smesso di lavorare dalla parte del fiume, e si voltava verso Marbaudo.
Il giovanotto tese l’orecchio, e senti che la falce si avvicinava, si avvicinava sempre più.
Levò la persona sbigottito, ficcò gli occhi davanti a sè tra le vette del fieno, e vide una cosa strana, il luccichio della falce, che correva a tondo, levando scintille attraverso gli steli non ancora recisi.
E intanto, a grado a grado, il falciatore si faceva più lungo, di guisa che tutto il busto soverchiava l’altezza dell’erba; e le braccia si allungavano in proporzione, e il manico della falce cresceva a dismisura, ed anche il ferro lucente.
Ogni colpo di quella falce, menata a tondo, da un lato all’altro del maggese, abbatteva tanto fieno quanto avrebbero potuto trasportarne due coppie di buoi.
Che prodigio era quello?
Per una volta tanto, Marbaudo restò immobile, guardando lo strano falciatore, e credendo di essere in preda ad un’allucinazione dalla sua stessa paura.
Ma no; egli vedeva pur bene, e non lo tradivano i sensi; tra lui e quell’altro si diradava a mano a mano il maggese, e Marbaudo incominciava a scorgere, attraverso poche bracciate di steli, tutto il gran prato falciato, fino alla riva del fiume. E la falce lunga, e il gran manico crescente, giunto oramai alla misura di una lancia gigantesca, andavano attorno radendo il verde tappeto.
Marbaudo allora si lasciò cadere di pugno la sua falce, non più istrumento d’uomini, ma trastullo da bambini, a petto di quell’altra, e vide ad un tratto le sue speranze perdute. Iddio, che aveva invocato, lo abbandonava; l’inferno era congiurato contro di lui.
Com’egli ebbe lasciato cader la sua falce, anche quell’altro si fermò.
— Non temere, — disse il falciatore misterioso a Marbaudo, — non temere che io venga a tagliarti l’erba sotto i piedi. Sono un buon diavolo, io, e voglio lasciarne anche un pochino per te. Mi volterò invece contro quegli altri, che ti stanno alla destra. —
Marbaudo si voltò macchinalmente al suo vicino di destra. Era il Matto, come sapete. E il Matto era rimasto immobile, bianco, smorto nel viso, come una statua di sale. La gran falce raggiunse presto anche lui, ina si fermò davanti a’suoi piedi; poi seguitò, andando oltre; e recidendo a furia il maggese, scoperse i due scherani, che lavoravano l’uno a fianco dell’altro. Ma come li ebbe scoperti, la gran falce non si fermò; seguitò a falciare, allungandosi sempre, allungandosi ancora, e troncò nette le gambe dei due campioni di Rainerio.
— Senti com’ò nodoso, questa fieno! — esclamò il falciatore gigantesco. — Si direbbe osso, non erba. Ah, perbacco! ho capito; — soggiunse egli, ghignando, mentre quei due stramazzavano sul terreno; — erano due paia di gambe. Ma chi ha consigliato a voi di mettervi in gara? —
E frattanto la falce correva, allungandosi sempre; correva con moto uniforme da una estremità all’altra del prato.
Il Matto, che la vide tornare dalla parte sua e che aveva veduta la sorte toccata ai due scherani, non istette alle mosse; il terrore gli pose l’ali alle calcagna.
Marbaudo non si mosse. Per lui, disperato, meglio valeva il morire.
— Va via! — gli disse il terribile falciatore, mentre la falce passava ancora una volta, ma raccorciandosi rasente al povero sconfitto.
— No! — disse Marbaudo. — Ti ho conosciuto. Tu sei il maligno. Nel nome di Dio, e nel segno della santa croce, tu ti allontanerai dalle gare degli uomini.
— Non chiamare il nome di Dio invano! — rispose quell’altro. — È uno tra i primi comandamenti della legge. Io, del resto, a te non voglio far male. Voglio Getruda.
— Getruda! — mormorò Marbaudo, profondamente turbato. — Ahimè! che ti abbiamo noi fatto?
— Tu nulla, poveraccio.
— E allora perchè mi rubi ciò che doveva esser mio?
— Distinguo. Se doveva esser tuo, non era ancor tuo, ne convieni? Io dunque non ti rubo nulla. Aggiungi un particolare, che ha pure la sua importanza nella soggetta materia. Getruda ha mostrato il desiderio di sposare il diavolo, che sono io, anzi che cadere in balla di Marbaudo, che sei tu. Tu dunque intenderai, ragazzo mio, che il mio obbligo era quello di mettermi in gara e di vincere. Che cosa non si farebbe, invocati con tanto ardore di desiderio da una bella donnina! Io accorro, come tu vedi, vinco, e me la porto via. —