Questo testo è incompleto. |
L’IRA dannosa o Dea canta d’Achille
Figliuol di Peleo: che infinite doglie
Ai Greci porse: et molte anime chiare
Gir fece innanzi al natural destino
Giù nel caliginoso et cieco inferno,
D’Heroi possenti: et le lor membra diede
Per duro, acerbo e doloroso pasto
A ingordi cani et a rapaci augelli.
Per di Giove adempir l’alto consiglio:
Onde pria fur divisi contendendo,
Atride re de gli huomini mortali;
E Achille, per valor alto e divino.
Qual de i celesti et immortali Dei,
Pose fra lor contese a l’aspra guerra?
Quel ch’è di Giove, et di Latona figlio:
Che contra il re di fiero sdegno acceso;
Di morbo reo il greco stuolo oppresse
Il popolo infelice ognihor periva.
Fu la cagion; perché il figliuol d’Atreo
Fe a Chryse sacerdote ira et vergogna.
Questi de greci a le veloci navi
Venne per liberar l’amata figlia;
Portando molti doni a cio far degni:
Ne le mani tenendo le corone
D’Apollo che lontan ferisce e ’mpiaga
Col suo donato scetro: et e pregava
Tutta de greci l’honorata schiera;
Et sopra ogni altro, i duo figli d’Atreo
Principi del gran stuolo. O voi figliuoli
D’Atreo, et altri ben armati greci.
I Dei che tengon i celesti alberghi,
Vi dian la gran città di Troia, altiero
Seggio di Priamo in preda; et il ritorno,
Felice, nei paterni amati nidi:
De l’empia servitù sciogliete il nodo
A la mia amata figlia, mio diletto pegno:
Et prendete i bei doni ch’io vi porto
Honorando di Giove il figlio Apollo
Che manda di lontan gli horribil strali.
Lodaro gli altri greci ad alta voce
Che reso fosse al sacerdote honore
Pigliando i ricchi et bei lucenti doni.
Del grande Agamenon figliuol d’Atreo,
Già non piacque al nato animo altiero
Ma con ingiuriose aspre parole,
A lui dando licenza così disse:
Grave da gli anni, fa che non ti trovi
Più, dove sono l’incorvate navi:
Ne hor fa che ritardi; o ardisca poi
Di ritornar, perché dei creder certo
Che non ti gioverà scetro ó corona
Del Dio che già non voglio la tua figlia
Scioglier di servitù; fin che l’asale
La faticosa, et debile vecchiezza;
In Argo nostro antico e degno seggio;
Lontan de la sua patria amata et dolce;
Tessendo tela: et al mio letto adorno
Venendo incontro reverente humile,
Vattene adunque; né far ch’i’ m’adiri;
Mentre che salvo tu puoi far partita.
Così diß’egli: e il vecchio sbigottito
Tosto obedisce a l’alto suo sermone.
Et cheto lungo ai liti se ne giva
Dove percuote risuonando il mare.
Poscia, così solingo andando il vecchio,
Molte preghere porse al gran re Apollo.
Che partorì Latona, ch’a i capelli
A l’aura sparsi, et sopra or terso biondi.
Odimi tu, che ’l bell’arco d’argento
Poßiedi; et guardi Chryse et la divina
Cilla; et tenendo tien tuo seggio altiero
Apollo; se giammai il tuo grato tempio
Coronai di be’ fiori et verdi frondi
O se giammai le grasse coscie i’ arsi,
Di forte toro, et di lasciva capra.
Adempi alto signor questo desio:
Fa che paghino i greci il caldo humore,
Che stillan gli occhi miei, con li tuoi strali.
Così disse pregando. E ’l chiaro Apollo
Udì là sù, gli ardenti prieghi suoi:
Et ratto scese giù da l’alate cime
Del grande Olimpo, et ne l’interno petto
Tutto avampava di focoso sdegno.
L’arco pendea dagli homeri del Dio,
Con la pharetra d’ognintorno cinta.
Risuonaro le acute aspre quadrella
Ne gli homeri a l’irato, essendo mosso.
Ei sen’ giva simile a l’ombra scura;
Che spiega il vel de la profonda notte,
Et s’aßise in disparte da le navi.
Ne l’usar poi del velenoso strale,
Che il Dio mandò da la spietata corda.
Fece l’arco d’argento horribil suono:
Assalse prima i muli, et i veloci
Cani: et poscia in lor l’acuto strale
Drizzó, che porta seco acerba morte.
Le spesse pyre de la gente occisa
Mai sempre ardevan di novelle fiamme.
Nove giorni nel popolo infelice
Andar vagando le crudel saette;
Spinte da l’arco de l’irato Dio.
Al decimo chiamò la turba mesta
A la publica piazza il grande Achille.
Gli pose questo ne l’animo altiero
Giunon, di bianche membra adorna et bella.
Che per li greci la divina mente
In profondo pensier tenea sepolta;
Mentre de’ morti il gran numero vede.
Ma poi, che fu già il popol ragunato,
Et tutto insieme in un loco racolto:
Levatosi su piè veloci e pronti,
Cotai formò parole il grande Achille.
Atride, penso hor noi pieni d’errore
Debbiam di nuovo ritornare in dietro:
Se pur contra la morte habbiamo scampo,
Poi ch’aspra guerra e grave morbo insieme
Doma de’ greci l’infelice stuolo.
Ma domandiamo homai qualche indovino
O qualche sacerdore; o alcun che sappia
Scoprire il vel de ricoperti sogni:
(Perché ’l sogno è di Giove altiero dono)
Che dica la cagion che ’l biondo Apollo
Tanto contra di noi raccende in ira.
O ch’egli chiede gli humil prieghi nostri,
O il sacrificio pur di cento buoi:
Forse ch’ei vuol di semplicetti agnelli
Grato vapor, et di perfette capre:
Et questo havendo sgombrerà da noi
L’aspro velen di questo fiero morbo.
Così havendo parlato egli s’aßise,
Et tra color levossi di Thestorre
Il figliuol, che Chalcante era nomato,
Che tiene tra indovini il primo honore:
Il quale, et le presenti, et le passate,
Et le future cose conoscea
Et fu anchor ne le navi guida et scorta
De Greci; quando navigaro a Troia;
Mercè ch’egli sapea l’arte divina.
Achille, al sommo Giove caro amico;
Commandi tu, ch’i’ dica il fiero sdegno
D’Apollo re, che di lontan saetta?
Adunque i lo dirò: ma promettendo
Giurami; che sarai pronto mai sempre
Et con la lingua, et con mano ad aiutarmi,
Perché so che ’l rand’uom deve adirarsi,
Che tien de i greci l’honorato impero;
Onde ciascun il reverisce et teme.
Perché il possente Re, quando s’adira
Contra l’huomo, che sia negletto et vile:
Benché paia a ciascun che questo sdegno
In quel giorno sia preso a digerire;
Pur resta nel profondo altiero petto,
Fin ch’adempia il desio d’aspra vendetta.
Hor dimmi adunque, se salvar mi dei.
Ver lui così rispose il fiero Achille:
Havendo in me Calchante alta speranza
Di pur la voluntà pronto et securo
Del grande Dio; che tu conosci e intendi:
Perché con verità t’affermo et giuro
Per Apollo diletto al sommo Giove:
Al qual porgendo giusti prieghi honesti
Discopri a i greci le celate cose;
Che mentre viverò la dolce vita;
Che a me di veder non sia conteso
La terra, col suo herboso et verde manto;
Nessun di tutto il numero de greci,
Fia, qui vicino a questi cavi legni,
Ch’ardisca sopra te le gravi mani
Spinger, per darti noia, et farti oltraggio:
Nè Agamennon, anchor: che tu dirai
Hor nel gran stuol de greci il più perfetto
Esser, et ch’egli se ne glorie e vanti.
Allhora l’indovin fatto securo,
Disse; senza temer d’esser ripreso.