< Il re pastore
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Atto secondo
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ATTO SECONDO

SCENA I

Grande e ricco padiglione d’Alessandro da un lato; ruine inselvatichite di antichi edifici dall’altro. Campo de’ greci in lontano. Guardie del medesimo in vari luoghi.

Tamiri in atto di timore, Elisa conducendola per mano.

Elisa. Seguimi. A che t’arresti?

Tamiri.   Amica, oh Dio!
tremo da capo a piè. Torniam, se m’ami,
torniamo al tuo soggiorno.
Elisa.   Io non t’intendo;
t’affretti impaziente
pria d’Agenore in traccia; ed or nol curi,
giá vicina a trovarlo?
Tamiri.   Amor m’ascose
da lungi il rischio: or che vi son, comprendo
la mia temeritá.
Elisa.   Perché?
Tamiri.   La figlia
non son io di Stratone?
Elisa.   E ben?
Tamiri.   Le tende
non son quelle de’ greci? E se di loro
mi scopre alcuno? Ah! per pietá, fuggiamo,
cara Elisa.
Elisa.   È follia. Chi vuoi che possa
scoprirti in queste vesti? E, se potesse

scoprirti ognun, che n’avverrebbe? È forse

un barbaro Alessandro? Abbiam sí poche
prove di sua virtú? Del re de’ persi
e la sposa e la madre
non sai...
Tamiri.   Lo so; ma la sventura mia
forse è maggior di sua virtú. Non oso
di metterla a cimento. Andiam.
Elisa.   Perdona;
puoi tornar sola. Io nulla temo, e voglio
cercare Aminta. (incamminandosi verso il padiglione)
Tamiri.   Aspetta: il tuo coraggio
m’inspira ardir. (risoluta)
Elisa.   Dunque mi segui.
  (incamminandosi come sopra)
Tamiri. (fa qualche passo, e poi s’arresta)  Oh Dio!
mille rischi ho presenti.
No, non ho cor.
Elisa.   Dunque mi lasci? (le fugge di mano)
Tamiri.   Ah! senti.
               Al mio fedel dirai
          ch’io son... ch’io venni... Oh Dio!
          tutto il mio cor tu sai:
          parlagli col mio cor.
               Che mai spiegar, che mai
          dirti di piú poss’io?
          Tu vedi il caso mio,
          e tu conosci amor. (parte)

SCENA II

Elisa, poi Agenore.

Elisa. Questa del campo greco

è la tenda maggior: qui l’idol mio
certo ritroverò.

Agenore.   Dove t’affretti,

leggiadra ninfa? (arrestandola)
Elisa.   Io vado al re. (vuol passare)
Agenore. (la ferma)  Perdona:
veder nol puoi.
Elisa.   Per qual cagione?
Agenore.   Or siede
co’ suoi greci a consiglio.
Elisa. Co’ greci suoi?
Agenore.   Sí.
Elisa.   Dunque andar poss’io:
non è quello il mio re. (incamminandosi)
Agenore. (arrestandola)  Ferma: né pure
al tuo re lice andar.
Elisa.   Perchè?
Agenore.   Che attenda
Alessandro or convien.
Elisa.   L’attenda. Io bramo
vederlo sol. (come sopra)
Agenore.   No; d’inoltrarti tanto
non è permesso a te.
Elisa.   Dunque l’avverti:
egli a me venga.
Agenore.   E questo
non è permesso a lui.
Elisa.   Permesso almeno
mi sará d’aspettarlo. (siede)
Agenore.   Amica Elisa,
va’, credi a me: per ora
deh! non turbarci. Io col tuo re fra poco
piú tosto a te verrò.
Elisa.   No, non mi fido:
tu non pensi a Tamiri,
ed a me penserai?
Agenore.   T’inganni. Appunto
io voglio ad Alessandro

di lei parlar. Giá incominciai, ma fui

nell’opera interrotto. Ah! va’. S’ei viene,
gli opportuni momenti
rubar mi puoi.
Elisa.   T’appagherò.
 (s’alza, s’incammina, poi si volge)
  Frattanto
non celar ad Aminta
le smanie mie.
Agenore.   No.
Elisa. (come sopra)  Digli
che le sue mi figuro.
Agenore. Sí.
Elisa.   Da me lungi, oh quanto
penerá l’infelice! (ad Agenore, ma da lontano)
Agenore. Molto.
Elisa.   E parla di me? (da lontano)
Agenore.   Sempre.
Elisa. (torna ad Agenore)  E che dice?
Agenore. Ma tu partir non vuoi. Se tutte io deggio
ridir le sue querele... (con impeto)
Elisa. Vado: non ti sdegnar. Sei pur crudele!
          Barbaro, oh Dio! mi vedi
     divisa dal mio ben;
     barbaro, e non concedi
     ch’io ne dimandi almen?
          Come di tanto affetto
     alla pietá non cedi?
     hai pure un core in petto,
     hai pure un’alma in sen. (parte)

SCENA III

Agenore ed Aminta.

Agenore. Nel gran cor d’Alessandro, o dèi clementi,

secondate i miei detti
a favor di Tamiri. Ah! n’è ben degna
la sua virtú, la sua beltá... Ma dove,
dove corri, mio re?
Aminta.   La bella Elisa
pur da lungi or mirai: perché s’asconde?
dov’è?
Agenore.   Partí.
Aminta.   Senza vedermi? Ingrata!
Ah! raggiungerla io voglio. (s’incammina)
Agenore. Ferma, signor. (l’arresta)
Aminta.   Perché?
Agenore.   Non puoi.
Aminta.   Non posso?
Chi dá legge ad un re?
Agenore.   La sua grandezza,
la giustizia, il decoro, il bene altrui,
la ragione, il dover.
Aminta.   Dunque pastore
io fui men servo? e che mi giova il regno?
Agenore. Se il regno a te non giova,
tu giovar devi a lui. Te dona al regno
il ciel, non quello a te. L’eccelsa mente,
l’alma sublime, il regio cor, di cui
largo ei ti fu, la pubblica dovranno
felicitá produrre; e solo in questa
tu dèi cercar la tua. Se te non reggi,
come altrui reggerai? come... Ah! mi scordo
che Aminta è il re, che un suo vassallo io sono.
Errai per troppo zel: signor, perdono.
  (vuole inginocchiarsi)

Aminta. Che fai? Sorgi. (lo solleva) Ah! se m’ami,

parlami ognor cosí. Mi par sí bella,
che di sé m’innamora,
la veritá, quando mi sferza ancora.
Agenore. Ah! te destina il fato
veramente a regnar.
Aminta.   Ma dimmi, amico:
non deggio amar chi m’ama? È poco Elisa
degna d’amore? Ho da lasciar, regnante,
chi mi scelse pastore? I suoi timori,
le smanie sue non dénno
farmi pietá? Chi condannar potrebbe
fra gli uomini, fra i numi, in terra, in cielo
la tenerezza mia?
Agenore.   Nessuno: è giusta;
ma pria di tutto...
Aminta.   Ah! pria di tutto andiamo,
amico, a consolarla, e poi...
Agenore.   T’arresta.
Sciolto è il Consiglio; escono i duci; a noi
viene Alessandro.
Aminta.   Ov’è?
Agenore.   Non riconosci
i suoi custodi alla real divisa?
Aminta. Dunque...
Agenore.   Attender convien.
Aminta.   Povera Elisa!
Agenore.   Ogni altro affetto ormai
          vinca la gloria in te.
          Parli una volta il re,
          taccia l’amante.
               Sempre un pastor sarai,
          se l’arte di regnar
          pretendi d’imparar
          da un bel sembiante.

SCENA IV

Alessandro e detti.

Alessandro. Agenore. (ad Agenore, che parte)

Agenore.   Signor.
Alessandro.   Férmati: io deggio
poi teco favellar. (Agenore si ferma)
(ad Aminta)  Per qual cagione
resta il re di Sidone
ravvolto ancor fra quelle lane istesse?
Aminta. Perché ancor non impresse
su quella man, che lo solleva al regno,
del suo grato rispetto un bacio in pegno.
Soffri che prima al piede
del mio benefattor... (vuole inginocchiarsi)
Alessandro.   No; dell’amico
vieni alle braccia, e, di rispetto invece,
rendigli amore. Esecutor son io
dei decreti del ciel. Tu del contento,
che in eseguirli io provo,
sol mi sei debitor. Per mia mercede
chiedo la gloria tua.
Aminta.   Qual gloria, oh dèi!
io saprò meritar, se fino ad ora
una greggia a guidar solo imparai?
Alessandro. Sarai buon re, se buon pastor sarai.
Ama la nuova greggia
come l’antica; e, dell’antica al pari,
te la nuova amerá. Tua dolce cura
il ricercar per quella
ombre liete, erbe verdi, acque sincere
non fu finor? Tua dolce cura or sia
e gli agi ed i riposi

di quest’altra cercar. Vegliar le notti,

il dí sudar per la diletta greggia,
alle fiere rapaci
esporti generoso in sua difesa,
forse è nuovo per te? Forse non sai
le contumaci agnelle
piú allettar con la voce
che atterrir con la verga? Ah! porta in trono,
porta il bel cor d’Aminta, e amici i numi,
come avesti fra’ boschi, in trono avrai.
Sarai buon re, se buon pastor sarai.
Aminta. Sí. Ma in un mar mi veggo
ignoto e procelloso. Or, se tu parti,
chi sará l’astro mio? da chi consigli
prender dovrò?
Alessandro.   Giá questo dubbio solo
mi promette un gran re. Del mar, che varchi,
tu prevedi, e mi piace,
giá lo scoglio peggior. Darne consiglio
spesso non sa chi vuole,
spesso non vuol chi sa. Di fé, di zelo,
di valor, di virtú sugli occhi nostri
fa pompa ognun; ma sempre uguale al volto
ognun l’alma non ha. Sceglier fra tanti
chi sappia e voglia, è gran dottrina; e forse
è la sola d’un re. Per mano altrui
ben di Marte e d’Astrea l’opre piú belle
può un re compir; ma il penetrar gli oscuri
nascondigli d’un cor, distinguer chiara
la veritá tra le menzogne oppressa,
è la grande al re solo opra commessa.
Aminta. Ma donde un sí gran lume
può sperare un pastor?
Alessandro.   Dal ciel, che illustra
quei che sceglie a regnar. Nebbie d’affetti
se dal tuo cor tu sollevar non lasci

a turbarti il seren, tutto vedrai.

Sarai buon re, se buon pastor sarai.
Aminta. Tanto ardir da quei detti...
Alessandro.   Or va’: deponi
quelle rustiche vesti, altre ne prendi,
e torna a me. Giá di mostrarti è tempo
a’ tuoi fidi vassalli.
Aminta.   Ah! fate, o numi,
fate che Aminta in trono
se stesso onori, il donatore e il dono.
          Ah! per voi la pianta umíle
     prenda, o dèi, miglior sembianza,
     e risponda alla speranza
     d’un sí degno agricoltor!
          Trasportata in colle aprico,
     mai non scordi il bosco antico,
     né la man che la feconda
     d’ogni fronda — e d’ogni fior. (parte)

SCENA V

Alessandro ed Agenore.

Agenore. (Or per la mia Tamiri

è tempo di parlar.)
Alessandro.   La gloria mia
me fra lunghi riposi,
o Agenore, non soffre. Oggi a Sidone
il suo re donerò: col nuovo giorno
partir vogl’io; ma, tel confesso, a pieno
soddisfatto non parto. Il vostro giogo
io fransi, è vero; io ritornai lo scettro
nella stirpe real; nel saggio Aminta
un buon re lascio al regno, un vero amico
in Agenore al re. Sarebbe forse

onorata memoria il nome mio

lungamente fra voi. Tamiri, oh dèi!
sol Tamiri l’oscura. Ov’ella giunga
fuggitiva raminga,
di me che si dirá? che un empio io sono,
un barbaro, un crudel.
Agenore.   Degna è di scusa,
se, figlia d’un tiranno, ella temea...
Alessandro. Questo è il suo fallo: e che temer dovea?
Se Alessandro punisce
le colpe altrui, le altrui virtudi onora.
Agenore. L’Asia non vide altri Alessandri ancora.
Alessandro. Quanta gloria m’usurpa! Io lascerei
tutti felici. Ah! per lei sola or questa
riman del mio valore orma funesta.
Agenore. (Coraggio!)
Alessandro.   Avrei potuto
altrui mostrar, se non fuggía Tamiri,
ch’io distinguer dal reo so l’innocente.
Agenore. Non lagnarti. Il potrai.
Alessandro.   Come!
Agenore.   È presente.
Alessandro. Chi?
Agenore.   Tamiri.
Alessandro.   E mel taci?
Agenore.   Il seppi appena
che a te venni; e or volea...
Alessandro.   Corri! t’affretta!
guidala a me.
Agenore.   Vado e ritorno. (in atto di partire)
Alessandro.   Aspetta. (pensa)
(Ah! sí: mai piú bel nodo (risoluto da sé)
non strinse Amore.) Or sí contento a pieno
partir potrò. Vola a Tamiri, e dille
ch’oggi al nuovo sovrano
io darò la corona, ella la mano.

Agenore. La man!

Alessandro.   Sí, amico. Ah! con un sol diadema
di due bell’alme io la virtú corono.
Ei salirá sul trono,
senza ch’ella ne scenda; e a voi la pace,
la gloria al nome mio
rendo cosí: tutto assicuro.
Agenore.   (Oh Dio!)
Alessandro. Tu impallidisci e taci!
Disapprovi il consiglio? È pur Tamiri...
Agenore. Degnissima del trono.
Alessandro.   È un tal pensiero...
Agenore. Degnissimo di te.
Alessandro.   Di quale affetto
quel tacer dunque è segno e quel pallore?
Agenore. Di piacer, di rispetto e di stupore.
Alessandro.   Se vincendo — vi rendo felici,
     se partendo — non lascio nemici,
     che bel giorno fia questo per me!
          De’ sudori, ch’io spargo pugnando,
     non dimando — piú bella mercé. (parte)

SCENA VI

Agenore solo.

Oh inaspettato, oh fiero colpo! Ah! troppo,

troppo, o numi inclementi,
trascendete i miei voti: io non chiedea
tanto da voi. Misero me! ti perdo,
bella Tamiri, e son cagione io stesso
della perdita mia. Folle ch’io fui!
Ben preveder dovea... Come! ti penti,
Agenore infelice,
d’un atto illustre? E tu sei quel che tanta

virtude ostenta? E quel tu sei, che ardisce

di correggere i re? Torna in te stesso,
e grato ai numi... Ah! rimirar potrai
la tua bella speranza ad altri in braccio
senza morir? No; ma la scusa è indegna,
o Agenore, di te. Se ami la vita
men dell’onor, se piú Tamiri adori
che il tuo piacer, guidala in trono e mori.

SCENA VII

Aminta in abito reale, e detto.

Aminta. Eccomi a te di nuovo; ecco deposte

le care spoglie antiche. Avvolto in questi
lucidi impacci, alla mia bella Elisa
mal noto forse io giungerò. Potessi
almeno a lei mostrarmi!
Agenore.   Ah! d’altre cure,
signore, è tempo. Or che sei re, conviene
che a pensar tu incominci in nuova guisa.
Aminta. Come! E che far dovrei?
Agenore.   Scordarti Elisa.
Aminta. Elisa! E chi l’impone?
Agenore.   Un cenno augusto
di chi può ciò che vuole, e vuole il giusto:
l’impone il ben d’un regno,
l’onor d’un trono...
Aminta.   Ah! vadan pria del mondo
tutti i troni sossopra. Elisa è stato,
Elisa è il mio pensiero; e, fin che l’alma
non sia da me divisa,
sempre Elisa il sará. Scordarmi Elisa!
Ma sai come io l’adoro?
sai che fece per me? sai come...

Agenore.   Ah! calma

quegl’impeti, o mio re.
Aminta.   Scordarmi Elisa!
Se lo tentassi, io ne morrei.
Agenore.   T’inganni:
di tua virtú non ben conosci ancora
tutto il valor. Sentimi solo; e poi...
Aminta. Che mai, che dir mi puoi?
Agenore.   Che, quando al trono
sceglie il cielo un regnante...
(vede Elisa alla destra)  Ah! viene Elisa.
Fuggiam.
Aminta.   Non lo sperar.
Agenore.   Pietá, signore,
di te, di lei. L’ucciderai, se parli
pria di saper...
Aminta.   Non parlerò, tel giuro.
Agenore. No: déi fuggirla. Andiam: soffri un eccesso
dell’ardita mia fé sol questa volta.
(lo prende per mano e il trae seco in fretta verso la sinistra)

SCENA VIII

Tamiri dalla sinistra, Elisa dalla destra, e detti.

Tamiri. Dove, Agenore?

Agenore.   Oh stelle!
Elisa.   Aminta, ascolta.
Agenore. Ah, principessa!
Aminta.   Ah, mio tesoro!
Tamiri. (ad Agenore)  E tanto
attenderti convien?
Elisa. (ad Aminta)  Tanto bisogna
sospirar per vederti?
Tamiri. (ad Agenore)  A me pensasti?
Elisa. Pensasti a me? (ad Aminta)

Tamiri. (ad Agenore)  Posso saper qual sia

alfin la sorte mia?
Elisa.   Ritrovo ancora
il mio pastor nel re? (ad Aminta)
Tamiri. (ad Agenore)  Ma tu sospiri?
Elisa. Ma tu non mi rispondi? (ad Aminta)
Tamiri. Parla. (ad Agenore)
Agenore.   Dovrei... Non posso.
Elisa. Parla. (ad Aminta)
Aminta.   Vorrei... Non so.
Tamiri.   Come!
Elisa.   Che avvenne?

Tamiri ed Ma parlate una volta.
Elisa.

Agenore.   Ah! che pur troppo
si parlerá. Lasciateci un momento
respirar soli in pace.
Tamiri.   Udisti, Elisa?
Elisa. Oh dèi, scacciarne! E tu che dici, Aminta?
Aminta. Ch’io mi sento morire.
Tamiri.   Intendo.
Elisa.   Intendo.
Tamiri. T’avvilí la mia sorte.
Elisa. Han quelle spoglie anche il tuo cor cangiato.
Tamiri. Agenore incostante!
Elisa.   Aminta ingrato!
          Ah, tu non sei piú mio!
Tamiri.   Ah, l’amor tuo finí!
Aminta.   Cosí non dirmi, oh Dio!
Agenore.   Non dirmi, oh Dio! cosí.
Elisa.   Dov’è quel mio pastore?
Tamiri.   Quel mio fedel dov’è?

Aminta ed Agen. Ah, mi si agghiaccia il core!
A quattro.   Ah, che sará di me!
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