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PROLOGO
La scena è in Itaca.
C’è una fitta nebbia ch’è distesa sul mondo.
E in mezzo al grigio si vede nel mare una nave nera che dilegua piano piano e si confonde coi flutti. Nascosto in mezzo alle giuncaie di una foresta d’ombre, seminudo, con la faccia rugata dai patimenti e le chiome molto incanutite dal dolore, giace Ulisse dormente, vicino ai doni dei Feaci — tripodi d’oro, lébeti, urne e vesti seriche. Fra mezzo agli oggetti preziosi c’è l’antico remo d’Ulisse. Luccica confusamente un ruscello.
Ulisse si sveglia. Salta d’un balzo in piedi e guarda verso il mare.PROLOGO
ULISSE
O Dei! La nave!
(tace un momento, poi si avventa urlando e singhiozzando verso il mare)
M’ha lasciato a terra
la nave dei Feaci! E’ ormai lontana
sul mare! No! Fermate o Feaci!
Alzate i remi! Ritornate a terra!
(cade, senza forza, sopra un tronco d’albero)
Non m’hanno udito! M’ha solo risposto
il breve e lento sciabordar dell’onde.
(risorge in piedi)
Pallade Atena, dà tanta possanza
alla mia voce, si che i rematori
taciti e curvi, alzando i remi, ascoltino
correr sull’onde il disperato grido.
Tornate a terra o vi punisca Giove!
Ma vanno, vanno! E ridono sul mare
dell’urlo! E volan via come un alcione...
Ma invoco te nella sventura, o mia
Dea protettrice, Pallade, che m’hai
avuto caro fino ad ora, dimmi
in quale spiaggia sconosciuta io sono,
e quanto tempo ho da soffrire e quanto
da supplicare per vedere ancora
il lento fumo della mia serena
Itaca andare verso il cielo, e i boschi
ove cacciai col rapid’Argo, e l’alte
soglie delle mie case e la divina
Penelope e mio figlio! O maledetti
i Feacesi! Come un can tignoso
coi doni m’han lasciato in questa terra
spersa, e la terra mia lacrimo ancora.
Soffriró sempre, e mai potró giacere
sopra il mio letto? O casa mia lontana!
Quando s’alza il marino ebbro di sale
verso il tramonto, il mio vecchio Laerte
sta nel suo campo e guarda verso il mare,
se mai vedesse un veleggiar lontano;
e viene forse alle mie case, e parla
con la mia sposa un vïatore, e dice
d’avermi visto navigar la nera
nave coi miei compagni, e siedon tutti
al lauto pranzo, taciti, e col fumo
delle vivande, salgon le memorie
e dentro il vino mescesi l’angoscia...
(tace un momento, guardando sempre il mare)
Ecco la nave! Un punto che si perde
in mezzo ai punti... E l’infinito sta
per inghiottirla...
(tace di nuovo. Poi si china sui doni e incomincia a contarli)
Tutto c’è. L’ornata
anfora d’oro, il tripode superbo,
il peplo porporato ed il mantello
e i lébeti di bronzo! E le ricchezze
tutte, e l’avorio e le verghe d’argento;
tutto m’han dato e tutto m’han lasciato!
Anche il mio remo! L’ultimo ricordo
del navalestro naufragato! Oh, un passo!
(entra una fanciulla)
ULISSE
(alla fanciulla)
Vieni, fanciulla pia. Dimmi, chi sei?
Che mare è questo? dove sono? E quale
è il nome della terra? E chi governa
gli uomini?
LA FANCIULLA
(fa dei gesti dì meraviglia)
Vecchio, m’hai fatto stupire:
tu non conosci questa terra? Eppure
ha molta fama e tutti l’hanno vista,
gli uomini che vengon dal tramonto,
quelli del giorno, quelli della notte.
E’ un’isola montuosa e malamente
vi si cavalca e poco mare invade.
Pure vi cresce grano, e saporosa
uva, e giovani forti e grandi eroi.
La bacia ogni mattina la rugiada,
le capre e i buoi vi pascolano bene.
E le sorgenti son perenni, e immensa
fama le diede al inondo il Re Odisseo.
ULISSE
(con voce tremenda)
Che intendi? E’ forse?...
LA FANCIULLA
(un po’ spaventata)
Itaca, sí, straniero.
ULISSE
(sobbalzando)
Itaca, dici?
LA FANCIULLA
La ondicinta terra
ricca di selve dalle verdi chiome,
Itaca, la petrosa Itaca, e questa
fonte che scende chioccolando al mare
è l’Aretusa.
ULISSE
(s’inginocchia e bacia la terra)
Umbratili montagne!
O terra mia desiderata! Avere
tanta possanza da abbracciarti tutta!
Sentir pulsare il tuo respiro contro
il mio respiro! Addio! Corro alla reggia!
LA FANCIULLA
Fermati Ulisse! Più non riconosci
Atena, la tua dea dagli occhi azzurri?
Io sono scesa giù per aiutarti!
Non ritornare alla tua reggia, Ulisse!
ULISSE
Che dici, Atena? E chi si oppone al mio
ritorno? I numi hanno mandato un male
sulla mia casa?
ATENA
Placa il cuore, Ulisse!
Ai grandi è dato il vanto del Dolore.
Questo è il destino degli eroi: lasciare
le dolci case e sanguinar lontano
nel bacio del travaglio e della gloria;
e intanto i parassiti urgon le donne
— che sveglie e calde nelle notti inquiete
pensano i baci del lontano — e i beni
guardan con occhio ove scintilla eguale
e forse anche più acuto desiderio.
ULISSE
Atena! Pensi alla mia donna? Pensi
alla mia donna?
ATENA
Hanno tentato i tuoi
nemici, invano! Ella ti attende sempre
nè ha mai lasciato il letto maritale!
ULISSE
Ma dimmi dunque: Chi sono costoro?
Di dove sono? E... potró vendicarmi?
ATENA
In quella turba troverai sovrani
di Grecia e d’Asia — giunti d’ogni terra;
voglion aver la tua donna e il tuo regno.
E senza tema han violato la reggia
e ingollano ricchezze e pecorame,
e il male estremo ordiscono a tuo figlio.
ULISSE
Anche mio figlio? Anche mio figlio? Addio,
corro alla reggia!
(fa per partire)
ATENA
(fermandolo)
Non andare, Ulisse!
Pazienza! Frena la vendetta in cuore!
Chè molti sono, e di superbo cuore
i Proci! Trenta di Dulichio e venti
quattro di Samo e venti di Zacinto
e più di dieci d’Itaca, e con essi
Medonte araldo ed il cantor divino.
Véstiti come un vecchio mendicante,
e va da Eumeo, che t’ama ancora e guarda
la nera greggia dei nitidi verri
in quella casa, e sta per ritornare
con le sue bestie a farle bere al fonte.
E con lui scendi alla tua reggia, osserva
inosservato e scegli la vendetta!
Ed ora vieni; nascondiamo i doni
nell’antro delle Naiadi marine.
(Ulisse e Pallade prendono i doni dei Feaci, escono e ritornano)
ULISSE
Atena! ancora una grazia. Se vuoi
che in me nessuno ravvisi il partito,
incanutisci i miei capelli biondi,
solca di rughe la mia fronte e curvami
come un pinastro al venteggiar del tempo.
ATENA
(ridendo)
Ti credi ancora biondo, e forte, e dritto
nella persona, come quando ad Ilio
le prue volgesti? Ma dieci anni e dieci
sono passati, e tu non sei più biondo
come il biondo licor di Siracusa.
Guarda piuttosto nel ruscello!
(Ulisse va all’Arelusa e si specchia. E rimane un momento silenzioso, osservando)
ULISSE
Un giorno,
venti anni fa, venni a veder la mandra,
e mi specchiai nel chiaro fior dell’acque.
Non son più quello. Ah Dea! Ma questo braccio
è ancora forte e i miei capelli sono
soltanto grigi e non mi curvo ancora.
PALLADE
Ora la nebbia schiarirà e la bella
Itaca alfine rivedrai nel sole.
E dormirai per un minuto, e vecchio
e mal vestito ti faró svegliare.
Cosí concio starai fino al momento
della vendetta. E in quel momento, un sole
risplenderà negli occhi tuoi, terrore
dei Proci, e bionde diverran le chiome
e giovane sarai come una volta.
Va’ dal porcaro. Chiedigli il suo pane
ed il suo tetto; non dirgli chi sei.
Sopporta i colpi, sopporta le ingiurie.
Entra con lui nella tua casa, come
un mendicante. Io vado al mare e cerco
del tuo figliolo, che sta ritornando
sopra una nave, e spingeró la nave,
e te lo mando.
(sparisce)
ULISSE
(guarda il mare, poi giace di nuovo)
Ora gioisci, o grande
cuore che hai pianto sopra tanto pianto!
(s’addormenta)
FINE DEL PROLOGO