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PER MONACA
I.
Cantarellando una canzoncina popolare, Eva Muscettola girava intorno al bruno tavolone oblungo, su cui erano posati tanti cestini da lavoro, piccoli e grandi, frugava con le dita irrequiete dentro questi cestini, cavandone dei lembi di tela o di mussola già cucita o semplicemente impuntita, aguzzando gli occhi vividissimi, ma miopi, per vedere se nulla vi mancasse, i rocchetti del filo, l’agoraio, le forbici, facendo una quantità di smorfiette carine, secondo che il contenuto del cestino le sembrasse ordinato o disordinato. Un bocciuolo di rosa era passato nella cintura del suo vestito di seta nera, un bocciuolo rosso rosso, già quasi schiuso, simile alla bellezzina ancora incompleta, ma già prepotente, di Eva. Ella canticchiava, mettendo degli aghi da una cartina, nell’agoraio di argento di Giulia Capece, a cui mancava sempre tutto per cucire, quando Tecla Brancaccio entrò, la prima, col suo fermo passo virile, portando anche quel giorno la sua giacchetta da uomo, il goletto bianco, alto e chiuso, la cravatta maschile e lo spillo a ferro di cavallo.
— O caro, caro il mio fidanzato, — gridò da lontano Eva, vedendo arrivare Tecla, — sei puntuale come un giovanotto a un ritrovo! Sei ancora uscita a cavallo, stamane? Come va Gipsy?
— Benissimo, non si era che sferrata, ieri l’altro; — rispose Tecla con la sua voce un po’ dura, cavandosi i guanti lunghi di camoscio, arrotolandoli e buttandoli in fondo al suo cappellino di feltro.
— E Carlo, come va? — domandò sottovoce, con una inflessione affettuosa, Eva.
— Malissimo, naturalmente; egli è ancora partito per Parigi, per seguirla, ierisera. —
E si affibbiava uno strano braccialetto di ferro.
— Ma perchè ti ostini, Tecla? Carlo ti vuol bene ma ella è più forte di te, amore mio.
— Chissà!
— Non vedi che vince sempre? È bella, è bionda, sa piangere, è piena di seduzione, ama Carlo da disperata....
— Anche io amo Carlo.
— Sì, ma le donne maritate sono più forti di noialtre ragazze; — soggiunse JEva, con una filosofia inconscia.
— Sarà, ma io non cedo.
— E che puoi fare?
— Aspettare. —
E nella breve fronte pallida, negli occhi grigi, di metallo lucido e freddo, nelle sottili labbra di rosetta smorta, nel mento un po’ quadrato, si leggeva la pazienza e la forza, la volontà indomabile che si raccoglie nell’aspettazione. Subito, senza dire altro, Tecla si sedette al suo posto, tirò a sé la cesta del lavoro che era più grande delle altre, ne cavò fuori una rude tela a righe, una fodera da piccolo materasso, un tessuto duro duro che le sue dita di ferro bucavano rapidamente; la cucitrice non levò neppure il capo, quando entrarono Giulia Capece e Chiarina Althan; il suo lavoro e i suoi pensieri l'assorbivano completamente.
— È poi giunta questa cassa da Vienna, Giulia? — domandò Eva, prendendole dalle braccia il mantello di pelliccia e sorridendo a Chiarina Althan.
— Sì, non fosse mai arrivata! — esclamò la bellissima fanciulla, snella come uno stelo; — tanta curiosità, tant'aspettazione! Non t'ho fatto leggere la lettera di mia zia, da Vienna? Pareva che nella cassa vi fossero le sette meraviglie! Proprio! Ma che si burlano di noi le sarte viennesi! Non abbiamo occhi, gusto, intelligenza, che ci mandano dei vestiti azzurri carichi di rose?
— Oh Gesù! — esclamò Eva, scandalizzata.
— Più un cappellino, con un pappagallo verde impagliato; — soggiunse Chiarina, col suo sorrisetto un po' enigmatico. — Pare che sia il pappagallo della zia di Giulia, un sacrifizio alla parentela, un'anticipazione alla eredità. Quando metti quel cappellino, Giulia, fa una circolare alle amiche, facendo appello alla loro affezione per aver pietà della tua sventura.
— Io non lo metterò mai, mai! — esclamò Giulia, quasi con le lagrime agli occhi; — lo darò a Concetta la cameriera.
— E tua zia ti disereda; — soggiunse Chiarina, ridendo.
Giulia diede una spallata. Tanto, era povera, nobilissima, con la famiglia carica di debiti, fidando solo sulla propria bellezza, per fare un gran matrimonio: e tutti i vecchi amici di casa, le zie straniere, i confessori, erano tutti in moto per trovare dei milioni a questa splendida creatura, che intanto ne spendeva in anticipazione la rendita. Giulia si mise a cucire di malavoglia una camiciolina da bimbo, dando certi punti lunghi, lunghi, spezzando il filo ogni momento, guardandosi ogni tanto nello specchio che aveva dirimpetto: e la flessuosa persona si chinava come un fiore, le lunghe ciglia castane ombreggiavano delicatamente le guancie, la bocca rossa sembrava un melagrano lucido, succoso. Chiarina Althan, accanto a lei, tagliava in un pezzo di cotonina bianca e rosea, un grembialino da bimba; e la finissima fisonomia, non bella, ma traspirante intelligenza, gli occhi calmi ma profondi, la bocca pensosa, si curvava sulla stoffa, pieni di attenzione e d’interesse, come per leggere un libro o per ammirare un quadro. Intanto Eva si era messa al suo posto e impuntiva l’orlo di certe fascie, a lunghi punti, canticchiando, mentre Tecla Brancaccio a grandi colpi di forbici stridenti, buttava in terra il pezzo che superava dal piccolo materasso che trapuntiva. Le due sorelline Sannicandro entrarono, tenendosi a braccetto: erano due statuine di porcellana bianca colorata di rosa, due bambolette gentiline, rotonde, con certi nasetti all’insù, i capelli ricci e l’aria infantile, malgrado che avessero quindici anni. E subito recitarono la lezioncina, come bambole ben ammaestrate.
— Buongiorno, Eva, papà ti saluta.
— Buongiorno, cara, e grazie.
— Buongiorno, Eva, mammà ti saluta.
— Buongiorno, carina, e grazie. —
Si cavarono i paltoncini eguali, posarono i cappellini eguali, restarono coi vestitini di seta nera, eguali. Poi, un momento interdette, ripresero la lezione.
— Sta bene mammà tua, Eva?
— Sì, cara, è stata all’Unione ierisera; ora dorme.
— E papà tuo sta bene, Eva?
— Sì, cara, è a Gifoni, a caccia.
— Sta bene, tuo fratello Riccardo, Eva? —
Eva portò subito alle due bambolette che si guardavano, soddisfatte della propria recitazione, una quantità di fasce da bimbi da orlare. La specialità delle sorelline Sannicandro, in quel grande lavorìo per l’ospizio dei fanciulletti abbandonati, erano orli: esse orlavano ogni giorno, orlavano sempre, orlavano senza fine, chilometri intieri di orli, uscivano da quelle manine pazienti di statuette meccaniche. Erano sempre contente di orlare, levando ogni tanto il capo, per domandare:
— Hai il rocchetto bianco, Eva?
— Hai le piccole forbici, Eva? —
Maria Gullì-Pausania entrava lentamente, col suo passo di deità olimpica: a Eva che le corse incontro degnò sorridere, offrì la guancia bruna e fredda di siciliana altiera, scambiò due o tre saluti con Tecla, con Giulia Capece e con Chiarina Althan e si mise al suo posto, con una misurata armonia di movimenti, strofinandosi la mano destra, dove una piccola macchia rossa era comparsa, respingendo indietro i polsini di tela bianca, tirando a sé il cestino del lavoro, dove marcava di rosso, cifra e numero, tutti i capi di biancheria che le sue amiche le passavano, dopo averli finiti. E faceva il suo lavoro con una certa lentezza solenne, con un’aria di signorilità, rassegnata a un lavoro umile, con una disinvoltura affettata di spirito superiore che si piega per bontà d’animo, marcava la biancheria con tanta dignità di gesto, che pareva sempre considerasse la immensa felicità di quei bimbi, che nella loro infanzia potevano già avere la fortuna d’indossare una gonnelluccia bianca, marcata da lei, Maria Gullì-Pausania, la cui casa veniva subito dopo quella del Re, a Palermo, che possedeva in famiglia due principati, tre marchesati, quattro miniere di zolfo e una intiera provincia di aranci e di limoni. Ella inarcò le ciglia quando vide entrare, quasi correndo, Elfrida Kapnist, l’ungherese dai grandi occhi neri, smorti e selvaggi, dai capelli bruni e ricciuti che nessun pettine arrivava a domare, dal viso pallidamente acceso, allungato come quello di una capra, dal paltoncino di uno strano color giallastro, dal vestito troppo corto innanzi che lasciava vedere i piedini sottili, sdutti. Elfrida fu accolta con una gradazione di sorrisi più o meno amabili. Eva stessa era un po’ imbarazzata, nel riceverla: di Elfrida si diceva un grandissimo male e un grandissimo bene. Era una zingara scappata dalla tribù, — nossignore, era la figlia di un console, nobile, ma povera, — era una stracciona, — aveva una quantità di terre confiscate, in Ungheria — era figlia di una cavallerizza, — sua madre, era una Radziwill, — ella si faceva regalare i vestiti dai giovanotti — la duchessa della Mercede le faceva la carità degli abiti. — Intanto, con queste contraddizioni, con lo spirito indiavolato di Elfrida, con la sua inesauribile allegria, col suo brio di straniera un po’ libera, con la sua simpatia di tipo bizzarro, ella andava dovunque, un po’ invitata, un po’ tollerata, un po’ mal ricevuta, ma sempre presente, sempre gaia, mostrando i suoi dentini bianchi di zingarella, ballando tutta la notte, cenando in tutte le ore, noncurante dei suoi vecchi vestiti, dei suoi guanti lavati, dei suoi capelli arruffati, che respingevano le forcinelle. Ella baciò vivamente, sulle due guancie, Eva, e mettendosi a cucire, annunziò:
— Olga Bariatine sposa Massimo. —
Tutte levarono il capo, anche le due bambole Sannicandro:
— È certo? — domandò Tecla Brancaccio.
— Certissimo: sposano in maggio, Olga vuole andare in Russia pel viaggio di nozze.
— Sarà molto contenta, Olga, eh? — disse Eva con la sua inflessione tenera di persona che desidera la felicità altrui.
— Contentona: ierisera Massimo è restato sino alle dodici da lei, non lo ha mai fatto.
— Povera Olga! — sospirò Giulia Capace — con tutti quei denari, prendere quello spiantato.
— Un giuocatore: mio fratello lo incontra ogni anno a Montecarlo — mormorò Eva, un momento pensosa.
— Un annoiato noioso — soggiunse Chiarina Althan.
— Come è che si è deciso al matrimonio? I Daun sono molto nobili: chi conosce i Bariatine? domandò Maria Gullì-Pausania, guardando una pila di strofinacci nuovi, da marcare, per le cucine dell’ospizio, indecisa se fare quest’altro sacrifizio alla carità.
— Naturalmente, il nobilissimo signor Massimo Daun, non avrà più trovato né un amico che gli presti cinquecento franchi, nè uno strozzino che gli creda, e ha finito per appagare l’ardente amore di Olga Bariatine, che è poi bellina, ricca e buona.
— Ma di mala voglia, molto di mala, voglia, — riprese Elfrida Kapnist, che orlava delle cuffiette, — stanotte a una cena, fra giovanotti, egli ha bestemmiato come un turco, contro il matrimonio, contro la Piccola Russia e contro tutta la razza slava.
— Che orrore! — esclamò Eva, — non mi vorrei maritare a questo prezzo, neppure per un uomo che adorassi.
— Perchè non ne adori nessuno — osservò placidamente Tecla Brancaccio.
Angiolina Cantelmo, che era entrata allora, abbozzò un debole sorriso. Era una persona delicata e alta, con certi occhioni azzurri pieni di fluido, con le guance colorite di un sangue finissimo roseo, un roseo giapponese di porcellana trasparente. Ella apparteneva alla più nobile, più antica famiglia napoletana, la vecchia casa Cantelmo, in cui erano tradizionali la bontà, la bellezza, il valore, la generosità; ma da duecento anni, nella casa, si andava perpetuando una tradizione di sventura, una grande fatalità morale e materiale discendeva per li rami, la leggenda parlava di un delitto da espiare, a redimersi dal quale non valevano l’onestà e il coraggio degli uomini, la bellezza, la virtù, la pietà delle donne: sempre un Cantelmo o una Cantelmo morivano di morte violenta. Una disgrazia terribile aveva portato via la madre di Angiolina: e già un fratello e una sorella bellissimi, biondi e rosei, erano stati colpiti dalla tisi. In quanto ad Angiolina, due anni prima l’avevano fidanzata a Giorgio Serracapriola, un giovanotto bello, ricco, elegante, scettico e indolente: ed ella, piamente, da buona ed onesta fanciulla si era messa ad amare il suo fidanzato. Il matrimonio era andato a monte, per questioni d’interesse, fra il padre di Giorgio e quello di Angiolina; Giorgio era partito per un viaggio, in yacht, un po’ indifferente, in fondo, — ella aveva taciuto, non si era lagnata, non aveva detto una parola con nessuno; a chi gliene parlava, rispondeva con un sorriso pallido e si faceva sempre più sottile, sempre più rosea, come un cero. Aveva sempre freddo, però, e parlava a voce bassa. Diceva a Eva Muscettola che pel primo decembre, si poteva contare per l’inaugurazione dell’ospizio: ma che intanto otto o dieci delle fanciullette da ricoverarsi, bisognava che si cresimassero. Bisognava trovar le madrine, pregar monsignor Arcivescovo di scegliere una chiesa privata: il discorso divenne generale, ognuna delle lavoratrici offrì di far da madrina, anche le due Sannicandro lo dissero, ambedue, insieme, come una lezioncina, anche Elfrida Kapnist che molti accusavano di essere protestante, scismatica, turca o peggio: solo Maria Gullì-Pausania si rifiutò: in verità non poteva accettare di esser la madrina di una straccioncella qualunque.
— Non potremmo fare la funzione nella cappella Cantelmo? — domandò Eva ad Angiolina.
— Sì, se volete. Ma quelle bimbe si sgomenteranno. È così triste quella nostra cappella, e poi così fredda, così fredda!
— Non ascoltate voi la messa lì dentro, ogni domenica?
— Sì, per obbligo, — rispose Angiolina, — ma io preferirei una chiesetta qualunque, dove ci entrasse il sole. Papà è sempre reumatizzato, quando esce di là, e Maria tossisce.
— Tu non tossisci mai, nevvero. Angiola? — chiese Eva, levando il capo da certi asciugamani, a cui annodava la frangia.
— Io? no, mai. Sto benissimo, io, — e sorrise fievolmente, increspando una gonnelluccia.
— Ecco qui la fidanzata, ecco la sposetta, — strillò, entrando, Anna Doria, trascinando Olga Bariatine, la biondina grassottella, con la bocca simile alla rosa e i dolci occhi bigi. La sposina chinava il capo, arrossendo, tutta confusa, abbracciando le sue amiche che l’avevano circondata, avendo i lagrimoni negli occhi; specialmente Eva, la buona, che le teneva un braccio al collo e le veniva ripetendo, sottovoce, come se pregasse per lei:
— Iddio ti assista, Iddio ti assista, cara, cara, cara....
— Sapete perchè Olga si marita così presto e con tanto suo piacere, signorine? — strillò Anna Doria, mentre tutte riprendevano il loro posto e il loro lavoro.
— Probabilmente perchè se lo merita — suggerì Chiarina Althan.
— Ma che, ma che! — gridò Anna Doria, sempre ritta in mezzo alla sala.
— Perchè è tanto carina, tanto buonina — suggerì Eva Muscettola.
— Niente affatto, niente affatto, — tempestò Anna Doria, — Tutte più o meno ci meritiamo di maritarci, tutte più o meno siamo buonine, carine;... eppure, quante zitelle che si vanno maturando! Non parlo per me, che, ormai, sono andata in aceto, ammuffita. Sapete perchè? Olga si marita subito e come vuole, perchè non ha la mamma: a noi le nostre mamme impediscono il matrimonio.
— Oh! oh! oh! Anna, Anna! — dissero, quasi tutte, scandalizzate.
— Ti viene l’accesso, Anna? — domandò Chiarina Althan.
— Che succede! Buone, le mamme, affettuose, carezzevoli, sissignore, chi lo nega? Non sono una bestia, io, malgrado le mie pretese stravaganze. Ma le mamme nostre sono le nemiche naturali del nostro matrimonio. Troppo giovani? Hanno diritto di brillare, ci chiudono in casa, ci lasciano con gli abiti corti sino a sedici anni, noi facciamo loro la concorrenza! Troppo vecchie? Allora odiano la gente, non vogliono veder nessuno, la gioventù le secca, i ricordi sono loro fastidiosi, la felicità degli altri è loro indifferente, sono egoiste, sono vecchie! Troppo eleganti? I fidanzati diffidano delle suocere eleganti. Troppo severe? Fanno scappare a gambe levate, chi ha un po’ di vogla di prender la vita allegramente. Una, troppo pretenziosa per i titoli di nobiltà; l’altra, inesorabile sulla questione della pietà religiosa; la terza pretende che si viva insieme; la quarta esige che si vada in provincia; una ha un capriccio, un’altra ha una fissazione, a questa non piacciono gli uomini biondi, quella là detesta la persona magra: addio matrimonio! Ve lo assicuro, care amiche, quelle che hanno ancora la madre e arrivano a maritarsi, compiono un’opera meravigliosa. —
La brutta ragazza, già di trent’anni, magra, sgraziata, con le guancie scarne, malamente colorite con un rossetto che componeva ella stessa, — una delle sue stravaganze, — restò piantata in mezzo alla stanza con aria trionfale. Le amiche sue abbassavano il capo, senza risponderle, sorprese da un grande senso di pena, urtate nei loro buoni sentimenti, urtate nel rispetto della maternità che esse avevano. E pensavano alla tragicommedia quotidiana di casa Doria, una madre che aveva troppo amato il lusso e i piaceri e aveva confinato Anna sino ai vent’anni, in una specie di adolescenza oscura, una madre a un tratto datasi alla vita austera, con tutti i difetti dell’età matura, l’avarizia, la bigotterìa, la cocciutaggine, l’intolleranza: e di fronte, ogni giorno, la ribellione di Anna, Anna la pazza, che litigava con la madre, violentemente, per tutto, che si sentiva brutta e se ne vendicava, essendo sgraziata, che si sapeva antipatica, e se ne vendicava, facendo delle malignità a tutti, ma più di tutti a sua madre, alla vecchia bestia, come la figliuola la chiamava. Sì, tutte soffrivano per le brutali parole che Anna Doria aveva detto: ma le due Sannicandro che ogni sera baciavano la mano a papà, prima di andare a letto e si facevano benedire da mammà per dormire tranquillamente, si guardavano in faccia, tutte pallide, con le boccuccie rigonfie dei bambini che vogliono piangere. Nessuna parlava ed Eva, che aveva il carattere più aperto di tutte le altre, cercò di mettere una parola dolcificante:
— Ecco qui Anna che vuol farsi credere più cattiva di quello che è: hai la posa della cattiveria, cara, ma nessuno ci crede. Le mamme nostre ci amano, a loro modo: non sta in noi a giudicarle.
— E fai benissimo, tu, Eva, — rispose malignamente Anna Doria, scombussolando il suo cestino per trovare le forbici.
Eva impallidì, tacque, ferita. Un grande imbarazzo regnò fra le cucitrici, parea che nessuna osasse interrompere quel silenzio. Tecla aveva approntato coraggiosamente una seconda fodera da materasso; quando Giulia Capece domandò a Olga:
— Donde li fai venire, Olga, i vestiti? Non da Vienna, se non vuoi essere assassinata!
— Non farli venire da Vienna, Olga, — soggiunse subito Chiarina Althan, cogliendo la palla al balzo per cambiare la conversazione, — figurati che da Vienna hanno mandato a Giulia un cappellino con un gallinaccio impagliato sopra: questo per ispirarle delle idee di buona massaia.
— Oh un gallinaccio, poi, Chiarina!... — protestò Giulia, cordialmente afflitta sotto l’incubo di quel cappellino viennese.
Olga raccontava alle amiche che l’ascoltavano, che essa faceva venire tutto, tutto da Parigi, in un convento di monache si ricamava già il corredo, di biancheria dappertutto il suo motto for ever, insieme alla iniziale del suo nome: ai vestiti non aveva ancora pensato, ma per quelli da ballo non ci era che Worth, per i vestiti da sport non ci era che Lewis, per quelli da mattino Caroline: e le sue amiche avevano lasciato di lavorare, l’ascoltavano avidamente, avendo innanzi agli occhi tutta una visione di stoffe, di cappelli, di veli, di merletti.
— Hai pensato di farti fare delle camicie di seta? — domandò Elfrida Kapnist.
— No, — rispose Olga. — Non sapevo che usassero di nuovo.
— Usano moltissimo, di una seta floscia e leggerissima, azzurra, rosa, crema, con le trine di vera Valenciennes. Tutte le mondane.... e le altre, ne hanno. —
Olga non rispose: Maria Gullì-Pausania aggrottò le sopracciglia e scostò la sua sedia, per non toccare la sedia di Elfrida. Costei sapeva dunque, sempre, quello che i giovanotti dicevano alle loro cene e quello che le donnine troppo alla moda indossavano? Olga aveva ripreso a dire che Massimo avrebbe voluto farle dei regali, dei gioielli, senza dubbio, quelli famosi di casa Daun, ma che essa assolutamente non li voleva, faceva un matrimonio di amore, dei brillanti non gliene importava proprio nulla. Le ragazze che cucivano, approvavano, sorridendo, senza levare il capo, pensando ognuna in cuor suo quanto fosse ingenua e buona Olga Bariatine; i famosi brillanti di casa Daun, Massimo li aveva prima impegnati, poi venduti, egli era un pezzente indebitato, che non avrebbe potuto donare alla sua fidanzata, neppure un anellino di argento. Poi vi fu un quarto d’ora di silenzio, tutte lavoravano, riprese da un grande zelo, pensando agli ottanta bimbi abbandonati, maschietti e femminucce che aspettavano dalle loro mani di che vestirsi. Eva, la buona, la più vivamente affettuosa, aveva detto loro che la carità non si fa soltanto coi quattrini, ma che bisogna metterci il proprio tempo e il proprio lavoro: che, infine, le ore mattinali, due, tre, sino alla colazione, potevano essere sacrificate, lavorando per le povere creature senza pane, senza tetto, senza vestiti. E quell’attività quotidiana, quel doversi occupare continuamente di altri, quell’andare e venire, soddisfaceva il bisogno di movimento e il sentimento di altruismo, che era in Eva, riempiva le sue giornate un po’ vuote, un po’ solitarie, — la madre apparente e sparente fra un ballo e l’altro, che dormiva metà della giornata, spesso pranzava nei suoi appartamenti, troppo giovane per la figliuola già troppo grande, — il padre che adorava ogni esercizio di sport, sempre nelle scuderie, o a caccia, o al tiro del piccione o alle corse, — il fratello sempre in viaggio, o a Montecarlo o a Baden o a Parigi. Tutti questi l’amavano Eva, madre, padre, fratello, ma a loro modo, negli intervalli di libertà, che concedevano loro le passioni dominanti: e questo non bastava, non bastava al suo ardente bisogno di amore, alla sua vitalità esuberante. Così, per sfogarsi, ella aveva messo su, col suo fuoco, con la sua fiamma di affetto, questa carità delle ragazze per i bimbi abbandonati e si dava a quest’opera con la voluttà infinita delle anime buone che mai non sanno riposarsi dall’amare e dal beneficare. Ce n’era voluto per convincere le sue amiche, per poterle riunire, massime le incompatibili, quella Maria Gullì-Pausania che nessuno poteva soffrire per le sue arie, quella Elfrida Kapnist, dalle apparenze così strane e così equivoche! E quelle che entravano allora a braccetto, Giovannella Sersale e Felicetta Filomarino, non le poteva mai indurre a venir presto, capitavano all’ultima mezz’ora, distratte, discorrendo sempre a bassa voce fra loro: e il segreto di Giovannella Sersale tutte lo conoscevano, aveva dovuto sposare Francesco Montemiletto, ma costui dopo averla corteggiata per due anni, aveva finito per sposare la sorella maggiore. Candida: e Giovannella non si era mai data pace di questo tradimento, ella portava fieramente questo lutto, non aveva mai voluto sentir parlare di altri fidanzati, non si sarebbe mai maritata. A un tratto, non si sa come, era nata una grande amicizia fra lei e Felicetta Filomarino, stavano sempre insieme, spesso avevano gli occhi rossi, una medesima malinconia le rodeva. Qual era dunque il segreto di Felicetta? Più taciturna, più riservata, ella non lo confidava, se non a Giovannella; e certo nei loro colloqui solitari, esse piangevano insieme la loro gioventù sfiorita. La loro presenza diede un’intonazione anche più seria a quella riunione di fanciulle: ognuna di esse, piegando il capo sul cucito, pensava ai suoi crucci, Tecla Brancaccio alla sua lotta così disuguale contro una rivale preferita costantemente, Giulia Capece alla sua bellezza che trovava tanti ammiratori, ma non un marito con duecento mila lire di rendita, Chiarina Althan all’ambiente frivolo e sciocco dove si consumava la sua intelligenza, Elfrida Kapnist alla sua miseria, che ogni tanto le faceva subire delle umiliazioni atroci, Angiolina Cantelmo alla fatalità che dominava nella sua casa, Anna Dona alla sua esistenza atroce, senza conforti, Eva Muscettola al suo desiderio insoddisfatto di esser molto amata, di poter molto amare: solo le due Sannicandro si consolavano, erano tutte felici, poichè in quel giorno sarebbero andate alla passeggiata della Riviera, con papà e mammà; e Olga Bariatine era intimamente felice, ella che aveva amato con tanto fervore Massimo Daun e ora raccoglieva il premio del suo amore; e Maria Gullì-Pausania si sentiva molto felice, perchè non può essere altrimenti d’una discendente dei re siciliani.
— Misericordia, misericordia! — gridò Eugenia d’Aragona, entrando e buttando all’aria il cappellino, — ma che state contemplando i Quattro Novissimi? Fate la penitenza dei peccati, ragazze? Volete che piangiamo tutte insieme? O Eva, Eva, che hai fatto?
— Ma niente, cara, niente: lavoriamo.
— Ma voi morirete, a furia di lavorare. Ma volete rovinarvi il petto, gli occhi, le dita! Ma vi farete venire la nostalgia, lo spleen, con tutto questo cucito! I bimbi saranno vestiti, ma qualcuna di voi si ammazzerà, ne son certa.
Ella si gettò sopra una sedia, accavalcò una gamba sull’altra e strappò il cucito dalle mani di Angiolina Cantelmo.
— Anche tu, monachella? Ma perchè non mandate loro dei quattrini, molti quattrini a questi bimbi, invece di mortificarvi a cucire? Ti faccio dare mille lire, pei tuoi bimbi, Eva mia, se smetti di cucire quel tuo grosso pezzo di tela: oggi lo dico a papà, che ti mandi queste mille lire. Smetti, Evuccia, smetti. Forse che le ragazze nobili cuciono? Io non so cucire.
— Mi pare strano, — osservò Anna Doria, malignamente.
Infatti Eugenia d’Aragona, che portava con sè sessanta milioni di dote, che riuniva in sè la nobiltà di tre famiglie, Aragona, Ognatte, Mexico, che aveva terre in Europa, e in America, che possedeva dodici diversi feudi, ed era imparentata coi Borboni di Spagna, con gli Orléans di Francia, era una figliuoletta che il duca d’Aragona aveva avuto da una sarta. La bella e buona duchessa d’Aragona, colpita da sterilità; adorando suo marito, vedendo che la immensa fortuna andava a perdersi nelle mani di nipoti indegni, aveva voluto che il marito legittimasse e adottasse la povera figliuoletta della sarta: e questa creatura, dalla strada, era salita quasi sopra un trono, adorata dal padre, adorata stranamente dalla madre adottiva. Ella aveva conservata una semplicità un po’ rude, che nessuna istitutrice inglese aveva potuto modificare, una bontà chiassona, aveva acquistato la prodigalità noncurante di chi non deve contare; e della sua origine non si vergognava: la malignità di Anna Doria la fece ridere.
— Ragazze, se andassimo tutte a casa, a colazione? Finitela con questi bimbi senza camicie, venite via, diremo a mammà che vi mandi cento camicie, per queste creature. Venite, ci sono a casa dei vestiti che debbo mostrarvi e una scimmietta che ho comprato; andiamo su, Eva, diglielo tu a queste imbambolate: ho una carrozza fuori, ci stiamo in cinque, benissimo, e la tua, Eva, altre cinque; Maria, ci sarà anche la tua, tu non vai mai senza carrozza, sei grande di Spagna di prima classe. Ci accomoderemo, tutte; sembreremo una scuola. —
E per vincerle, tutte, si buttò al collo di Chiarina Althan, fece un giro di waltzer con Eva, diede quattro baci a Olga Bariatine, scompigliò tutti i cestini; ed era così comunicativa la sua vivacità popolana, così fresca e giovanile la sua allegrìa, che un raggio di sole attraversò tutti quei cuori, e di nuovo brillarono, luminosi, i sorrisi.
II.
Un razzo d’oro partì dalle ombre del porto, descrisse una parabola fulgida nel cielo stellato di primavera e ricadde nel mare, spegnendosi: subito dopo il razzo-segnale, una fila di fuochi di bengala si accese lungo il bordo della corazzata ammiraglia Roma: altri bengala furono accesi sulla Castelfidardo, sul regio avviso Cariddi, sulla nave-trasporto Vedetta, sulla corazzata russa Swetlana: tutte le navi mercantili, i brigantini, le barcacce, le paranze, tutte le Madonne Immacolate, le Divine Provvidenze, le Annamaria Cacace, di cui è pieno il porto di Castellamare, s’illuminarono
di lampioncini colorati: tanto che tutto il mare ne rimase fantasticamente rischiarato e il mastodonte di legno e di ferro, dipinto in rosso, senz’alberatura, tozzo e pesante, l’Italia, varata la mattina, ebbe l’aria di un grosso e grasso idolo marittimo, silenzioso, tronfio, immobile, a cui tutti bruciassero ceri e incensi.
Sulla corazzata ammiraglia, cessato il breve fuoco di artificio, si ballava dappertutto. L’ammiraglio Gaston, grande, rosso, quasi colossale, con un torace spazioso e solido, come la poppa di una corazzata, la sua piccola e simpatica signora, le due figliuole più grandi, quindicenni, vestite di tela azzurra, coi larghi colletti alla marinara che lasciavano vedere la bianchezza delicata dei colli, con certi cappelloni di paglia buttati indietro sui capelli biondi, vere marinare gentili e allegre, avevano invitata tutta l’aristocrazia di Napoli, di Castellamare, tutta la ufficialità di marina, tutti i forestieri che già villeggiavano a Sorrento, in quella fine di maggio. A piedi delle sue scalette di legno, a destra e a sinistra, era un continuo arrivare di barchette che portavano fuochi di bengala a prua e a poppa, era un ascendere timido ma continuo di signore e fanciulle, con una certa paura, non priva di piacere, senza guardare, sotto, la voragine nera del mare: esse sospiravano di soddisfazione appena arrivate sul ponte. Lassù la novità, la bizzarrìa dello spettacolo, la sua rarità se le prendeva, una grande curiosità le afferrava, si udivano di qua e di là dei piccoli gridi di sorpresa, di piacere. Una fanfara era piazzata nel centro della nave, attorno all’albero di maestro e attaccava i ballabili con una certa foga militare, con una furia di soldati che vanno all’assalto o di pirati all’arrembaggio. Qui, giù, da una parte e dall’altra dell’albero di maestro vi era qualche sedia, ma nessuno voleva sedervisi, le ragazze e le maritate ballavano come diavoli, e negli intervalli visitavano la nave; le straniere, provvide, avevano seco delle sedie portabili, dei pliants; in quanto ai giovanotti, essi preferivano fare del colore locale, accovacciarsi in tre, in quattro, sovra un mucchio di cordami, mettersi a cavalcioni sopra un piccolo cannone: e le donne, per darsi un’aria interessante, fingevano tutte di avere il passo incerto, il passo del marinaio, e domandavano ogni tanto a qualche ufficiale di marina, in grandi faccende pel ballo:
— Si dovesse muovere l’àncora?
— È forte, è forte, — rispondeva quello ridendo.
Sul ponte di poppa, vasto, tutto infiorato e imbandierato, si ballava disperatamente, come se quello fosse l’ultimo giorno di ballo per tutte quelle donne e per tutti quei giovanotti. Eugenia d’Aragona, semplicemente vestita di lana bianca, con un cappello tutto piumato di bianco, con un paio d’orecchini di brillanti grossi come noccioli, lusso permesso solo ad una fanciulla viziata, ballava sempre, sempre, sempre, non fermandosi mai, girando come un arcolaio, passando da un cavaliere all’altro, senza respirare un momento, con gli occhi lucidi, le guance accese, divertendosi come una bimba: invano il suo fidanzato, Giulio Vargas, ricco quasi quanto lei, innamoratissimo, la pregava ogni tanto di riposarsi: ella faceva una smorfia deliziosa, poi gli diceva, con un tono carezzevole:
— O Giulio, o Giulio, ti voglio bene assai, se mi lasci ballare. —
Questo, detto con quel grande languore sentimentale che hanno la voce e gli occhi napoletani quando amano, languore a cui niuno resiste: e se Giulio titubava, essa gli s’infilava sotto braccio, lo portava via, alla prima misura erano in giro anche loro. Giulio subiva il fàscino di quella giovinezza rumorosa. Ogni volta che Eugenia passava accanto a Eva Muscettola, le diceva gridando un poco:
— Ma balla dunque Evuzza, balla, non vedi me! —
Eva, al braccio del suo cavaliere, Innico Althan, un tenente di vascello, fratello della sua amica Chiarina, ballava abbastanza, ma più le piaceva di chiacchierare e di ridere con Innico, un giovanotto alto, magro e bruno, che portava l’uniforme con una grande eleganza e che mescolava alla gaiezza naturale meridionale una punta di malinconìa, di coloro che hanno fatto dei lunghi viaggi e che sono destinati a ripartire. Così, da due mesi, lentamente, una dolcissima simpatia si era stabilita fra i due giovani, fatta più di intenzioni che di parole, consistente più in certi minuti particolari sentimentali, che dei grandi fatti del cuore. Egli certo sentiva la saldezza affettuosa dell’anima di Eva, malgrado il disordine e l’abbandono di una casa dove mancava il focolare domestico, sentiva quel fluire di tenerezza che dal cuore della fanciulla se ne andava alle amiche, ai bimbi, ai poveri — e lei, in cuor suo, ammirava quel giovanotto che si era voluto togliere dall’ambiente di vizio e di frivolezza dei suoi compagni e amici, sottostando a una lunga e dura carriera, spesso lontano dai suoi cari.
— Come sono belle, come sono belle queste vostre corazzate, — diceva ella a Innico, guardandolo con gli occhi emananti soavità.
— Ma non sempre sono infiorale e imbandierate, non ci si balla la polka sopra, come questa sera.
— Che importa! Mi piacciono tanto, — mormorava ella, piegando il capo sotto il suo cappellino azzurro, un soffio di aria, fermato da margherite.
— Dovreste vederla nella tempesta, la buona nave! Come è salda, come resiste, come non si piega!
— Non mi parlate della tempesta, Innico, — diss’ella turbata.
— E perchè?
— Non posso pensarci.... non potrei pensarci, quando facesse cattivo tempo, non dormirei mai....
— Allora bisognerebbe imbarcarsi con chi si vuol bene....
— Perchè no?...
— La legge non vuole.
— La legge?
— Balla dunque, Eva, balla, ora che Innico sta qua, — gridò ridendo Eugenia scuotendo i grossi orecchini di brillanti.
Era un waltzer, molte signore si erano sedute, stanche, sui divani di velluto azzurro, ma le ragazze, indomite, non si fermavano. Elfrida Kapnist, audacemente vestita di broccato rosso, con le scarpette di raso scintillanti di perline d’acciaio, con un cappellino rosso, piccolissimo, tutto lucido di perline, con questo vestito di un carattere così sfacciato, di cui molte erano scandalizzate, con quell’aria di zingarella sempre arruffata, con quegli occhioni selvaggi e dolci, nello stesso tempo, si teneva attaccata al braccio di Willy Galeota, il giovanotto più alla moda della società napoletana. Willy Galeota le faceva la corte da un mese, strettissimamente, come si può fare a una donna maritata, seguendola dovunque, ballando tutta la sera con lei, parlandole sottovoce, non lasciando che nessuno si accostasse a lei: ed ella accettava questa corte tranquillamente, come se nulla fosse, con la serenità delle ragazze straniere senza pregiudizi. E come sempre, si dicevano di lei le più orrende e le più belle cose — Willy era il suo amante — Willy non poteva ottenere da lei una sola parola d’amore — Willy e lei erano stati incontrati in carrozza chiusa, di notte, a Posillipo — Willy non aveva ottenuto di poterle fare una visita nelle due stanzette, poveramente mobiliate che ella abitava — Willy la trattava come una ballerina — Willy l’avrebbe sposata. Ella mostrava di non sapere, di non udire tutto questo fremito di attacchi e di difese, egualmente esagerati: e ballava il waltzer, mollemente, guardando negli occhi il suo cavaliere, con una seduzione muta e sicura. Per un momento Giulia Capece si era indispettita contro Elfrida, Willy Galeota era il primo fra gli sposabili sulla lista di Giulia: ma quando Giulia vide intorno a sè il principe di Sirmio, il ricchissimo patrizio romano, magnate di Ungheria, Giorgio de’ Neri, il fiorentino ricchissimo, il conte di Detmold, primo segretario dell’Ambasciata germanica e altri minori, si consolò; la sua corte era al completo, tutte gliela invidiavano; ella ballava, chiacchierava, rideva, prendeva delle granite, bellissima nel suo vestito di Worth, portando sette fili di perle al collo, mentre sua madre la guardava da lontano, sorridendole, con gli occhi umidi di gioia, vedendola così bella e così circondata. Maria Gullì-Pausania, la bellezza classica, dal puro profilo siracusano, sapendo bene che il ballo conviene più alle bellezze irregolari, non ballava, passeggiava fra le coppie, facendo ondeggiare armoniosamente il suo vestito di seta nera, semplice semplice, somigliando un poco a Minerva, sotto il cappellino di paglia nera, su cui aveva messo delle rose di maggio, fresche: Peppino Sannicandro le dava braccio, unendo alla sua fisonomia d’imbecille una espressione di beatitudine, lo sciocco soddisfatto che non lasciava la sua mazzettina di balena: era in carattere la mazzettina di balena, per un ballo a bordo — egli aveva trovato questa insulsaggine, piena di spirito, e la ripeteva a tutti, contentone, raccogliendo i sorrisi di approvazione di Maria. Più tardi aveva inventato di domandare ai suoi amici che si preparavano per le corse, questa scioccherìa:
— Con quante bestie vai alle corse, tu? —
Maria rideva quietamente, lusingando la vanità di quel cretinello: e parlavano poco fra loro; egli non le diceva quasi nulla, nella dolcezza del suo ebetismo, ma era tutto felice di portare in giro una delle più belle ragazze di Napoli: ella non parlava, col suo contegno di dea riflessiva e sagace. A un tratto la musica tacque, le coppie si misero in giro pel passeggio; dei vassoi di gelati furono presentati attorno, un chiacchiericcio femminile salì dal ponte di prora sino al cielo.
Giù, nell’appartamento dell’ammiraglio, intorno alle tavole del buffet era un gran viavai di signore e di ufficiali, un tinnire di bicchieri, un crocchiare di dentini, un urtarsi di coppie. Le due ragazze Gaston, coi cappelloni alla marinala buttati indietro sulle treccione bionde, tutte rosee, tutte ridenti, portavano le loro amiche al buffet: poi avevano finito per istallarvisi, con le due Sannicandro, vestite ambedue di rosa, che mangiavano con la golosità delle adolescenti, prima del salmone alla maionese, poi un gelato di crema, poi una fetta di pasticcio di caccia, poi della gelatina dolce; insieme con loro Anna Doria si sfogava a mangiare, non trovando nessuno che la invitasse a ballare, dotata di quell’enorme appetito delle zitelle nervose; e ci si era venuta ad aggiungere Eugenia d’Aragona, che moriva di fame, diceva lei, e avrebbe volentieri mangiato un piatto di pomodoro. E tutte le donne, maritate e fanciulle, capitando in quei saloni di legno lucidissimo, dai divani di juta, molli, larghi e profondi, dalle maniglie di ottone che sembravano d’oro, provavano un grande senso di benessere e sospiravano quasi, invidiando gli ufficiali che davano loro il braccio, pei bei viaggi che facevano, prese dall’amore dei paesi lontani, mentre gli ufficiali, ridendo, sorridendo, bruni, simpatici, si prestavano a queste visioni marine e sentimentali delle signore, nascondendo loro i fastidi, le volgarità, le lunghe noie della vita marinala. Chiarina Althan, a cui poco piaceva il ballo, osservatrice arguta, si era seduta sopra un divano nel buffet, e guardava quelli che mangiavano, interessata, ammirando l’inesauribile appetito delle due sorelline Sannicandro che mangiavano delle castagne giulebbate e bevevano del consommé, tutte colorite e felici; l’appetito rabbioso di Anna Doria, a cui sua madre faceva far di magro tre volte per settimana, e la grossa fame popolana di Eugenia, a cui Giulio Vargas porgeva da mangiare, come a una bimba, ridendo e scherzando. Poi quando vide entrare nel buffet Tecla Brancaccio, sola sola, vestita di drappo azzurro, con le maniche e il goletto ricamato d’oro, con i capelli arricciati e la divisa sulla tempia come un giovane ufficiale, le disse:
— Prendiamo un gelato insieme, Tecla? Vieni a vedere come mangiano queste amiche nostre.
— Cerco Carlo, — disse quella, aguzzando i freddi occhi di metallo.
— Non vi è qui, — le rispose Chiarina.
— Allora, vado altrove.
— No, no, cara, non cercarlo, — disse l’altra, trattenendola.
— È con lei, nevvero? Dove? Ci vado subito.
— O Tecla, lascia stare. Perchè correr dietro a uno che non può sposarti?
— Così, — disse quella, levando le spalle. — Me ne vado, Chiarina, li cerco.
— Allora vengo teco, — e si alzò, vedendo che non vi era mezzo di dissuaderla.
Tenendosi a braccetto, mentre Chiarina cercava di farle una predica, traversarono tutta la lunghezza della corazzata, dal ponte di prora al ponte di poppa, ma si tenevano lungo il bordo, perchè si ballavano due quadriglie, fra l’albero di maestro e il ponticello del comando. Qualche coppia amorosa, appoggiata al bordo, guardava il mare e le stelle discorrendo pianamente: qualche essere solitario vi si appoggiava, guardando lontano. Giusto, cercando Carlo Mottola e donna Maria di Miradois, le due ragazze non videro Olga Bariatine che si affacciava al bordo, guardando verso Castellamare. La biondina russa, aspettava da due ore Massimo Daun, il suo fidanzato, che le aveva promesso di venir presto, per ballare con lei: e con la sua aria di uomo strano se n’era andato via dalla spiaggia, con Luigi Muscettola, il fratello di Eva, con Lodovico Torremuzza, il siciliano schermitore, e due o tre altri. E non era più venuto; ella non aveva voglia nè di ridere, nè di ballare, era inquieta e nervosa, non si sapeva togliere dalla ringhiera, guardando sempre verso Castellamare, scrutando tutte le barchette che si appressavano alla Roma, agitata da un sospetto solo, l’infedeltà, non immaginando mai che cosa facessero, da due ore, quei giovanotti, in una stanza di albergo, intorno a un tavolino, giuocando, smorti e ardenti nella loro passione.
Tecla e Chiarina non trovavano in nessun posto Carlo Mottola e donna Maria di Miradois; salirono sul ponte di prora. Ivi non si ballava, la luce era più mite, le tende che lo coprivano, si muovevano a un principio di brezza notturna. Appoggiata alla ringhiera, come a un balcone, voltando le spalle alla gente, Felicetta Filomarino e Giovannella Sersale, piegavano la testa nell’ombra, guardando la fosforescenza del mare. E dal piccolo movimento nervoso delle spalle di Giovannella, da certi sussulti, dalla curva del collo s’intendeva che ella singhiozzava, mentre Felicetta Filomarino accanto a lei, stava immobile, non osando confidare il suo segreto, neppure alle stelle del cielo o alle onde del mare. Tecla e Chiarina si fermarono presso Angiolina Cantelmo; ella stava ritta presso l’albero inchinato di prora a cui si attacca la bandiera, tutta avvolta nelle pieghe bianche di uno sciallo di crespo e appoggiata la mano all’albero, ficcava gli occhioni azzurri per l’oscurità, come se volesse viaggiare, con la corazzata, per mari orientali, ricercando il piccolo yacht, dove egli fuggiva. E malgrado il vestito bianco, sembrava più magra, più alta, più trasparente che mai, come se una fiaccola fosse stata accesa, in un vaso di porcellana.
— Non balli, Angiola? — le domandò Chiarina.
— No, balla Maria, lassù a poppa, — disse lei tendendo la mano sottile e lunga.
— Hai visto Carlo Mottola e donna Maria di Miradois? — domandò Tecla, che andava sempre diritto al suo scopo, senza esitare e senza vergognarsi.
— Erano qui, poc’anzi: sono andati via.
— Buona sera, Angiola.
— Buona sera, Tecla. —
E la snella creatura si voltò di nuovo a guardare il mare, sognando, chiedendosi forse quale seduzione d’isola orientale trattenesse il suo fuggitivo. Chiarina e Tecla ridiscesero la scaletta, un gran movimento era a bordo, l’ammiraglio aveva permesso che si visitassero la stanza da pranzo e le camerette degli ufficiali, la stiva e il camerotto della macchina per chi sapeva resistere a quella temperatura calda, sotto quelle vòlte basse: talchè era un accalcarsi alle scalette, uno sparire consecutivo di uomini e di donne, come inghiottite dalla stiva, un comparire di teste dall’altra parte, un grido di meraviglia, una strillìo femminile di timore, mezzo vero, mezzo simulato. Eva Muscettcla era ricomparsa al braccio di Innico Althan, il quale le aveva mostrato la sua cameretta, con la finestrella dove una rosa fioriva: e la rosa era sul petto di Eva, che pensava; Eugenia d’Aragona, presa da un furioso capriccio, supplicava Giulio Vargas che le regalasse una corazzata, la voleva per forza, se ne voleva andare per mare, non voleva più stare nelle case di pietra: lui, gliela prometteva, una nave, per quando si sarebbero sposati. E finalmente Tecla Brancaccio e Chiarina Althan trovarono Carlo Mottola e donna Maria Miradois, nella cameretta del cannone di prora: ivi l’ammiraglio, con la sua larga faccia, rasa sulla bocca e sul mento, con le fedine brizzolate, appoggiando una mano sulla enorme culatta nera, spiegava il meccanismo del colpo a quattro o cinque signore, che ascoltavano profondamente sorprese. I due amanti; donna Maria di Miradois, una spagnuola bionda, ardente, languida e passionata, vestita di seta bianca, tutta coperta di gioie, dal cappellino alle scarpette e Carlo Mottola, un giovanotto snello e bruno, dalla pura bellezza italica, mescolata a una intonazione di colore e di linee orientali, si tenevano per mano, sentendo la spiegazione del cannone. E senza turbarsi, Tecla Brancaccio si appressò a loro, sorrise a donna Maria, diede la mano a Carlo Mottola, dicendogli:
— Oh Carlo, vi cercavo. Non dovevamo ballare insieme il waltzer!
— Naturalmente: possiamo ballare insieme una quadriglia.
— Finiamo di sentire questa spiegazione, volete? —
E tutti e quattro. Carlo, Maria, Chiarina, Tecla, rimasero in gruppo, ascoltando, per nulla imbarazzati, abituati dalla loro posizione a sorridere, in mezzo al dramma; l’ammiraglio aveva preso un obice e lo sollevava, lo mostrava alle signore, dicendo loro di provarne il peso. Esse provavano ridendo, non riuscendovi: donna Maria di Miradois vi rinunziò con un attuccio adorabile: ma Tecla, tendendo un po’ le braccia, stringendo le labbra, con una ruga che le tagliava la fronte, come una cicatrice, sollevò l’obice.
— Siete molto forte, Tecla, — mormorò donna Maria.
— Molto forte, — rispose costei, quietamente, raggiustandosi i polsini.
E fu tutto il segno della grande lotta appassionata che ferveva in fondo a quelle tre anime.
Ma uscendo dalla cameretta del cannone, una viva luce ferì il gruppo. Dalla riva di Castellamare, dal terrazzo dello Stabia’s hall una lampada elettrica dirigeva il suo grande raggio bianco sulla corazzata Roma: e coglieva la grossa nave di fianco, illuminandone fantasticamente ora un lato, ora un altro, secondo il capriccio saltellante di colui che dirigeva la lampada. Dapprima la candida luce si era posata sul castello di prora, dove l’alta, snella, quasi fantomatica figura di Angiolina Cantelmo era apparsa idealmente trasfigurata in quella chiarità: poi era saltata sul ponte, dove si ballava una gran quadriglia e nel suo raggio, nel circolo processionale del moulinet femminile comparivano, leggiadrissime, le due sorelline Sannicandro, dagli occhioni imbambolati nella luce, le due sorelle Gaston, i cui capelli biondi parevano un ruscello d’oro. Maria Gullì-Pausania dal profilo saggio e puro di Minerva, dall’incesso regale, Giulia Capece che la bianchissima luce circondava di una aureola nivale, e dietro, sempre in tondo, la fila dei bei volti muliebri, sorpresi, lusingati da quella luce. Da capo il raggio scialbo e chiarissimo erasi posato sul castello di prora inondando di luce le due testine curve di Giovannella Sersale e di Felicetta Filomarino; e Giovannella, nel pallore del suo volto emaciato, pareva quasi spettrale, Felicetta pareva quasi abbarbagliata, circonfusa di candore, entrambe corrose dallo stesso male. Come la luce si muoveva, era un gridìo confuso e allegro di sorpresa, un rifugiarsi di persone timide negli angoli oscuri, un aggrupparsi di ragazze e di giovanotti, come per la posa di una fotografia; dal castello di prua la luce era giunta ai piedi del castello di poppa: — sulla porta del buffet Elfrida Kapnist, ritta, insolente, tendeva un alto bicchiere di cristallo a Willy Galeota che vi versava contemporaneamente, da due bottiglie, del bordeaux e dello champagne, ed ella rideva, rideva, senza scomporsi, coi ricci nerissimi che le coprivano la fronte e il pallido-bruno viso di zingarella provocatrice; appoggiata al parapetto, sempre immobile, sempre sola, guardando la riva di Castellamare. Olga Bariatine aspettava Massimo Daun, ma non aveva più impresse sulla fisonomia l’ansietà, l’agitazione di chi aspetta, sperando e temendo: invece vi si leggeva una stanchezza rassegnata, una pazienza dolorosa e muta, un rilassamento di tutte le linee, l’accasciamento di chi aspetta, senza sperare e senza temere; e la rossa figura passionata e voluttuosa di Elfrida Kapnist, nello splendore un po’ livido della luce elettrica, acquistava una seduzione quasi diabolica, mentre la dolcissima faccia della fanciulla slava, si illuminava morbidamente, in un chiarore di malinconìa, dove i biondi capelli e i fiori azzurri che vi erano sparsi e i grandi occhi aspettanti mestamente, la facevano rassomigliare a una smorta Ophelia, guardante il Baltico gelato, sotto la luna, sospirante un pazzo principe Amleto. Di nuovo la luce fu proiettata su coloro che ballavano: Tecla Brancaccio aveva trascinato Carlo Mottola nella quadriglia; essi ballavano senza parlarsi, ma stretti l’uno all’altro, la ragazza dominante quasi il giovanotto, mentre donna Maria di Miradois, paziente, calma, come colei che attende il suo momento, non ballava, li guardava, con uno strano sorriso sulle labbra. Anche Tecla sorrideva: alla luce si vedevano i dentini minuti e bianchissimi scintillare, come quelli di una gattina feroce: mentre la bellissima bocca di donna Maria sorrideva profondamente, intimamente, come colei che sa e che può, solamente amando. Infine la luce elettrica si posò, per un pezzo, sul castello di poppa: ivi Eugenia d’Aragona, trascinandosi dietro due o tre suonatori, aveva formata una orchestrina e andava in giro, per combinare una tarantella, la vera tarantella napoletana, e la sua febbre si era comunicata a quattro o cinque coppie; il ballo popolare, ora molle e amoroso, ora frettoloso e passionato, era cominciato, fra gli applausi, fra l’entusiasmo del pubblico. Eugenia d’Aragona si dava a questa pazza gioia, roteando come trottola, ballando alla perfezione con Giulio Vargas: ricordo di casa, diceva Anna Doria, la maligna vecchia zitella. E con una certa morbidezza tutta gaia e semplice, Eva Muscettola ondeggiava nel chiaro lume della luce elettrica, ballando con Mario Capece: ma i suoi occhi e il suo spirito erano altrove, là, dirimpetto, dove Innico Althan, che non sapeva ballare la tarantella, tutto serio, parlava con donna Natalia Muscettola, la madre giovane di Eva. E in quel biancore di luce, in quella dolcezza di notte, su quel mare profumato, nel cuore di Eva era nata, fluiva una novella, infinita, irrimediabile tenerezza.
III.
Nel volgare salone di prima classe, stuccato di bianco, mobiliato dagli incomodi e brutti divani di velluto rosso, illuminato dalle fiammelle a gas che il vento serotino autunnale, ingolfandosi pel corridoio dove vi è il caffè e si vendono i giornali, faceva vacillare; in questo grande, stupido e triste salone di aspetto, le prime ad arrivare erano state Eva Muscettola e Chiarina Althan: le accompagnava miss Anderly, la istitutrice di Eva. Le due ragazze non si
accompagnavano più, da quando il matrimonio d’Innico Althan con Eva era stato stabilito: lo spirito fine, acuto di Chiarina, sì trovava bene con l’anima sensibile e simpatica di Eva. Esse si misero a passeggiare su e giù, chiuse nei loro paltoncini oscuri, con la veletta abbassata sugli occhi, come due viaggiatrici pazienti.
— Che sciocchezza, il viaggio di nozze! — diceva Chiarina, guardando qualche viaggiatore che posava il suo bagaglio sul grande tavolone oscuro e usciva di nuovo, ubbidendo alla nervosità di coloro che partono, che nulla vale a calmare.
— Ma no, cara Chiarella, è tutta una poesia....
— Bah! Troppi alberghi, troppi camerieri indiscreti, troppe faccie estranee, un vagabondaggio inutile e noioso.
— Tu non lo faresti, il viaggio di nozze?
— No: già, io non ci entro.
— Ah! mi dimenticavo che non vuoi maritarti, o cognatella monaca. Perchè non vuoi maritarti, di’?
— Così.
— Ti farò maritare io. Chiarella, vedrai, vedrai.
— Tu ami il tuo prossimo come te stessa?
— Oh! — disse l’altra, arrossendo.
E andarono incontro ad Anna Doria che entrava, tutta sola, con le guancie cariche del rossetto che ella stessa componeva, con una veletta bianca, che cercava attenuare quel cremisino: quella sera aveva pensato d’ingrandirsi gli occhi, passandovi sotto un sughero bruciato: e pareva così bizzarra, così brutta, che la stessa buona Eva non potè trattenere un sorriso.
— Mamma aveva a pranzo un monsignore e due abati, — spiegò lei; — li ho lasciati a metà. Mamma era furiosa; al solito, l’ho lasciata verde. Eccomi qua, per l’accompagnamento funebre.
— Sei più graziosa dell’usato; — mormorò Chiarina, ridendo.
— Sfido io! Non era meglio che morisse, Olga, anzichè prendere questo mascalzone di Massimo?
— Le ragazze preferiscono sempre il maritarsi al morire; anche tu, Anna.
— Anche io, naturalmente: ma, non mi sono ancora innamorata di un istrione. —
Chiarina continuò a sorridere, malgrado la malignità di Anna: ma non disse nulla.
— Perchè ti è tanto antipatico Massimo? — chiese Eva ad Anna.
— Non me ne parlare: è un vizioso freddo e ostinato. Figurati che ha passato tutta questa notte in una bisca, a giuocare, e stamane era in ritardo di un’ora pel matrimonio religioso: Olga ha pianto durante tutta la messa.
— Chissà se è vero, della bisca; — disse Eva.
— Caspita! Vi era anche tuo fratello!
— Non credo.... — disse Eva, impallidendo.
— Come, non credi? Ha anche perduto sette od ottomila lire.
— Aveva promesso di non giuocare più; — mormorò Eva.
— Domandalo dunque a Tecla, con cui sono venuta e che si è fermata fuori a comprale un libro. —
Tecla era venuta anche lei con una giacchetta di lana nera foderata di astrakan, tutta alamari e cordoni, con un berretto di astrakan; aveva comperato un romanzo di Balzac, l’Albert Savarus.
— Sì, sì, hanno giuocato tutta la notte, Carlo ha perduto ventimila lire; — disse, sorridendo.
— E questo ti fa piacere? — domandò Chiarina, mentre Eva chinava la fronte, preoccupata.
— Immensamente.
— E perchè?
— Quando Carlo sarà pieno di debiti, converrà bene che mi sposi, per rimedio: donna Maria non gli può dare quattrini; io, sì.
— E ti contenti di essere sposata per rimedio?
— Mi amerà dopo, deve finire per amarmi, — soggiunse Tecla, con la ostinazione profonda di chi vuole una sola cosa.
La sala si andava popolando dei viaggiatori più frettolosi che arrivano un’ora prima della partenza; il gruppo delle ragazze si fece da parte: le due Sannicandro insieme col papà e con Maria Gullì-Pausania, la futura cognata, entravano, tenendosi a braccetto, misurando il passo, tanto carine sotto certi scuffiotti alsaziani di raso rosso.
— Abbiamo portato ad Olga delle rose, — disse la prima.
— Delle rose bianche, perchè essa le ama, — soggiunse la seconda.
E si guardarono, tutte lusingate di aver tanto spirito; poi, la prima ricominciò:
— Abbiamo incontrato pochi momenti fa la tua mamma in carrozza, Eva.
— Era con tuo fratello Innico, Chiarina, — riprese la seconda.
Un sorriso dubbio si delineò sulle labbra di Anna Doria: Chiarina e Tecla si guardarono per un minuto secondo, come interrogandosi, — ma Eva sorrideva, tutta felice, tenendo d’occhio la porta, per vedere se comparissero sua madre e il suo fidanzato. Maria Gullì-Pausania chiacchierava sottovoce col principe di Sannicandro, un vecchio robusto, rosso nel volto, coi mustacchi bianchi, un suocero che già si lasciava prendere dalle grandi arie classiche della sua futura nuora, udendo con quanta reverenza ella parlava del blasone dei Sannicandro e degli antenati dei Sannicandro, che avevano combattuto sotto Ruggero Normanno. Giulia Capece ed Eugenia d’Aragona erano entrate, anche loro: Giulia scortata sempre dal suo sciame di giovanotti, di diplomatici, di baroni russi, continuando la sua faticosa professione di zitella nobile, bellissima e povera che cerca un marito ricco: Eugenia d’Aragona con sua madre putativa, la bella principessa, bionda, fresca e sterile, e con Giulio Vargas; si dovevano sposare fra un anno. Ora all’ardente popolana diventata principessa era sorto nel cuore un amore fervido, la passione, per Giulio Vargas; i due fidanzati portavano dappertutto il loro amore, tenendosi a braccetto o per mano, guardandosi negli occhi, lungamente, parlandosi sottovoce, sorridendo con intenzione. Giulio portando la cravatta colore del vestito di Eugenia, Eugenia portando uno spillo da uomo al goletto.
— Adesso vedrete che specie di moccolo ci toccherà di reggere, — disse Anna Doria.
Difatti dopo aver abbracciato e baciato tutte le sue amiche, una dopo l’altra, con quella effusione chiassosa che le persone corrette le rimproveravano, tenendosi stretto al seno un grosso fascio di giacinti, bianchi, rosei, violetti, una rarità in autunno che ella aveva portato per Olga, Eugenia andò a sedere in un cantuccio, con Giulio, tutta beata, scambiando con lui, ogni tanto una parola, crollando il capo con dolcezza, mentre Maria Gullì-Pausania la trovava più sartina che mai; era uno scandalo amarsi così pubblicamente. Ora le ragazze, le signore, i giovanotti che venivano a salutare Olga Bariatine che partiva pel suo viaggio di nozze, erano divisi in due o tre gruppi, chiacchierando, ridendo, bisbigliando, indifferenti all’agitarsi dei viaggiatori che affluivano: sottovoce, per non far sentire a Giulia Capece, Anna Doria narrava che mademoiselle Charlotte, la sarta del passage Verdeau a Parigi, poverina, era fallita, per colpa di Giulia; le aveva fornito, in due anni, centomila lire di vestiti, non aveva mai potuto avere un centesimo; aveva continuato a fornire vestiti, sperando nel prossimo matrimonio di Giulia, ma invano, matrimonio non se ne faceva, e Charlotte, poverina, aveva sospeso i pagamenti. Ma Rocco Caracciolo non si decideva a sposar Giulia? — domandava Tecla ad Anna. — No, no, Caracciolo aveva un legame altrove.
— Che cosa altrove? Chi, altrove? — chiesero le quattro o cinque ragazze, prese dalla curiosità.
— Una ballerina, la Fiammante: non poteva staccarsene, era proprio un legame serio. —
E le ragazze, un po’ chinando gli occhi, un po’ arrossendo, si erano strette, raccolte, mosse dalla curiosità di quell’altro mondo che esse non conoscevano, che non dovevano conoscere, ma di cui ogni tanto ritrovavano un’eco nelle loro case, nelle conversazioni.
— Ma che! Ma che Fiammante! — disse Elfrida Kapnist, sporgendo il capo bruno nel gruppo delle sue amiche — voi non sapete niente: Annina Doria è in arretrato di notizie, Caracciolo si è liberato della Fiammante, dandole trentamila lire, tutte d’un colpo, per lei e pel bimbo....
— Quale bimbo? — chiese ingenuamente Eva.
Ma un silenzio regnò, tutte avevano abbassato gli occhi o si guardavano intorno, come distratte: decisamente Elfrida Kapnist era troppo libera nei suoi discorsi, era intollerabile. E la cattiva impressione aumentava; Elfrida portava un vestitino miserabile a scacchetti bianchi e neri, un abito di quaranta lire e aveva alle orecchie due brillanti scintillanti, un valore di diecimila franchi.
— Che fa Willy Galeota? — ebbe l’audacia di chiederle Annina Doria.
— Mi adora, al solito, — rispose subito Elfrida.
— E quando vi sposate? — insistette l’altra, per vedere di coglierla in fallo.
— Presto, presto, presto, — disse Elfrida, volgendole le spalle e andando a unirsi con Giulia Capece.
Eva si volgeva sempre alla porta, un po’ impaziente, aspettando di veder entrare sua madre con Innico Althan, ma la mamma e il fidanzato non comparivano; erano arrivati Giovannella Sersale con sua sorella Candida Montemiletto e suo cognato Francesco Montemiletto. Strano a dirsi, non più la faccia di Giovannella mostrava quella mestizia profonda, quella incurabile malattia dello spirito che si manifesta in ogni fibra, nel colore, nelle linee, — invece ella mostrava un volto calmo e concentrato, come tutto chiuso in un sogno, in un pensiero, pareva quasi, che con uno sforzo inaudito, ella fosse giunta alla liberazione del suo spirito, a uno stato di contemplazione serena. Non più essa si accompagnava con Felicetta Filomarino, la triste fanciulla che serbava gelosamente un suo segreto, rodendosi di dolore: ma usciva sempre con sua sorella e con suo cognato, con sua sorella che le aveva tolto un marito, un fidanzato: e un misterioso sorriso le fioriva sulle labbra. Era entrata Angiolina Cantelmo con sua sorella Maria e con suo padre: non più Angiolina, non più una donna, ma uno stelo sottile, sottile, di un biancore di rosa finissima, senz’ombra di sangue sotto la pelle, una cintura così piccola che parca dovesse spezzarsi in due ad ogni movimento, certe mani così scarne, che il piccolissimo guanto vi faceva su mille pieghe. E si vedeva in lei tutto il desiderio di apparire ancora sana e bella, un mantello a ricche pieghe l’avvolgeva per dissimulare la magrezza del corpo, una sciarpa folta di merletto circondava il collo bianco e scarno, una veletta bianca punteggiata di nero calava sulle guancie a dar loro una vivacità fittizia. Gli occhi le brillavano, ella sorrideva: quando il padre, il duca, provato ripetutamente dalla sciagura domestica, aveva visto deperire la sua bella e buona figliuola, per amore di colui che viaggiava lontano, era andato dal principe Serracapriola padre, a implorare per la salute di sua figlia che se ne moriva, se questo matrimonio non si faceva. E il principe aveva consentito, anche pel suo figlio assente, purchè la dote fosse aumentata di duecentomila lire; il suo figliuolo poteva sperare e chiedere molto di più, ma Cantelmo era un amico, un parente, si sarebbero contentati padre e figliuolo, di mezzo milione, poichè la ragazza se ne moriva. Era tornato il bel viaggiatore, indolente, freddo e scettico, per far la corte alla sua fidanzata, e la delicata creatura rigermogliava, come le fragili rose bianche si schiudono, in certe calde giornate d’inverno. Ella portava sulla faccia la trasformazione della felicità: ella parlava poco, con una voce fievole, ma dove tremava sempre un’emozione. Entrando ella vide subito che il suo fidanzato era nel gruppo di Giulia Capece, il sorriso che gli mandò era parola, luce, affetto, sentimento, tutta un’anima che s’involava. E subito quelle che amavano e che la intendevano, Eva Muscettola, Tecla Brancaccio, Eugenia d’Aragona, Chiarina Althan la circondarono, guardandola con una grande tenerezza, non osando domandarle come si sentiva, parlandole sottovoce, spingendola verso il fondo del salone, perchè non prendesse freddo alla corrente d’aria. Un gruppo di giovanotti era entrato, Willy Galeota, Peppino Sannicandro, Carlo Mottola; Mario Capece era anche arrivato, portando un mazzo di vainiglia e di mughetti, per la sposa che partiva; la conversazione parziale divenne generale, ognuno si meravigliava che Massimo e Olga non arrivassero, mancavano soli venti minuti alla partenza di Roma. Eugenia si faceva giurare da Giulio che giammai sarebbero partiti da Napoli, per le loro nozze, essi si potevano chiudere nella immensa e fiorita villa d’Aragona, alla Riviera di Chiaia, non vi era bisogno di lasciar Napoli, ella adorava Napoli, ella odiava tutti gli altri paesi del mondo.
Ci fu un grande movimento; Massimo e Olga erano entrati, tenendosi a braccetto, tutti li circondarono, vi fu quasi un’acclamazione di saluti. Ella era sempre più carina, nel suo vestito di lana azzurro cupo rialzato sopra una gonna di casimiro rosso, tenuta ferma da una rondinella nascosta fra le pieghe della tunica: una rondinella pareva spiccasse il volo dal cappellino di felpa azzurro cupo: ella era pallidissima: Massimo aveva la sua solita aria di uomo seccato e seccante. Come Olga vide tutti quelli che l’aspettavano per salutarla e le mani amiche che le si tendevano e i bei fiori che le offrivano, fra tanti affetti, tante simpatie, tanti ricordi, un tremore nervoso l’assalse, non poteva piangere, ma gli occhi le pungevano, la gola era soffocata dai singhiozzi. E man mano, ella si appartò con tutte quelle che erano state sue amiche, avendo con ognuna di loro una tenerezza, una promessa, un rimpianto, una speranza da scambiare: Massimo discorreva straccamente coi suoi amici, tenendo le mani in tasca, il cappello abbassato sugli occhi, il contegno dell’essere perfettamente annoiato.
— Ti abbiamo portato le rose, Olga — disse la prima sorella Sannicandro, guardando la sposetta, con certi occhioni pieni di lagrime.
— Sono un ricordo di Napoli, non ti scordare, Olga, — aggiunse l’altra.
Ella si chinò sulle rose, le odorò lungamente, le baciò, poi senza altro dire, baciò le due bambolette sulle due guancie: e le due bambolette, dopo essersi guardate, come facevan sempre, nello stesso tempo, allungarono il labbruccio inferiore e si misero a piangere.
— O care, care, non piangete, — ella disse, tremando, e fece cenno a Maria Gullì-Pausania, che venisse, a consolarle. La futura cognata si avanzò regalmente, diede un freddo bacio sulla fronte di Olga e le disse tranquillamente:
— Ci vedremo a Parigi, fra sei mesi, Olga: io ci verrò con Peppino: tu vi sarai?
— Non so, non so.... — mormorò, confusa Olga Daun, guardando furtiva suo marito, che già si accostava, infastidito, alla porta di uscita.
E Maria Gullì-Pausania si portò in un cantuccio le sue cognatine che singhiozzavano sempre, si mise a parlar loro quietamente, come una vecchia nonna che predica la saviezza, e quelle l’ascoltavano, levandole gli occhi in faccia, come bimbe che si affidano alle promesse della nonna.
— Eccoti dei giacinti, bella mia, — disse Eugenia d’Aragona. — Ritorna, Olga.
— Ritornerò, Eugenia.
— Ritorna presto: è freddo laggiù, qui vi è il caldo, Olgarella. —
E si appoggiò, tutta fidente, tutta innamorata, al braccio di Giulio Vargas.
— Ti rammenti le serate che abbiamo passate insieme, Olga? — disse sottovoce Tecla Brancaccio. — Quello che tu hai desiderato, ecco, ora l’ottieni. Sii felice, cara.
— Possa tu ottener quanto desideri, Tecla!
— Debbo ottenerlo o morire, — soggiunse l’altra fermamente.
— La prendi una commissione per Pietroburgo? — chiese Giulia Capece alla sposa. — È possibile avere una pelliccia di volpe russa? Io muoio dal desiderio di averla.
— Me ne rammenterò, — mormorò la sposa, guardandosi attorno, con gli occhi trasognati di chi non si raccapezza più.
— Olga mia, la vita sempre serena, il cuore sempre innamorato, — le disse, piano, Chiarina Althan.
— Come è possibile, Clara? — rispose sullo stesso tono, con accento doloroso, la sposina.
— Sii buona, sii buona, non vi pensare, — le soggiunse l’amica, toccandole la fronte, come per benedirla.
Ma sulla porta Massimo Daun, al colmo del malumore, s’impazientiva: l’impiegato annunziava a voce alta la partenza per Roma, tutti si affrettavano, la sposa si avviò anche lei, seguita dal corteo delle sue amiche. Un grande vento s’ingolfava sotto la tettoia, il gas fluttuava. Massimo Daun innanzi a un compartimento riservato, buttava gli scialli e i fiori sui divani, con mal garbo. Un senso di pena dominava ormai tutta la gente venuta a salutare Olga: quella piccola bionda, affettuosa e buona, bel fiore cresciuto al sole napoletano, che se ne andava pel mondo, che s’imbarcava nel mare della vita, con tanto pericolo di naufragio, commoveva tutti quanti. Finanche Anna Doria, la vecchia zitella rabbiosa, s’inteneriva guardando quel piccolo essere, senza protezione, senza difesa, buttarsi nella lotta dove tante erano le probabilità di essere calpestata:
— Scrivimi, Olga, scrivimi, non ti dimenticare.
— Sì, sì, scriverò.... — diceva l’altra, parlando come in sogno, con le labbra tremanti e gli occhi che non potevano piangere.
— Coraggio, Olga mia, coraggio e saldezza, — le disse all’orecchio Elfrida Kapnist, — allora nulla sgomenta.
— Buona fortuna, Elfrida, — rispose la sposina, appoggiandosi allo sportello, presa quasi da uno svenimento.
A lei si accostò Angiolina Cantelmo, e le due ragazze si guardarono un momento, un’occhiata così intensa e profonda che le labbra non trovarono altro da dire: Angiolina teneva strette le manine di Olga nelle sue mani magre, quasi le volesse comunicare magneticamente le dolci cose che avrebbe voluto dirle. Le mancava la voce:
— La Santa Vergine.... — arrivò a dire, fievolissimamente.
— Oh Angiolina. — balbettò la sposina, quasi interrompendola.
E finalmente le lagrime le sgorgarono dagli occhi, ella pianse in silenzio. Eva Muscettola strinse Olga fra le braccia, sentendola piangere sulla sua spalla, dicendole:
— Ricordati che ti vogliamo bene, sempre, sempre; te ne voglio tanto, Olga mia.... —
La campanella suonava.
— Olga, Olga, — disse la voce secca e fischiante di Massimo.
— Eccomi, — rispose lei, ubbidendo. —
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A gruppi di tre o quattro, salutandosi alla porta della stazione, tutti si mettevano in carrozza per scendere verso Napoli. Ed Eva era ritornata alla sua preoccupazione, invano Chiarina le parlava di cose allegre:
— Dove sarà Innico? — scoppiò a dire Eva.
— Mah.... non saprei, — rispose l’altra, interdetta.
— Oh Chiarina, credi tu che egli mi ami? Come faccio, se egli non mi ama? —
Buttata nelle braccia della sua amica, singhiozzava, mentre la carrozza le riconduceva a casa: e l’amica la consolava, dicendole delle cose tenerissime, carezzandola come una bimba malata. Ma in realtà Chiarina Althan era pensosa e triste.
IV.
Le carrozze signorili entravano nell’ampio chiostro di Santa Chiara, tutto pieno di sole invernale, dal portone spalancato sulla via del Gesù Nuovo; deponevano gli invitati alla porta della chiesa, innanzi al coltrone sollevato, donde si vedeva un fulgore di ceri; poi andavano a prender posto per aspettare, laggiù, in un angolo del grande piazzale deserto, presso l’altro portone sbarrato che dava sulla via della Rotonda. I curiosi si
affollavano al portone spalancato, cercando di scorgere qualche cosa: ma si entrava solo con un biglietto d’invito. Qualche invitato pedone arrivava, vestito di nero, con la cravatta bianca che s’intravvedeva dal soprabito, il gitus e i guanti chiari, come per un matrimonio: mostrava il biglietto, entrava nel chiostro, scompariva nella bocca nera della chiesa, che una aureola di ceri pareva irradiasse, nel fondo. Delle signore entravano a piedi, vestite di nero, tutte scintillanti di perline, stringendo nella mano il libro di preghiere. I curiosi credevano si trattasse di un grande matrimonio: e pazientemente, nella piazza del Gesù Nuovo, sugli scalini e sotto l’androne della Scuola Normale, aspettavano la sposa.
Nella chiesa tutta stucchi e oro, ornata come un salone, simpatica e allegra, per mitigare la luce avevano abbassate le tendine rosse innanzi ai vetri dei finestrini; e a destra, dalla cappella dove Maria Cristina di Savoia, la buona, la santa, dorme, sino alla porta, erano raccolti gli uomini; a sinistra dalla cappellina dove la Madonna di Giotto guarda la folla coi suoi pallidi occhi di un azzurro latteo, sino alla popolare cappella dove si venera l’Eterno Padre, il miracoloso Eterno Padre di Santa Chiara, erano raccolte le signore: le due tribune erano circoscritte da certe balaustre di velluto rosso: all’entrata stavano ritti dieci servitori di casa Muscettola, immobili: facevano gli onori il duca di Mileto, fratello del duca di Muscettola, il principe di Montescaglioso, fratello della duchessa di Muscettola: sull’altar maggiore, inginocchiata sopra un cuscino di velluto rosso, appoggiata all’inginocchiatoio con la faccia tra le mani, la duchessa di Muscettola, vestita di nero, teneva la faccia tra le mani, e pregava, o piangeva, o pensava. E nella chiesa di Santa Chiara, a destra e sinistra si affollava tutta l’aristocrazia napoletana, la bianca e la nera, la spagnuola e la siciliana, la calabrese e la salernitana, quella che vive fra Napoli, Sorrento e Castellamare e quella che vive fra la Scozia, l’Inghilterra e Parigi, capitando ogni tanto a Napoli per introdurvi le mode francesi e inglesi. Oh non facilmente l’aristocrazia napoletana si riunisce con tanta solennità, in una chiesa, in un salone da ballo, in una festa pubblica! Molti uomini e molte donne che erano quella mattina nella chiesa di Santa Chiara, per la casa Muscettola, non erano andati, sei mesi prima, nella chiesa di Santa Maria degli Angioli a Pizzofalcone, pel matrimonio di Elfrida Kapnist con Willy Galeota, questo matrimonio che aveva colmato di collera le zitelle vecchie dell’aristocrazia, scandalizzato molte sposette e meravigliato tutti quanti: gli intransigenti continuavano a considerare Elfrida come un’avventuriera, gli indifferenti stavano a vedere, quel matrimonio aveva turbata tutta la società, vi aveva introdotto un elemento di vivacità un po’ boema, un po’ di zingarismo ricco. Non erano tutti andati al funerale di Angiolina Cantelmo, che si era spenta quietamente, in una serata di maggio, accanto a una finestra del vecchio e triste palazzo Cantelmo, tenendo una manina sul capo della sorella Maria e sorridendo a Giorgio Serracapriola; il funerale era stato fatto senza nessun invito, nella fredda cappella dei Cantelmo, fra i parenti stretti, il duca presente, piangente, invecchiato di dieci anni, versando le poche lagrime di vecchio sulla poesia della sua casa che s’involava. Giorgio Serracapriola era partito di nuovo, sopra un yacht a vapore, pel Giappone, lasciandosi dietro il ricordo della mite fidanzata, che lo aveva così unicamente amato. Neppure al funerale di Luigi Muscettola, il fratello di Eva, che si era tirato un colpo di rivoltella al cuore, una notte, uscendo da una bisca, la gente era intervenuta: i suicidi non potrebbero essere neppure seppelliti in terra benedetta, s’era dovuto scrivere a Roma, al Papa, per averne il permesso, ma non vi era stata funzione, tutto era stato fatto di notte, alla chetichella. Al matrimonio di Peppino Sannicandro con Maria Gullì-Pausania, solo la nobiltà siciliana era intervenuta; era stato fatto a Palermo, con una pompa immensa, coi valletti vestiti alla medievale e la moschetterìa al ritorno, nella loro villa-castello, fuori città. Tanta riunione di nobiltà si rinnovava, dopo un mese, dopo i magnifici funerali di Eugenia Vargas d’Aragona: la vivace, chiassosa, simpatica creatura era morta di parto, dopo avere dato un erede ai Vargas e agli Aragona, nulla aveva potuto salvarla; giovane, esuberante di vitalità, ricchissima, felice, amante di suo marito, la morte le era parsa una cosa orrenda, nel delirio gridava che non voleva morire, che la salvassero per carità, quelli che l’amavano, ella si buttava al collo di Giulio, stringendolo da soffocarlo; morì disperata. Ora, la stessa gente, più numerosa, forse, per la novità della funzione, era venuta nella chiesa di Santa Chiara. Alle undici in punto la novizia entrò nella chiesa, l’attraversò in tutta la sua lunghezza per recarsi all’altar maggiore. Ella era vestita di un lunghissimo abito di broccato bianco; sui riccioli castani un velo bianco amplissimo, che l’avvolgeva tutta; grossi orecchini di brillanti scintillavano alle orecchie delicate, un ricco fermaglio al collo, una fibbia alla cintura; le mani, guantate di bianco, portavano un mazzolino di fiori d’arancio e un libro di preghiere legato in velluto bianco. Ella era tutta candida, da capo a piedi, candido il bel volto giovanile. Teneva abbassati gli occhi, quasi chiusi, ma senza severità: una pace suprema era dipinta su quella faccia. Pace: non serenità. Non sorrideva, per cui non era serena. Le labbra pareva avessero respinto indietro il sorriso, per sempre: formavano una linea composta, che nulla poteva arcuare più, nel gaio riso della gioventù. Così il basso del volto che tutti avevano sempre visto commosso lietamente, dava a tutta la faccia come un subitaneo invecchiamento. Pareva un’altra: con la morte del sorriso, Eva Muscettola, la novizia, erasi trasformata. Un mormorìo nacque sul suo passaggio, qualche voce femminile disse, dolcemente, dolorosamente. «Eva, Eva, Eva» ma ella non si volse neppure, continuò la sua strada, come se nulla più potesse interessarla. Dietro di lei venivano le due matrine: — la principessa di Tricarico, la gran dama mistica e pietosa, un portamento regale, un viso impallidito dalle tribolazioni e dalle preghiere; e la duchessa della Mercede, una spagnuola, magra, alta, dalle labbra sottili, dagli occhi di carbonella, diritta e fiera. Quando fu all’altar maggiore Eva s’inchinò, fece il segno della croce, si accostò a sua madre, ma non l’abbracciò, le baciò la mano: la duchessa aveva teso la faccia, ma si rigettò indietro, come pentita. La novizia s’inginocchiò, fra le due matrine: il cardinale Riario Sforza cominciò la messa, lentamente, muovendo a stento la persona che l’età e l’ascetismo avevano mal ridotta. Gli uomini, ritti, avevano l’aria inebetita di coloro che sentono la solennità di una funzione e non osano abbandonarsi a quella emozione: solo, qualche vecchio, il duca d’Aragona, il duca di Cantelmo, il duca di Isernia, colpiti da poco da sventura, osavano chinare la testa, essi a cui la fede era rientrata in core, con la sciagura. Invece dall’altra parte, le signore pregavano, inginocchiate, abbandonandosi, in quell’ora mistica, ai loro sentimenti, afferrando avidamente quell’ora di raccoglimento. Tecla Brancaccio, la forte e dura volontà, l’animo coraggioso, guardava Eva Muscettola, chinava la testa e pregava: ella, ostinata, ferrea, nella lotta con Maria di Miradois aveva vinto, la spagnuola era ripartita per Barcellona, Carlo Mottola si era deciso a sposare Tecla, di mala voglia, bruciando ancora della vecchia passione. Tecla aveva vinto, penosamente, dolorosamente: ma Eva all’altar maggiore, vestita di bianco come una sposa, tenendo in una mano una candela accesa, nell’altra una croce d’argento, avendo abbandonato i fiori e il libro di preghiere. Eva, la bella e la buona aveva perduto, era stata vinta; e Tecla, umilmente, ignorando il grande segreto di Eva, ma intuendone lo spasimo, pregava, pregava per i vinti come per i vincitori, per donna Maria di Miradois come per sè, per la povera Eva come per coloro, gli ignoti, che l’avevano contristata irrimediabilmente. Anna Doria, buttata coi gomiti sopra una sedia, con la testa fra le mani, presa da una crisi nervosa di malinconìa, pregava, stringendosi alle labbra il rosario; quella rinunzia di Eva alla vita, quel distacco da tutte le cose umane, persone e sentimenti, quella morte volontaria del cuore cristiano che aborre il suicidio, aborre il mondo e solo a Dio si volge, le parevano la fine della propria vita, le pareva che ella stessa, Anna Doria, a trentacinque anni, senza bellezza, senza speranza, senz’affetti, senza avvenire, non avesse altro scampo che andarsi a chiudere in un monastero. Col capo abbassato, in un assorbimento doloroso, Giovannella Sersale non aveva il coraggio di pregare, la sua anima era immersa nel peccato, ella amava il peccato, ella non aveva il coraggio di salvarsi dal peccato, ella era indegna di pregare, indegna di inginocchiarsi innanzi a Dio, giammai la misericordia divina poteva perdonarle: oh Eva, lassù, che aveva appoggiato il crocifisso di argento al petto, era scampata dalla tempesta, era in salvo, aveva rinunziato, ma lei, Giovannella non poteva, no, doveva perdersi, doveva morire nel peccato. Accanto a Maria Sannicandro Gullì, che pregava, decorosamente, per colei che fuggiva le vane pompe e anziché dare spettacolo del suo dolore, si nascondeva per sempre in una clausura, Giulia Capece pregava, ringraziando il Signore che le aveva fatto la grazia; fra due mesi ella partiva per l’Inghilterra, ella sposava un vecchio lord, Napoli era ormai troppo lugubre, le ragazze vi morivano o vi si facevano monache, le spose morivano o fuggivano come Maria di Miradois, le avventuriere sposavano i principi; Giulia pregava quietamente, senza turbarsi, presa sola da una pietà per la bellezza di Eva che andava a consumarsi in convento. Le due piccole Sannicandro, tanto carine sotto i cappellini neri, erano inginocchiate d’accanto, strette strette e dicevano il rosario insieme, la più grande cominciava, sottovoce, la seconda rispondeva, continuando; e pregavano fervidamente; un grande desiderio di salvarsi l’anima, di farsi monache, ambedue, veniva loro, avrebbero voluto diventare due santarelle, le due santarelle di casa Sannicandro: e Felicetta Filomarino, la fanciulla senza speranza e senza gioia, quella di cui tutti ignoravano il core, anziché perire nel peccato spirituale come Giovannella Sersale, cercava al Signore la vocazione di Eva. Tutte le donne pregavano, commosse dal fatto e dal rito, dando sfogo ai loro dolori nella contemplazione della candida creatura ventenne, che se ne andava a morire in convento: pregava finanche Elfrida Galeota, la zingarella divenuta contessa, pregava, rammentandosi le orazioni infantili che la vita randagia e gli stenti le avevan fatto dimenticare, pregava, col cuore umiliato nella vittoria, per colei che era stata sempre buona con lei, per Eva, che scompariva, volontariamente, dalla scena. E quella che più s’inabissava nella preghiera era Chiarina Althan, la creatura buona e intelligente: ella sola conosceva l’orrendo segreto che aveva distrutto la vita di Eva Muscettola, ella sola aveva la misura di quel sacrifizio, ella compiangeva la fanciulla, ma pregava per coloro che l’avevano uccisa, per coloro che mai più avrebbero avuto pace.
Il ponteficale finiva. Il cardinale, seduto, benediceva l’abito di monaca Clarissa che Eva doveva indossare, disteso in un vassoio d’argento: poi, inchinatasi all’altare, profondamente, senza vacillare, senza levar gli occhi, senza vedere nessuno, Eva, seguita dalle due matrine, riattraversò la chiesa, uscì dalla porta nel chiostro, si avviò alla porteria del monastero, dove le altre monache l’aspettavano: dietro venivano i preti, salmodiando. Di nuovo certe mani amiche si stesero, quasi per toccare il vestito di nozze di Eva, qualche voce la chiamò, ma ella non udì, come la prima volta. La madre era rimasta all’altar maggiore: tutti la guardavano, per distinguere se piangesse; perdere un figlio dopo l’altro a otto mesi di distanza, vedere finita la propria casa, un giovinotto morto con un colpo di rivoltella, una ragazza che si faceva monaca, doveva essere uno schianto insopportabile per un cuore di madre. Ma la duchessa non levava il capo, restava solitaria sull’altare, il duca viaggiava, all’estero, non aveva voluto assistere alla monacazione della sua figliuola: la famiglia era distrutta da cima a fondo, i Muscettola scomparivano, l’eredità passava ai Mileto, Eva aveva disposto della sua dote, per l’ospizio dei poveri fanciulletti abbandonati.
Un intervallo di silenzio si allungava nella chiesa: il sole aveva raggiunto il piccolo portico, quasi quasi penetrava dalla porta, tre finestroni si riscaldavano vividamente, mandando una luce rossastra sui marmi bianchi, sugli stucchi, sulle dorature della bella chiesa. A un tratto, accanto all’altar maggiore, una porticina si aprì, quella che comunicava col convento: innanzi ad essa vi era Eva. Le avevano levato il vestito bianco, il velo, i fiori, i gioielli, le scarpette di raso, tutto l’apparato mondano. La bruna tonaca delle monache francescane le scendeva sino ai piedi, dal collo, in pieghe grosse, strette alla vita dal cordone bianco: i piedi non si vedevano, le mani avevano il biancore giallastro della cera: i bei capelli biondo-castani le scendevano sulle spalle, disciolti. A vederla in quell’abito ruvido, Giulia Capece sentì un grande schianto al core e si mise a piangere silenziosamente. Il cardinale officiante che era entrato nel monastero con Eva, si staccò dal fianco della badessa, si avanzò verso la monacanda; benedì il bianco scapolare, ed Eva lo passò al collo, macchinalmente, non guardando in volto nessuno. Conservava sempre la stessa fisonomia pacata, che nessuna altra espressione veniva a turbare, nè di dolore nè di gioia: questa immobilità in quel volto che tutti avevan sempre visto vivacissimo, feriva la fantasìa più di qualunque espressione dolorosa. Infine, Eva s’inginocchiò accanto alla porticina e chinò il collo: una monaca si staccò dalle altre e le si avvicinò, raccogliendole i capelli tutti in un fascio e stringendoli nel pugno: la badessa, una vecchietta curva, con una grande croce gemmata che le batteva sullo scapolare, appoggiandosi a una mazzettina, si avanzò lentamente verso Eva. Dalla chiesa tutti tendevano il collo, si rizzavano in punta di piedi, per vedere che accadesse nel vano della porticina. La novizia, inginocchiata, pregava, si vedeva il moto delle labbra: la vecchia badessa impugnò un paio di lunghe forbici, dalla lama lucentissima, le passò sotto il fascio dei capelli, che la monaca teneva stretto e sollevato. Sentendosi il freddo dell’acciaio sul collo, la novizia trasalì per un lungo brivido, forse di terrore: le donne che guardavano, senza più pregare, ansiose, frementi, provavano tutte lo stesso brivido. Le forbici, incerte nelle mani tremanti della vecchia badessa, stridevano, senza tagliare, non mordevano i capelli, si arrovesciavano, l’operazione pareva non dovesse finir mai, quei cinque minuti parvero una eternità straziante: il fascio dei capelli tagliati rimase nella mano della monaca, molle come una cosa morta. Qualche viso di donna, nella chiesa, si gettò indietro, pallidissimo, come se gli mancasse la vita. Elfrida Kapnist, contessa Galeota, abbassata la testa dai bruni capelli ricciuti e ribelli, la testa di boema libera e audace, piangeva sulla chioma recisa di Eva. Alla novizia, sul capo disadorno, a un tratto diminuito, diventato piccolino, come di certe persone morte, avevano buttato un velo nero.
La funzione non finiva ancora: la novizia Muscettola, per sommo favore della Santa Sede, aveva ottenuto che le fosse risparmiato l’anno della professione, la vocazione sua era così profonda, così irresistibile, che desiderava pronunziare il voto, nel giorno in cui prendeva il velo. Invano lo stesso suo confessore le aveva consigliato a desistere da questa idea, a far l’anno di professione, forse poteva pentirsi della sua decisione e sarebbe stata sempre in tempo: ella si era mostrata così decisa, così irremovibile, che s’era dovuto ricorrere per forza a Roma. E Roma aveva consentito; ormai monache non se ne facevano più, una così ardente vocazione sarebbe servita di esempio. Dunque la novizia si era levata su, in mezzo al coro, innanzi alla porticina: quattro monache con le candele accese erano venute a circondarla. Le avevano data una lunga pergamena, scritta in latino: ella la leggeva lentamente, lentamente, ma senza niun tremito nella voce, senza emozione, una voce che aveva già la monotonìa delle voci monacali. Era la lunga formula del giuramento claustrale, che ella pronunziava al lume delle quattro torcie: le parole latine, gravi, sgomentavano l’anima di tutte quelle donne oranti: gli uomini stessi non si potevano togliere da quella emozione, un silenzio profondo regnava in quella grande chiesa. Alla fine Eva si fermò, e in italiano disse i quattro voti: castità, povertà, obbedienza e perpetua clausura. Tese la mano, giurò con voce tranquilla: prese la penna che le porgevano, firmò la pergamena, dopo lei firmarono la badessa e il cardinale. Irrefrenabilmente Anna Doria piangeva, con un piccolo singhiozzo secco e rauco.
Poi la funzione divenne più lugubre ancora. In mezzo al coro, per terra, era disteso un tappeto; le monache vi condussero Eva, la fecero distendere supina, come persona morta, le incrociarono le mani sul petto, la coprirono con una coltre di velluto nero, gallonata d’argento, su cui erano il cranio e le ossa in croce, le insegne della morte. Attorno, ai quattro lati come intorno al cadavere, ardevano quattro grossi ceri: e subito la campana di Santa Chiara si mise a suonare a morto. Le monache salmodiavano il De profundis. Le due Sannicandro, spaventate, piangevano strette l’una all’altra, pensando che realmente Eva fosse morta: Maria Gullì-Sannicandro si sentiva bagnare gli occhi di lagrime, a quei funerali di persona viva. Eva, nascosta sotto la coltre, rigida come cadavere, fu incensata, benedetta con l’acqua santa; le monache, con la croce, giravano in processione, intorno a lei. Oh come avrebbe voluto esser morta Giovannella Sersale, che non trovava più lagrime nell’ardore della sua passione, morta, morta, nel sonno profondo, donde mai più viene a svegliarci lo strazio: morta, morta, nel gran riposo, dove non si pensa più, non si ama più, non si soffre più! Come avrebbe voluto esser lei la monaca, Felicetta Filomarino, l’anima mistica, che era risalita dall’amore della creatura, sino all’adorazione del Creatore, che sentiva sempre più liberarsi il suo spirito dai legami della terra! Le preghiere dei morti continuavano, profondamente penose, mentre il sole riscaldava ormai tutti i finestroni velati di rosso; la campana a morto risuonava sempre, e i curiosi che si accalcavano sulla via domandavano se quello era un matrimonio o un funerale.
Il cardinale si avanzò verso Eva, e le disse in latino: Surge, quae dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus! Tre volte la evocazione fu ripetuta, le monache sollevarono la coltre mortuaria. Eva si levò ginocchioni sul tappeto, poi sorse in piedi. Il cardinale la benedisse e scomparve dal coro: le monache la baciarono, una alla volta. La porticina fu richiusa, mentre la monaca con le altre orava: Ego sum resurrectio et vita....
Tutte le donne, reclinato il capo, piangevano su quella monaca.