Questo testo è stato riletto e controllato.

GRAZIA DELEDDA


Il segreto

dell’uomo solitario

ROMANZO

MILANO

Fratelli Treves, Editori

1921


Quinto migliaio.

IL SEGRETO DELL’UOMO SOLITARIO




L’uomo che abitava la casetta solitaria laggiù fra la spiaggia e la brughiera, di ritorno dal suo solito viaggio al paese dove ogni tanto si provvedeva delle cose più necessarie alla vita, svoltando dalla strada provinciale al sentiero che conduce verso il mare, vide due uomini che misuravano coi loro passi un terreno attiguo al suo giardino.

Subito si fermò, con un senso di curiosità misto a rabbia e ad angoscia; ricordava che Ghiana, la contadina che ogni tanto gli portava il latte e le uova da un cascinale delle colline, gli aveva appunto annunziato la vendita di quel terreno e la probabilità che ci venisse costrutta una casa.

Ecco dunque la minaccia avverarsi: i due uomini che misurano il prato facendo come a chi ha più lungo il passo, seguiti sull’erba dorata dal tramonto dalle loro ombre gigantesche, hanno l'aspetto di operai: quello più alto e tozzo, col viso d’un rosso mattone, è senza dubbio un capo-mastro; e il terreno è il più adatto dei dintorni per fabbricarci una casa: ombreggiato da un gruppo di pini e con un pozzo d’acqua potabile, è una vera oasi in quel deserto di sabbia e di scopeti che scende dalle colline a nord e va a perdersi nel mare. Solo un poco più giù verdeggia un altro mazzo d’alberi, ma bassi, stentati, tormentati dal vento marino.

L’uomo che ritorna dal paese si dirige con passo affrettato verso quel punto.

— Lasciali fare — mormora, a testa bassa, come parlando all’involto che tiene fra le mani. — Pazienza, Cristiano: quando sei a casa tua cosa ti possono fare?

La sua casa, infatti, era nascosta da quel mazzo d’alberi, circondato a sua volta da una siepe nera, alta e fitta come un muro: l’insieme dava l’idea di un grande cesto ricolmo di foglie dalle quali spuntava appena uno spigolo di tetto rossiccio con un comignolo grigio.

L’uomo camminava lungo la siepe quasi sfregandovisi come il cane che ha ritrovato il suo padrone. No, una volta là dentro, nessuno più poteva molestarlo: tuttavia, arrivato al cancelletto di rami tutto foderato di una rete di ferro, si volse diffidente a guardare se dal prato gli uomini lo vedevano.

Non lo vedevano, nè lui li vedeva: allora si guardò attorno rassicurato.

La solitudine e il silenzio erano tali ch’egli sentiva le tarantole e le cavallette muoversi tra le foglie. Il cielo limpido di aprile pareva una grande campana di cristallo sotto la quale la terra conservava una purezza intatta, primordiale. In fondo al sentiero il sole cadeva sopra una striscia di mare luccicante e sottile come un ago.

L’uomo aprì, e gli parve che in fondo al vialetto sabbioso del suo giardino, la porta scolorita della casetta gli sorridesse, aspettandolo; ma sorridesse a lui solo, perchè tanto essa col suo accigliato arco di pietra quanto i muri color d’arancia guasta della facciata si nascondevano, diffidenti come il padrone, sotto le ali rugginose del tetto spiovente.

Gli alberi, quasi tutti da frutto, gettavano la loro ombra su un terreno sabbioso, qua e là coltivato a erbaggi e a viti che parevano selvatiche: tutto aveva l’aspetto stentato dei luoghi dove c’è scarsezza d’acqua e abbondanza di vento; ma in quell’ora la luce del tramonto verniciava le cose; i rami più alti parevano di corallo, i fiori gialli in fondo al giardino brillavano come fiammelle, e il gatto bianco che veniva incontro al padrone sembrava tinto di rosa.

Anche nell’interno della casa, all’aprirsi della porta, tutti gli oggetti scintillarono: il chiarore del tramonto arrossò la parete di fondo e una parte del soffitto di travicelli e di tavole grezze.

Solo l’uomo rimaneva scuro. Chiuse subito la porta, già pauroso di essere molestato, e di nuovo si guardò attorno come per assicurarsi che nulla mancava. Nulla mancava in quella grande stanza che serviva d’ingresso, da sala da pranzo e da cucina assieme; e nulla nella cameretta attigua: tutto era al solito posto, l’armadio ad angolo, la tavola coperta di un tappeto di tela nera cerata con un bordo giallo e con la scritta in mezzo: «New York City».

Tutto a posto, in ordine, con un velo di polvere come nelle case da lungo tempo chiuse.

Fra il camino e la porta un paravento di grossa tela da vele riparava quell’angolo dall’aria e ne formava una piccola cucina, con un lavabo e una tavola di marmo. E sopra la tavola di marmo l’uomo depose e cominciò a svolgere il suo pacco.

Il gatto assisteva all’operazione: con la zampetta nel cui bottone di velluto le unghie apparivano e sparivano desiderose, pareva tentasse di aiutare a svolgere gl’involti, fissando quasi con angoscia le cose che ne venivano fuori: cose grasse e odorose, carni secche, pesci salati, scatole di conserve: ma il padrone lo allontanava con la mano scarna, vinto sempre più da una inquietudine rabbiosa, che non gl’impediva però di cacciarsi in tasca lo spago dei pacchetti, di metter via la carta unta, buona ad accendere il fuoco, e infine di collocare le provviste nell’armadio in modo che ogni cosa fosse a suo posto al riparo dell’umido e dei mali propositi del gatto.

Allora il gatto, non potendo ottenere altro, cercò una carezza, sfregando contro il braccio del padrone la testina vibrante; ma un manrovescio lo mandò giù disilluso.

— Non capisci che mi secchi? Che non voglio più noie da nessuno?

Anche il battente dell’armadio e la sedia ove l’uomo andò a buttarsi stanco, davanti alla piccola finestra, ebbero scosse e spintoni: pareva ch’egli volesse castigare le cose intorno per la loro impassibilità alla sua preoccupazione.

— E del resto posso vendere e andarmene — disse infine con voce irosa: ma la sua stessa voce, nel grande silenzio, gli parve un’eco, un suono che non provenisse da lui.

Allora cercò di raccogliersi, di vincersi. Vendere e andarsene, è presto detto, Cristiano. Vendere è facile: gli stessi contadini del cascinale sulla collina, dai quali aveva comprato la casa due anni avanti, adesso volevano riacquistarla: vendere è facile: il difficile è l’andarsene.



Dove andare? Ricominciare a cercare un luogo solitario, sempre col rischio di aver più tardi dei vicini e dover fuggire ancora?

Non che si fosse affezionato a quel posto, — no, non voleva più affezionarsi a nulla, nè a luoghi nè a cose, e neppure a quel compagno ultimo della sua solitudine che gli si era arrampicato sulla spalla e di nuovo gli sfregava la guancia con la sua testa molle, dandogli quasi un desiderio di piangere; — ma perchè oramai gli sembrava di essersi sepolto in quel luogo e desiderava di non muoversi più. Voleva la morte, intorno a sè, perchè gli sembrava di averla già dentro: ad ogni modo, la vita gli aveva dato tanto dolore che il solo istinto di rientrare nella comunità degli uomini lo spaventava.

Riprese a parlare a sè stesso, ad alta voce, come usava sempre che voleva convincersi:

— Ma se tu non vuoi, nessuno penetra fin qui, insomma! Resta, dunque.

I suoi occhi corsero di nuovo intorno alla stanza riconciliandosi con gli oggetti famigliari: e gli parve che questi oggetti, ancora qua e là scintillanti alla luce del tramonto, avessero delle pupille che rispondevano al suo sguardo: gli ritornò allora l’abituale impressione che essi avessero qualche cosa di vivo, e la tenerezza fisica che lo univa a loro. Della tazza, del coltello, del secchio, solo a guardarli si sentiva l’impronta nelle dita: gli sembrava che se fosse diventato cieco, gli oggetti coi quali da due anni divideva la sua solitudine, si sarebbero mossi per venirgli incontro ad aiutarlo.

— E dunque resta. Se tu non vuoi neppure il diavolo entra in casa tua!

Se tu non vuoi! Perchè dunque ti tendi tutto in ascolto nel sentir picchiare al cancello? Sono già gli uomini del terreno attiguo che vengono a molestarti?

Con un balzo ostile fu subito alla porta, ma tra le fronde del cancello intravide una donna con un paniere sul capo, e subito si rassicurò. Era Ghiana, la contadina del cascinale.



Ghiana tentava d’introdurre la mano tra le fronde e la rete per aprire di dentro il catenaccio: nel sentire che il padrone veniva, si ritrasse e accomodò subito il vuoto fatto tra le foglie: e quando egli aprì lo guardò rapidamente in viso, coi suoi occhi verdastri, maligni e timidi ad un tempo, per scrutarne l’umore.

L’umore non sembrava troppo cattivo: egli la guardava con sorpresa, nel vederla a quell’ora insolita; con sorpresa e anche con un certo piacere; ma si rifece scuro e severo nell’accorgersi che il viso olivastro e stanco di lei s’illuminava di un rossore di gioia.

Non voleva far piacere a nessuno, lui; e a nessuno concedere famigliarità: per questo appunto salutò la donna con cortese freddezza e dopo averla fatta entrare, la pregò di andare avanti: poi chiuse e la seguì, guardandola alle spalle.

Era una donna ancora giovane, con qualche cosa di animalesco nelle gambe dritte e dure e nei fianchi dondolanti ingrossati dalle crespe della lunga gonna turchina: ma la vita era agile, con un bel dorso onduleggiante sul quale la stoffa della camicetta rosa aderiva come una seconda pelle.

Arrivata alla porta depose il paniere per terra e sedette sullo scalino della soglia, scuotendo la testa per mandar giù il cercine: poi scoperse lentamente il paniere, dentro il quale apparve, accanto ad una bottiglia di latte, una gallina nera con la cresta rossa, che pareva covasse un mucchio di uova.

Un ultimo riflesso del tramonto batteva sulla figura un po’ ambigua della donna, ravvivando il nero lucido dei suoi capelli pettinati con cura e la sua collana d’ambra falsa che pareva d’acini di uva matura.

L’uomo le si era fermato davanti e guardava dall’alto il paniere; anche il gatto allungava la testa verso la gallina, ma sfiorò col muso il vetro della bottiglia e si ritrasse spaurito.

La donna si era fatta pensierosa, quasi triste: trasse la bottiglia dal paniere, trasse un involto e se lo mise in grembo: aggiustò le uova contandole con le dita allargate; poi parve riprendere coraggio, sollevò il viso e cercò gli occhi dell’uomo coi suoi occhi liquidi. Invano egli tentava di sfuggire a quello sguardo: a poco a poco si lasciava attrarre, si dimenticava: i suoi occhi scendevano lungo il collo bruno e delicato di lei, fin dove la collana le si perdeva nel seno.

— È la vecchia che mi manda, — ella disse con una voce lenta e stanca che non cambiava mai tono, ma con una luce sempre più appassionata e maliziosa negli occhi. — Sono arrivati altri quattrini, oggi, di laggiù. E lui, il mio Alessandro, scrive: «Cara moglie e cari genitori; vi mando questi denari e altri ne porterò con me, al ritorno in autunno, perchè la stagione è buona: le braccia qui mancano e la mercede cresce; qui nessuno fa il servo e i padroni si devono far tutto da sè: le signorine, prima, quando si alzano, mungono le vacche, poi vanno a scuola, nel paese distante: e i signori si fanno il pane da sè. Adesso stiamo a segare le canne: e sega e sega, son tante che le vedo persino in sogno. Cara moglie e cari genitori; impiegate i denari come meglio credete, di accordo; se volete ricomprate la casa e il campo: cara moglie, farai il tuo piacere, come i vecchi ti diranno». I vecchi, toh, vogliono ricomprare la casa. Apposta hanno mandato in Australia il mio Alessandro, per far quattrini. E la vecchia, dunque, mi dice oggi: Ghiana, va a portare al tuo signore la roba e domanda un po’ per la casa. Perchè dovete sapere che si comprerebbe anche qui un pezzo di terra e si farebbe la vigna.

L’uomo, sebbene infastidito di tutte queste chiacchiere, domandò con accento brusco, che non escludeva la possibilità di trattare:

— Quanto ha mandato?

Allora la donna riabbassò il viso, spaurita e addolorata.

— È ancora poco.... — disse con voce incerta; poi soggiunse, piano, come parlando a sè stessa: — dunque la rivendereste? L’ultima volta dicevate di no.

Ed egli si mise a gridare, quasi rimproverando a lei il pericolo che lo minacciava.

— Non hai veduto che misurano il terreno lì accanto? Dunque è vero che l’hanno venduto! Dunque è vero che fabbricano! E se i tuoi vecchi vogliono ricomprare, qui, è appunto per questo: perchè adesso, per voi, qui la casa riacquista valore: sapete il fatto vostro, voi! Siete furbi, voi tutti: i tuoi vecchi e tu, Ghiana.

Ghiana si piegava sempre di più, ricontando, senza vederle, le sue uova: ammise timidamente:

— Sì, è perchè si fabbrica qui accanto, che i vecchi vogliono ricomprare.

— Tu sai che io devo andare a prendere l’acqua al pozzo, perchè qui non ho che acqua salmastra. E se viene gente è finita. Me ne vado, Ghiana, me ne vado.

Ghiana si rifece coraggio: tornò a sollevarsi, rossa in viso, con gli occhi ingranditi che avevano cambiato colore, quasi neri adesso: si lisciò i capelli con ambe le mani, esitò, è infine disse:

— È solo una casina per la stagione di mare, che si deve fabbricare.

— Meglio! Allora ci saranno dei ragazzi!

— E che vi fanno i ragazzi? E solo per l’estate. Eppoi chi ha comprato il terreno è un signore solo, senza famiglia. Il vecchio lo conosce. È un signore che possiede tante altre case nel paese, e qui forse neppure verrà a starci.

— Già, fabbrica la casa per buttare i denari al vento!

— Sì, sì, — ella affermò ingenuamente: — è tanto ricco che non sa cosa farsi dei denari.

— Infine, — egli disse, già sollevato all’idea che una famiglia ricca non poteva certo venirsene ad abitare tutto l’anno in quel deserto, ma provando un gusto cattivo a contradire la donna, — se il luogo viene abitato, io me ne vado. Questo dirai ai tuoi suoceri. Sarebbe poi bene che loro venissero a parlare con me.

La donna sì piegò di nuovo, rassegnata, e sollevò e pesò con le mani la gallina: ma a un grido di lui: — cosa l’hai portata a fare? non la voglio: — la depose subito: e la gallina spaurita, spiegò un’ala senza aver la forza di ripiegarla, abbandonandosi pesantemente in fondo al paniere. La stessa rassegnazione ai voleri dell’uomo vinceva la contadina.

— Allora vi lascio solo il latte e le uova, — mormorò, alzandosi e deponendo ogni cosa sulla tavola. — La vecchia sperava che prendeste anche la gallina. C’è pure il pane: è ancora caldo, toh, ma questo ve lo regalo io. Il resto viene tre franchi.

Egli trasse il denaro: e mentre con una mano glielo dava, con l’altra le stringeva il braccio attirandola verso la cameretta. Ella depose di nuovo il paniere, e lo seguì silenziosa, intascando il denaro con un lieve tremito nella mano.



La cameretta riceveva luce da un finestrino alto attraversato da ramicelli verdi. In quella luce d’un glauco già crepuscolare la donna, seduta sul lettuccio, con la sua attitudine stanca, sembrava più pallida ma più giovine, d’una bellezza triste da schiava. Sul suo seno dorato, un po’ scoperto, appariva una vena verde come i ramicelli del finestrino.

Lentamente ella si ricoperse, si lisciò i capelli; poi sollevò il viso e sospirò. Bisognava andare. I vecchi l’aspettavano con impazienza ostile, ogni volta che ella si assentava: salvo a non farle alcun rimprovero appena la vedevano tornare; poichè avevano bisogno di lei.

E lei adesso pensava che, certo, Cristiano avrebbe comprato la gallina: adesso che lei lo aveva ancora una volta contentato. Mai però avrebbe osato insistere: lo conosceva, oramai. Era un uomo che faceva tutto a modo suo, senza lasciarsi mai smuovere dalle parole altrui.

Egli s’era alzato, e si allontanava da lei quasi con sdegno; ma vedendola così, rassegnata e triste, le tornò vicino, le sedette accanto. Anche il suo viso, sotto la luce glauca del finestrino, appariva pallido, affinato da una tristezza che non era il solito suo cruccio scuro: il labbro inferiore, grosso e sporgente, s’era ritirato sotto l’altro, che tremava un poco.

E la donna sperò ancora una volta ch’egli le aprisse l’anima sua, che le dimostrasse un po’ di affetto e di confidenza: ma ebbe il torto di cominciare a parlare lei.

— È tardi, — disse guardando il finestrino. — Bisogna andare: i vecchi aspettano. Lui viene già fino al ponte, quando faccio tardi, e da lontano gli vedo brillare gli occhi di collera. Qualche sospetto lo hanno, veh; ma non m’importa. Purchè....

S’interruppe, accorgendosi subito d’aver sbagliato.

— Purchè? — egli domandò, ridiventando duro.

Ella abbassò gli occhi e arrossì come una fanciulla.

— Purchè voi siate contento.

Rimasero ancora un poco assieme, in silenzio. No, egli non parlava, non avrebbe parlato mai: non aveva parlato neppure nei giorni duri di una sua malattia, quando la donna, dopo averlo trovato sul suo giaciglio, solo, abbandonato come un lebbroso, s’era fermata ad assisterlo cristianamente: e neppure dopo, quando convalescente, nei primi bei giorni di febbraio, vinto dallo sguardo desideroso di lei, l’aveva posseduta.

Ella si alzò, si aggiustò il grembiale.

— Allora vado: tornerò lunedì mattina.

Rientrò nella prima stanza e riprese il paniere con uno sforzo un po’ esagerato, scuotendolo per far starnazzare la gallina; la gallina infatti mosse le ali ed ella brontolò qualche cosa contro la suocera.

L’uomo intese.

— E lasciala pure: ma l’ammazzi subito, lì fuori.

Ella uscì in fretta: prese la gallina per le ali e le tirò il collo torcendolo un po’ come un tappo che non volesse venir fuori; poi l’attaccò per le zampe ad un chiodo del muro: e la cresta rossa parve un grumo di sangue sgorgante dalla testa che il dolore della morte agitava.



Poi ella se ne andò, con la mano nella saccoccia dove teneva i denari: camminava rapida, coi fianchi dondolanti, e non sembrava più stanca.

Rimasto solo, l’uomo si preparò da mangiare. Teneva sempre il fuoco coperto, nel camino, e accanto dei ramoscelli secchi che si accendevano al solo metterli sulla brage.

E apparecchiò la tavola, quella di marmo, che stava fra il camino e la finestra.

Andava e veniva lento, dall’armadio alla tavola, dalla tavola al camino, preparando accuratamente ogni cosa, come si trattasse di un pranzo per invitati.

In ultimo pensò di andare a prender l’acqua: e il suo viso si ricoperse d’ombra, come se un dolore momentaneamente obliato lo riafferrasse forte.

Egli aveva legalmente il diritto di prendere l’acqua dal pozzo del terreno attiguo: ma per far questo bisognava pur uscire di casa.

Uscì dunque di casa con un’anfora e col secchio, tutti e due di rame, leggeri e risonanti come campane: si sforzava ad essere tranquillo, ma il solo pensiero di poter incontrare i due operai gli dava un senso quasi di paura.

Respirò, passata la sua siepe: il luogo era deserto.

Il chiarore dell’orizzonte, di un rosa metallico, simile a quello di un incendio morente, arrossava i pini, il prato, la nicchia in muratura che ricopriva il pozzo. Il silenzio intorno, così intenso che si sentivano vibrare i fili telegrafici della strada provinciale, finì di rinfrancare l’uomo. Egli attinse l’acqua, col suo secchio che destò un rumore stridente quasi spezzasse del cristallo dentro il pozzo; poi dopo aver riempito l’anfora andò verso il punto preciso dove aveva veduto gli uomini misurare il terreno.

Distinse la traccia del loro passaggio, e mentre col piede tentava istintivamente di sollevare l’erba calpestata, guardava la sua siepe per assicurarsi ch’era impenetrabile.

Era impenetrabile, sì: sul cielo cremisi del crepuscolo pareva la muraglia nera d’una cittadella fortificata, con guglie sottili, pinacoli e merli.

Tuttavia egli tornò malcontento verso il pozzo e riprese l’anfora e il secchio pensando che una siepe è sempre una siepe, riparo irrisorio sopratutto quando ci sono donne e ragazzi contro la cui curiosità non ci si difende neppure con le muraglie vere.



Eppure si ostinò a sperare, finchè una mattina sentì un tintinnio di sonagli e il grido dei carrettieri che portavano il materiale di fabbrica.

Era finita! Spaventate da quel grido brutale tacevano persino le voci della brughiera: solo rispondeva un’eco lamentosa che veniva dal mare.

Ed egli evitò di andare a prender l’acqua finchè tutto non fu di nuovo silenzio: e nella notte si svegliò con un senso d’angoscia dopo aver sognato che i carrettieri attraversavano il suo giardino; poi si rassegnò: nessuno veniva a disturbarlo, e se chiudeva le finestre gli urli e i canti degli operai arrivavano come da un luogo molto lontano.

Quando era costretto a passare davanti al prato evitava di guardare verso il punto dove si costruiva; ma vedeva che tutto era calpestato là attorno, la siepe abbattuta per il passaggio dei carri, il sentiero scavato da solchi profondi: e ne provava una sorda irritazione come se venisse rovinata una sua proprietà; allora ripeteva sottovoce le bestemmie che sentiva gridare ai carrettieri e ai muratori.

Anche alla notte la solitudine non era più completa. Gli operai avevano costrutto una baracca sotto gli alberi, e la maggior parte di essi vi pernottava. A volte un suono di fisarmonica riempiva di pianto stridente la dolcezza della sera.

Solo il sabato, verso sera, tutti se ne andarono.

Cristiano uscì allora con la sua anfora e col suo secchio, e dopo averli deposti sull’orlo del pozzo andò cauto a vedere la costruzione. Mucchi di mattoni e di legnami ingombravano il terreno: in una vasca la calce bolliva ancora, con un biancore così luccicante per il riflesso del tramonto che faceva male a guardarlo. Le fondamenta erano già riempite dal muro, e questo pareva spuntare di terra come una rovina appena scoperta da uno scavo.

Egli sedette sul mucchio di legnami e guardò pensieroso e curioso come un bambino, calcolando in quante stanze poteva venir divisa la costruzione, e qual era il corridoio, quale la cucina, quale la sala da pranzo.

Il luogo era bello, senza dubbio: dalle finestre della casa si vedeva il mare e il sentiero svoltare e riunirsi alla strada comunale, e questa slanciarsi come una corda fino all’orizzonte. Laggiù, tra il verde della brughiera, appariva alcunchè di rosso e di bianco, con lastre d’oro luccicanti: era il paese, con le finestre che brillavano al tramonto.

Dalla sua casa l’uomo non vedeva che gli alberi del suo recinto: solo a star qui seduto sui legnami di costruzione, sotto i pini alti mormoranti circondati d’azzurro, con quel paesaggio vasto davanti, sentiva che i futuri abitanti della casetta erano gente socievole, che la vita degli altri uomini passava diversa dalla sua.

Anche lui un tempo.... Ma no, non voleva rimpiangere nulla. Si alzò e trasalì: gli era parso di vedere come un cinghiale nascosto fra le pietre.

Era un vecchio operaio rimasto a guardia del materiale: stava curvo dentro la baracca ad accendere il fuoco, e ogni tanto sollevava la testa guardando con due piccoli occhi porcini.

Cristiano s’allontanò subito, vergognoso di essere stato veduto a curiosare, e andò a riempire la sua anfora; ma si accorse che il vecchio era venuto fuori e lo seguiva con gli occhi diffidenti.

Allora si propose di non avvicinarsi mai più alla costruzione: solo quando andava ad attingere l’acqua vedeva gli operai muoversi fra gli alberi e i muri crescere di giorno in giorno: si distinguevano già le finestre, e la porta d’ingresso: e questa era proprio in fondo al sentiero del pozzo. Poi fu innalzata l’impalcatura con le scalette: i manovali s’arrampicavano sui pali come scimmie, coi secchi della calce sull’ómero: e le grida e le bestemmie raddoppiarono.

Un giorno Chiana arrivò con un paniere colmo di uova, dicendo che voleva venderle agli operai.

— È stata la vecchia a consigliarmelo.

Ma Cristiano fu preso da un impeto di gelosia che non riuscì a nascondere.

— Tu non ti avanzerai un passo dal sentiero. Ghiana! Altrimenti io non ti prendo più nulla.

Gli occhi felini della donna lo guardarono con riconoscenza; eppure c’era qualche cosa di perfido nel loro splendore.

Egli prese quante più uova potè: non poteva prenderle tutte, che sarebbero andate a male perchè già cominciava a far caldo sebbene si fosse appena alla fine di aprile. Ghiana ripeteva, contandole sulla tavola:

— La vecchia aveva piacere le vendessi tutte.

Allora l’uomo urlò;

— Oh che sei la schiava di quella ruffiana?

E la sua voce risonò così insolita nel silenzio, che le cose intorno ebbero come un’eco di sorpresa: e il gatto s’inarcò, poi si stirò quant’era lungo con uno sbadiglio di soddisfazione.

Ghiana invece riprese la sua aria sorniona, rassegnata: raccolse le uova, salutò in silenzio e se ne andò.

E l’uomo cominciò a irritarsi contro sè stesso, che s’era abbassato a insultare una vecchia, per di più assente: ma quel senso iroso di gelosia non lo abbandonò. Andò a spiare attraverso la siepe, e vide Ghiana che passava dritta nel sentiero guardando davanti a sè: ecco però il vecchio operaio dagli occhi porcini balzar fuori dalla baracca e correre appresso alla contadina gridandole di fermarsi: era ancora svelto e la raggiunse. Ella faceva gesti di diniego; poi si lasciò prendere tutte le uova: e sorrideva, anzi, per qualche cosa che l’operaio le diceva accennando alla casetta della siepe; infine si allontanò dondolando i fianchi con l’aria lieta e lieve di quando riusciva a vender bene la sua roba.

E Cristiano fu vinto da un vero furore: gli sembrava che Ghiana fosse una sua serva e gli avesse disobbedito: poi si vergognò e s’inquietò di questa sua agitazione e decise di non aprire più il cancello alla donna.

Ella tornò egualmente e vendette la sua roba agli operai.



Verso la fine di giugno la villetta sotto i pini era finita: bianca, piccola, a un sol piano sopra il terreno, con sole due finestre per lato, col tetto da una parte e una terrazza dall’altra, pareva, fra gli alberi grandi, una di quelle casette che si ritagliano nella carta per divertire i bambini.

La siepe intorno al terreno fu rimessa com’era, col varco che permetteva di entrare liberamente ad attingere l’acqua dal pozzo.

Gli operai sparvero, la baracca fu abbattuta; solo, per alcuni giorni, si sentì uscire dalle finestre aperte un canto di tenore che risonava nelle stanze vuote: era il pittore che dipingeva le volte, poi anche questo canto cessò.

Intorno alla casetta d’un bianco abbagliante al sole estivo, rimasero solo le traccie della calcina, avanzi di legname e barattoli vuoti. Fino al pozzo si sentiva l’odore della vernice.

Ma nessuno veniva ad abitarla. Già le cicale cantavano: già Cristiano era sceso al mare a fare un bagno: ecco, si era di piena estate e nessuno veniva.

A volte egli s’aggirava intorno alla villetta, e andava a sedersi sullo scalino della porta posteriore, che era quella della cucina: una piccola tettoia la riparava e l’ombra là dietro era fitta e fresca: l’erba cresceva sotto i pini circondati d’azzurro, le cicale, le cavallette, le farfalle arancione dell’estate animavano quell’angolo pittoresco. Egli provava un gusto infantile a immaginarsi che le cose sarebbero rimaste sempre così: ch’egli era padrone di andarsi a sedere sempre che voleva su quello scalino e godersi quel luogo non suo.

Ma una mattina vide avanzarsi nel biancore della strada un grande carro giallo, che pareva una casa ambulante, con dentro tavole e sedie e materassi e stoviglie. Le finestre della casetta erano aperte, e dentro, qualcuno picchiava sui muri piantando chiodi.



Nei giorni seguenti fu di nuovo silenzio. Forse i padroni della casa l’avevano mobiliata per affittarla meglio.

Infatti, ecco una mattina venire una carrozza aperta, con bauli, valigie e gente: un velo grigio svolazzava dietro la corsa della carrozza, come una scia di fumo.

Cristiano si ritirò nel suo recinto e si mise a inaffiare melanconicamente con la poca acqua salmastra del suo pozzo l’aiuola di basilico davanti alla sua porta. Per convincer sè stesso che non aveva paura dei suoi vicini, aveva lasciato il cancello socchiuso: ma d’improvviso sobbalzò spaventato; un grosso cane-lupo, senza museruola, con un collare di metallo sul quale stava inciso un nome, era entrato di corsa, fiutando, ansando, e andava qua e là come cercasse una preda nascosta. Aveva la testa piccola e lunga, gli occhi castanei lucenti, e una grande coda dal pelo grigio nero e giallo: tutte le sue mosse erano agili e feroci.

Cristiano restava incerto se tentare di scacciarlo o aspettare che se ne andasse, quando vide il gatto uscire infuriato di volo dalla casa e balzare contro il cane: un attimo e qualche cosa di terribile doveva accadere. Allora si mise a correre anche lui, gridando e battendo le mani per impedire lo scontro delle due bestie; e il gatto infatti indietreggiò e rientrò nella casa col pelo irto come un istrice; ma il guaio fu peggiore, perchè il cane lo seguì abbaiando con un latrato cupo e rauco che per qualche momento riempì di tumulto il luogo solitario.

Cristiano prese un bastone, ma non osò entrare: aveva paura che il cane gli saltasse addosso e lo mordesse. E la bestia infatti sembrava arrabbiata; correva per la stanza, con la testa alta e la coda che si sbatteva furiosa come agitata dal vento: poi, essendosi il gatto prudentemente nascosto, si calmò alquanto; uscì di nuovo nel giardino, si fermò nel viale abbaiando minacciosamente contro l'uomo col bastone, infine se ne andò.

Cristiano corse a chiudere: un tremito di rabbia gli agitava la mano.

— Sembrava lui il padrone, — disse ad alta voce, — torna ancora e vedremo.

Era deciso ad ammazzarlo, se tornava: poi pensò di andare dai suoi vicini ad avvertirli del suo proposito e intimar loro di legare il cane; ma aspettò di calmarsi, per non presentarsi anche lui così come s’era presentata la bestia, con un aspetto feroce.

Ma durante la giornata non sentì più rumori, non vide nessuno. Verso sera uscì in esplorazione: vide la porta e le finestre della casetta ermeticamente chiuse e gli parve di essere ancora solo: andò dunque a prendere la brocca e il secchio e tornò al pozzo.

Era una sera calda, colorata, con l’occidente tutto d’un luminoso arancione, e dalla parte opposta, sopra la brughiera, una grande luna gialla nuotante fra vapori rossi e azzurri. Le cose intorno, gli alberi immobili, la casetta, il pozzo, l’erba del prato, sotto il riflesso di quella luminosità iridata, parevano di metallo.

Egli si chinò per buttare la secchia nel pozzo, ma ancora prima che avesse potuto riempirla si drizzò con un brivido nella schiena. Gli pareva che dal pozzo salisse la voce di un mostro.

Era il cane: veniva dal di dietro della casa, abbaiando, con gli occhi che parevano d’oro; e sarebbe saltato addosso a Cristiano se una donna vestita di bianco, coi piedi nudi nei sandali, non fosse volata lieve come un fantasma ad afferrarlo per il collare.

— Fido! Fido! — lo chiamò con preghiera e rimprovero: e si tenne piegata a palpargli la testa selvaggia, per placarlo e persuaderlo a non andare oltre; il cane infatti non tentò di sfuggirle, pur continuando ad abbaiare.

Cristiano vedeva il gruppo sullo sfondo luminoso del prato, in un’aureola di luce. Attraverso le vesti trasparenti distingueva le gambe lunghe, sottili della donna; e mentre si sentiva intimidito dallo sguardo fra il curioso e lo spaurito degli occhi di lei, grandi occhi scuri nel viso bianco, e si vergognava di esser veduto col secchio in mano come un povero diavolo, parole ingiuriose gli salivano alle labbra.

Infine disse, frenando la sua collera:

— Bisogna legarlo!

La donna si sollevò, senza abbandonare il cane, avanzando di qualche passo.

— Lo si legherà. Non morde però; fa così per spaventare la gente. A meno che non capisca che sono ladri.

La sua voce armoniosa e commossa avrebbe intenerito anche i ladri. Cristiano disse ruvidamente:

— Questa mattina è penetrato in casa mia e mi ha rovinato tutto.

E fu contento nel veder la donna prendere un’aria desolata.

— Lo farò subito legare. Se lei ha avuto danni.... mi faccia sapere.... se desidera....

— Che! Che! — egli interruppe alzando le spalle. E tanto più s’irritava accorgendosi di aver esagerato fino alla bugia.

Ma la donna voleva placare anche lui.

— È lei che abita qui accanto?

Egli accennò di sì, guardando ai suoi piedi il secchio e la brocca con un senso di fiera umiliazione. Non osava più guardare la donna, ma la sentiva accostarsi, come un’ombra, pur così luminosa, come un pericolo.

Ecco che gli era davanti; più alta di lui, coi piedi rosei entro i sandali gialli, con le forme agili appena velate dal vestito candido che pur così trasparente aveva solchi d’ombra come fosse di marmo.

Si fece coraggio e sollevò la brocca; la ripose, la riprese, tentò di scuotersi, di ritornare lui. Ma già sentiva di non esser più lui: e aveva l’impressione che la donna lo guardasse dall’alto, che l’arco delle sue sopracciglia, intensamente nere sopra gli occhi castanei, la linea pura del naso, il mento e le labbra sporgenti fossero quelli di una statua. Eppure ella parlava con una semplicità infantile senza accorgersi del turbamento che destava, solo preoccupata di tener a bada il cane, che del resto le stava anch’esso umiliato accanto con la coda fra le gambe.

— Il padrone del villino ci disse di lei. Si cercava da tanto tempo un luogo solitario, vicino al mare, e finalmente si è trovato questo: ma il fabbricato è troppo fresco ed ho paura che l’umidità ci faccia male. Lei, la sua casa l’ha abitata subito?

Egli guardava ostinatamente per terra.

— Io? Io l’ho comprata così. È una casupola di contadini. — Lei è sola? — domandò poi, con accento che avrebbe spaventato un’altra donna.

— No: sto qui con mio marito malato e la persona di servizio.

Egli si consolò pensando che non c’erano ragazzi. Subito però gli venne l’idea che il malato fosse, che era senza dubbio, un tisico. La donna indovinò questo suo timore e lo rassicurò.

— Veramente non è malato, mio marito, è convalescente d’una malattia nervosa, ed è molto debole. Ha bisogno di una grande quiete.... e siamo venuti qui.... dove la quiete mi sembra anche troppa, — aggiunse, con aria d’inquietudine: e parve d’un tratto ricordarsi che il marito l’aspettava, là dentro la casetta chiusa. Riafferrò il collare del cane, disponendosi a rientrare, e concluse frettolosa: — del resto mio marito non esce, ancora; è anche un po’ anziano. Scusi per il cane, sa, lo farò legare: ma non abbia timore, oramai le è diventato amico. Tu capisci. Fido, il signore è nostro amico.

Il cane agitò la coda e guaì lievemente in segno di assentimento. Senza volerlo. Cristiano si piegò alquanto e lo accarezzò sulla testa: e sul collare lucente lesse un nome

«Sarini».

— È il nostro nome, — ella disse, sempre più preoccupata. E aspettò che egli dicesse il suo: ma poichè egli taceva, lo salutò con un cenno del capo e s’allontanò nel prato bianca e luminosa come l’immagine stessa del crepuscolo.

Allora egli riprese la sua brocca e il suo secchio; e fatti alcuni passi si accorse che erano vuoti.



Appena rientrato a casa si tolse il cappello perchè sudava come avesse fatto una corsa sotto il sole: e stette a guardarlo, il suo vecchio cappello di feltro un tempo verdastro, adesso diventato grigio come sbiadito e indurito dal sale dell’aria marina.

Le vesti, di un leggero panno marrone, abbastanza nuove, se le era già guardate durante il tragitto, come pure le scarpe di stoffa colore della sabbia, sgangherate se non rotte, che parevano calzature da vagabondo divenute in colore dalla strada, ma potevano anche passare per scarpe da villeggiante.

Poi si accorse del suo intimo pensiero e si ricalcò sdegnosamente il cappello in testa. Che importavano le sue vesti? Da lungo tempo egli non se ne curava più che l’animale non si curi del suo pelo. Ma ricordò che l’istinto dell’amore per la femmina porta anche l’animale a farsi bello, a cambiare di pelo: e si propose di andar d’ora in avanti solo alla notte ad attinger l’acqua, poichè non voleva più mettersi a chiacchierare con la sua vicina di casa.

L’immagine di lei gli rimase però ostinatamente davanti, luminosa, coi dolci piedi nudi, le ginocchia piccole rivestite appena dalla buccia della veste, e le mani sofferenti della donna che nasconde nella sua casa un dolore e una fatica.

Col cader della notte gli parve di sentire il latrato del cane e il lamento del malato, attraverso il fruscìo degli alberi e il mormorio del mare.

Dopo cena accese la lampada grande, come nelle sere d’inverno, e aprì un libro sul tappeto lucido, sopra la scritta «New York City». Il gatto gli si mise accanto, sulla tavola, e cominciò a fissare attentamente, con le pupille allargate, la pagina ch’egli leggeva: poi, quando egli voltava la pagina, lo guardava in faccia come per scrutare l’impressione che la lettura gli faceva.

D’improvviso l’abbaiare del cane risonò davvero, lì vicino: pareva dietro la porta: e qualcuno batteva al legno del cancello.

Il gatto balzò giù: l’uomo si alzò con la sua solita impazienza. Dio, ecco che la pena incominciava. E la donna aveva promesso di legare il cane. E se fosse lei e avesse bisogno di qualche cosa?

Con impeto, ancora prima di rendersi ragione di quello che sentiva, aprì la porta; e subito si avvide che tutto era illusione della sua fantasia.

Il cane abbaiava di là dalla siepe, forse legato ad un albero: in fondo al vialetto il cancello si disegnava nero sullo sfondo del sentiero illuminato dalla luna: nero e solitario come il cancello di un cimitero.



Due giorni dopo, mentre usciva per andare al paese, egli vide Ghiana che pareva s’aggirasse furtiva in quei dintorni.

Il primo moto di lei, nel vederlo, fu di scansarsi, poi gli andò incontro a testa bassa come risoluta a vincere un pericolo: e quando gli fu davanti si fermò, silenziosa e rispettosa, aspettando ch’egli le parlasse; sia pure male, ma le parlasse.

Egli invece provava piacere a rivederla. Da due giorni non aveva più veduto anima viva, e l’incontro con la sua vicina di casa gli sembrava fosse stata un’allucinazione. Tutto era chiuso nella casetta: il cane non si faceva più vedere nè sentire: egli aveva l’impressione di essere nuovamente solo in quel deserto battuto dal sole d’agosto.

— Ghiana! E che fai da queste parti?

— Là, — ella disse, accennando con la testa verso la casetta, senza sollevare gli occhi, — è venuto a stare un malato: passavo ed ho pensato che forse compravano della roba.

— Che ci hai di buono?

Subito ella depose il paniere per terra sollevando il panno che lo copriva: era colmo di tante cose buone: uova rosee, burro, polli dorati, cipolle violette.

— Sembra il paniere della divina provvidenza. Posso prendere anch’io qualche cosa. Ghiana?

Ghiana restava immobile, dura, con la gonna larga che pareva di smalto turchino: lasciò ch’egli si chinasse a scegliere le uova, che le domandasse quanto voleva dei polli, che le domandasse se il marito aveva scritto: non rispondeva.

Egli sollevò gli occhi e la vide pallida, con gli occhi pieni di lacrime: allora si mise a ridere. Ghiana non lo aveva mai veduto ridere così; ma invece di offendersi si rasserenò anche lei.

— Ebbene, Ghiana? Tuo marito ha scritto?

— Ha scritto.

— Ha mandato altri denari?

Ella parve esitare, anche perchè lui faceva la domanda con tono un po’ canzonatorio; poi rispose che, sì, il marito aveva mandato altri denari.

— E la casa l’avete trovata?

— Ancora no. Forse la si fabbrica, se il padrone ci dà il terreno.

— Ghiana, se tu vuoi andare da questi qui della casetta, credo faresti bene a passare di dietro e picchiare alla porta della cucina. Da questa parte è sempre chiuso. Se vieni ancora passa anche da me. Va.

Ed ella se ne andò, senza chiedere altro: ma fu sollecita a tornare.

Tutta affannata, col paniere quasi vuoto, e la mano entro la saccoccia ove teneva un mucchio di monete, disse che là, nella casetta, avevano comprato tutta la sua roba, ordinandogliene dell’altra.

— Vogliono il latte tutti i giorni, e polli, uova, anche il pane. Così potrò venire spesso. Mi faranno fare anche dei servizi. Il mio vecchio, non voleva, ma la vecchia mi ha aiutato a convincerlo. Così verrò spesso, — ripetè con un sospiro d ansia e di sollievo; poi riabbassò la voce: — ho veduto anche la signorina.

— È bella, — riprese dopo un altro sospiro un po’ forzato, rinfrancata dal silenzio dell’uomo; — mica tanto giovane, avrà la mia età; ma è bella; pare che il viso le risplenda.

Cristiano la lasciava dire: era già molto.

— Anche la donna di servizio è bella: anziana, ma fresca, forte, con due braccia che sembrano tronchi. Ma tirata! Per questo rassomiglia alla mia vecchia. Mi hanno chiesto di voi.

Dopo un momento di silenzio, la voce dell’uomo risonò irritata, sprezzante, eppure scossa da un lieve turbamento.

— Che importa a loro di me?

— Sarà per curiosità. La signorina disse: ma quell’uomo vive sempre solo?

— Quell’uomo?

— Quel signore, — corresse Ghiana per conto suo. — Vive solo, dico io. Da tre anni che lo conosco vive solo e non vuole essere molestato da nessuno. La signorina disse: cos’è? un pittore? — No, dico io, è un signore, ma non vuole molestie. Se sarà molestato venderà la casa e se ne andrà.

— Tu potevi fare a meno di spifferare i fatti miei. E poi, cosa ne sai tu di me? Comincia tu a non seccarmi.

— Credevo di farvi piacere, — ella disse intimidita, ma non senza malizia. E si preparò subito ad andarsene. Egli la pregò di portargli l’acqua, prima; e quando ritornò con l’acqua le chiese se poteva fare anche a lui i servizi più grossolani della casa.

Sì, sì, ella era disposta a servirlo giorno e notte; e gli sorrideva e lo guardava diffidente e felice: ed egli si sentiva scrutato e indovinato fin nel profondo dell’anima dalla malizia di lei.

Allora, per farle dispiacere le disse che, giusto, non gli era più possibile far tutto da sè, come i boari d’Australia, adesso che qualcuno poteva vederlo e beffarsi di lui.



Eppure la solitudine intorno non si smuove: passano i giorni e tutto sembra come prima della costruzione della casetta.

Nel giardino caldo, ove i frutti maturano rapidamente, grava un’afa umidiccia che ricorda davvero i paesi tropicali. Solo la contadina stanca e sudata, dimagrita dalla fatica e dal caldo e da una sofferenza che invano ella tenta di nascondere, riappare di tanto in tanto in quella solitudine.

L’uomo comprava la roba ch’ella portava, ma non le dava più confidenza: solo, a volte, pareva aspettasse da lei notizie di qualche cosa. Ed ella gli raccontava della gente della casetta.

— Gente che sta bene, dev’essere. Lui è un medico: che malattia abbia non si capisce. Io non l’ho ancora veduto. Lo tengono sempre nelle camere di sopra, o nella terrazza dove hanno messo una tenda grande come una vela. La signorina bada sempre a lui. La serva mi disse che il padrone è paralitico, ma che c’è speranza si possa rialzare. Allora se ne andranno. Ma come un paralitico si può rialzare? Il mio nonno stette sette anni così, poi rese l’anima al Signore. Io penso che quel malato, abbia, Dio liberi, un’altra malattia. Qui, — aggiunse toccandosi con l’indice la fronte; e stette un momento tutta appoggiata su quell’indice, grave, pensierosa: poi disse: — un giorno lo sentivo gridare, nelle camere di sopra: la serva s’è fatta bianca in viso ed è corsa subito su: e la signorina ha chiuso anche gli scurini delle finestre. Toh, queste cose non si fanno, per un paralitico. Dio scampi, ma per uno toccato al cervello.

Questa supposizione spiegava tante cose: il silenzio e il mistero della casa, il non farsi quasi mai vedere dalla signora, e la sua tristezza.

E questa tristezza parve d’un tratto estendersi, trasfondersi tutta intorno, nel paesaggio e nel tempo.

Quasi tutte le sere, cominciarono a scatenarsi violenti uragani che non rinfrescavano l’aria e lasciavano gli alberi stroncati; soffiava un cupo libeccio e l’ululare del mare in tempesta non cessava neppure nelle ore di sole.

Pareva che la serenità mite che Cristiano aveva sempre conosciuto in quei luoghi non dovesse ritornare più. Forse la natura non è così insensibile al dolore dell’uomo come si crede: forse la sua agitazione è, a volte, prodotta dalla partecipazione a questo dolore.

Cristiano aveva ripreso le sue abitudini invernali: non usciva quasi mai, e alla sera leggeva fino a tarda ora.

Eccolo seduto davanti alla sua tavola lucida, sotto la lampada solitaria. Fuori gli alberi frusciavano, e ogni tanto pareva passasse un treno: era il fragore di un acquazzone.

Ed egli si sorprendeva a rileggere e gustare libri romantici che avevano formato la gioia e il tormento della sua adolescenza: e canzoni che aveva sentito o letto, — non sapeva dove — e che aveva dimenticato, — adesso gli ritornavano nella memoria come macchie che sembrano cancellate e ricompariscono al sole e all’umido.

«Tu credi sia stato il vento terribile di stanotte — a spalancare la tua porta e fare urlare gli alberi e a schiantar la tua vigna?

E l’acquazzone a invadere la tua casa e a svegliarti come un ladro che tenta di strangolarti nel sonno?

Ero io che urlavo, e mi sbattevo intorno a te con l’odio e l’ira per il tuo tradimento.

E desideravo la tua morte e la mia,

Adesso eccomi qui stroncato come i rami del tuo orto: ma con la certezza nel cuore che l’odio a parole e non a fatti non reca male che a chi lo nutre: e forse neppure a lui.

A primavera tutto rifiorirà: e tu sarai felice senza di me.

Ma anch’io sarò di nuovo in giro, coi dolci venti d’aprile e con le api e le musiche della sera, anch’io sarò di nuovo felice non perchè ti abbia perdonato ma perchè ne amerò un’altra.»



Nei tempi passati egli provava un piacere crudele ad ascoltare il rumore del vento e della pioggia pensando a quelli che forse a quell’ora attraversavano la brughiera senza riparo: adesso sentiva una sorda inquietudine: ricordava le parole della contadina «un giorno ho sentito gridare, nelle camere di sopra, e la donna s’è fatta bianca in viso»; e gli sembrava che un grido risonasse nella notte. E là, dietro la sua siepe, vedeva le due donne sole che domandavano aiuto: due donne sole contro un uomo il cui male poteva da un momento all’altro diventare demoniaco, violento come l’uragano insensato.

Allora sollevava la testa ad ascoltare, ma poi la ripiegava ancora più bassa sul libro.

Il lamento stridente degli alberi aumentava: si sentiva, nei momenti di sosta, il tonfo di qualche frutto staccato dal vento; e le ultime goccie dell’acquazzone sul tetto producevano un picchiettio come di unghie che tentassero di smuovere le tegole.

Anche il gatto sollevava la testa ascoltando e di tanto in tanto balzava verso la parete per tentare di acchiappare qualche cosa ch’era solamente la sua ombra.

Eppure, sì, pare proprio un lamento umano quello che, a momenti, si unisce al gemito degli alberi. L’uomo ascolta di nuovo, ma vede il gioco del gatto e solleva le spalle: anche lui va dietro le ombre dei suoi sogni.

E se qualcuno si lamenta davvero? Che importa? Di lui chi ha mai ascoltato i lamenti? Ricordi, Cristiano, i primi tempi nella casupola? Nel silenzio della notte tu pure gridavi così: e nessuno e nulla, neppure la pietà degli alberi e del vento, ti rispondeva.



Eppure finì con l’alzarsi e aprire il finestrino della sua cameretta. Fuori tutto era una nuvola densa agitata, una lotta di ombre nell’ombra. Solo dopo qualche momento egli distinse gli alberi, ma gli sembrò che le loro cime toccassero il cielo: e dietro di essi una montagna nera chiudeva l’orizzonte: la siepe.

Il grido non si ripeteva. Egli tuttavia si ostinava ad ascoltare: sporse la testa; le goccie della pioggia gli caddero sui capelli e sul collo e gli diedero l’impressione di dita fredde che lo accarezzassero. Pensò alle mani fini e tristi della donna incontrata al pozzo, e si ritrasse con un moto brusco, quasi per sfuggire davvero a una carezza misteriosa.



L’indomani infatti seppe da Ghiana che il malato della casetta stava molto male.

— È venuto il dottore del paese, con un uomo che resterà qui per vegliare alla notte il malato. La serva mi disse che la signora ha avuto tanta paura, la scorsa notte, perchè il cane guaiva come ci fossero dei ladri attorno. Voi non avete sentito nulla?

Egli alzava le spalle, ma in fondo si vergognava della sua insensibilità.

Ecco che un uomo moriva, vicino a lui, e lo stesso cane guaiva chiedendo aiuto, e lui si chiudeva nella sua casa, vilmente, come la lumaca nel guscio.

Domandò a Ghiana se anche lei restava dai vicini.

— No, anzi mi hanno mandato subito via. Pare non vogliano far vedere il malato: non ho veduto neppure la signorina.

Anche lui la mandò subito via, ma dopo qualche tempo uscì e dal sentiero la vide ferma allo svolto della strada come aspettasse qualcuno. Ebbe l’impressione ch’ella lo spiasse: e appunto per questo si avanzò fino al prato: allora Ghiana si allontanò, col suo passo lungo e dondolante, con la testa così bassa che si vedeva la collana d’ambra brillare sulla sua nuca bruna.

Cristiano fece il giro del prato, aspettando ch’ella si allontanasse.

Il tempo finalmente si rasserenava: tutto il paesaggio appariva come rinnovato, nitido, dalle colline viola al mare argenteo: le macchie scintillavano cariche ancora di goccie iridate, e sul prato pareva fossero caduti frammenti di sole, tanto gli specchi d’acqua stagnante vi brillavano.

E sulla sabbia del sentiero si camminava come sulla neve, in silenzio, respirando l’odore dei garofani selvatici che veniva di sotto ai pini.

Come attirato da quell’odore Cristiano si avanzò lentamente; e andava sotto l’ombra luminosa dei pini ricordando quel giorno che s’era seduto fra le pietre della fabbrica: anche questa volta vedeva due occhi fissarlo dall’interno di un casottino di legno, accanto alla porta posteriore della casetta: era il cane.

Ma nonchè abbaiare la bestia uscì fuori dalla sua cuccia quanto era lunga la corda e si stirò e sollevò la testa con un piccolo guaito di gioia.

Allora Cristiano ricordò che gli era stato presentato e lo salutò con un cenno del capo come fosse un uomo.

Poi battè alla porta.


Una donna grassa e tuttavia agile, con due mele rosee per guancie, due stelle nere per occhi e due piccoli baffi sopra la bocca rossa, si affacciò con un panno in mano. Era la serva di cui parlava Ghiana.

Dapprima guardò stupita l’uomo, sorpresa anche della sua amicizia col cane, poi subito gli sorrise come lo riconoscesse anche lei.

Egli si levò il cappello con rispetto, ma anche con una certa austerità: non voleva sorrisi dalle serve, lui.

— Sono venuto per sapere come sta il malato. Se occorre qualche cosa.... La signora mi conosce....

Subito si pentì, sembrandogli di aver detto troppo. Ma la serva non badava a queste finezze e lo invitava senz’altro ad entrare.

— Venga, venga! Adesso chiamo la signora. S’accomodi.... — e si ritraeva agitando il panno per meglio invitare l’uomo esitante a seguirla. — Scusi se lo faccio passare di qui.

Prima ch’egli si accorgesse dove passava, si trovò in un salottino che gli diede l’impressione di un acquario. Il pavimento infatti, sotto la luce verdognola che penetrava dalle persiane socchiuse, aveva un luccichio d’acqua: e le sedie di giunco verde vi si riflettevano e pareva vi galleggiassero come cestini.

C’è pericolo di scivolare, Cristiano! Tieniti fermo accanto all’uscio e non cessare di pentirti di esser venuto. Perchè sei venuto? Poter almeno sfuggire come un pesce dalla rete!

Fuori si stava così bene, al sole, all’aria! Qui si provava un senso di freddo, quasi di sgomento. Che gl’importava dopo tutto, di quella gente sconosciuta?

E cominciava a irritarsi sul serio quando finalmente la signora apparve: allora s’irrigidì: ebbe paura ch’ella lo invitasse a sedere: ed egli non voleva sedere, no, su quelle sedie che gli pareva dovessero sprofondare come in acqua: non voleva sedere, no, voleva andarsene e non tornare più.

Ma la donna non lo invitò a sedere: solo gli disse, guardandolo con occhi vaghi e stanchi:

— La ringrazio: mio marito va meglio, adesso. Ha avuto una crisi stanotte causata più dal tempo che da altro.

Ed egli si dispose subito ad andarsene, offeso, in fondo, ch’ella non lo invitasse a restare.

— Passavo, per andare al paese, — disse, per farle capire che non era lì per visita.

— Se le occorre qualche cosa — aggiunse bruscamente.

— Grazie, per oggi nulla. C’è già stata la donna, al paese. Abbiamo fatto venire anche un uomo, non perchè il malato sia grave, ma perchè si è così lontani, così isolati!

— E non lo aveva veduto prima? — egli brontolò, cercando dove uscire.

— Sì, ma il luogo è così bello! — ella disse, come per scusarsi, per ammansirlo.

— Vuol passare di qui?

Lo accompagnò fino all’ingresso, gli aprì la porta: ed egli salutò ad occhi bassi, poi se ne andò calcandosi forte il cappello sul capo e avviandosi al paese.


Solo dopo un tratto di strada ricordò che era uscito di casa con l’intenzione di tornarvi subito: tanto che aveva lasciato il cancello aperto.

Eppure non tornò.

La strada gli si svolgeva davanti come un largo nastro di colore carnicino, fra due bordi di cespugli verdi, sopra uno dei quali — quello a destra — scintillava l’azzurro del mare; ed egli aveva l’impressione che fosse quel nastro a trascinarlo, ritirandosi davanti a lui, tanto che non sentiva di camminare.

Arrivato allo svolto si guardò indietro: laggiù il gruppo d’alberi che circondava la casetta bianca, e questa, e la sua, della quale si vedeva il tetto ancora luccicante d’umido, apparivano come in un’isoletta circondata dal mare verde della brughiera.

Laggiù..... Sentì di arrossire, come se qualcuno l’avesse veduto a volgersi, e riprese a camminare con passo più pesante.

Ecco che si pentiva di non esser tornato a casa. E si domandava perchè si recava al paese dal momento che a lui quel giorno non occorreva nulla, e nessuno aveva bisogno dei suoi servizi. Perchè, Cristiano? Così, senza scopo, per bisogno di camminare, di spandere un’improvvisa quantità di vita che ti è cresciuta dentro. E tutto questo perchè? Perchè una donna è venuta ad abitare vicino a casa tua.

Alzò le spalle; ma non tornò indietro; così arrivò al paese.



La strada chiara e morbida, sempre della stessa larghezza e dello stesso colore, tagliava in due il piccolo paese e si slanciava oltre, fra la spiaggia e una distesa di campi coltivati. Graziosi villini bianchi, circondati di giardini tutti fioriti di oleandri, sorgevano in riva al mare, mentre il paese era tutto composto di povere casette grigie e rossastre a un sol piano, con le porte spalancate e in ogni porta un piccolo negozio. Il profumo del pane appena sfornato si mischiava all’odore delle alghe e del pesce fresco. Vecchi marinai, tozzi, bruciati, coi berretti messi alla sghimbescia, sedevano oziando sugli scalini delle rade porte chiuse: la camicia sporca aperta sul petto lasciava vedere il loro pelo grigio arricciato di veri lupi di mare: i pescatori, invece, sebbene vecchi anch’essi, lavoravano tutti, seduti per terra nella piazzetta che era semplicemente il crocevia fra la strada comunale e quella che conduceva al piccolo porto: accomodavano le reti, tenendole ferme col pollice del piede destro: di tanto in tanto dicevano qualche barzelletta, senza sollevare il capo, come parlassero all’ago di legno col quale lavoravano, cominciando le parole in fretta e terminandole con una cadenza lenta che svaniva armoniosamente nell’aria luminosa. Anche i gridi dei bambini di cui formicolavano le strade si sperdevano nel silenzio come gridi di uccelli.

Arrivato alla piazzetta Cristiano svoltò verso il mare. Di solito egli faceva le sue compere nelle piccole botteghe del paesetto: non sapeva perchè questa volta si dirigeva ad un negozio grande vicino al porto. La strada era deserta, col quadro del mare turchino solcato di alberi nudi e di vele appoggiato all’orizzonte.

Attraverso la porta spalancata del negozio s’intravedevano i barili d’aringhe coperti di veli rossi, e i vasi di confetti scintillanti sul banco pulito; ma quello che più attirava lo sguardo era un cartello bianco pendente sopra la porta, con la dicitura a grossi caratteri neri:


Si affittano e si vendono appartamenti e villini.


Com’egli si fermava a leggere attentamente il cartello, una vecchina che pareva di cera, con la testa avvolta in una sciarpa nera, uscì dal retrobottega, uscì sulla porta, uscì nella strada: e sebbene egli non le chiedesse nulla, cominciò a indicargli, di qua e di là, alcuni villini con le finestre chiuse.

— Tutti da affittarsi e da vendersi.

Egli continuava a fissare il cartello come leggendovi parole misteriose.

— Ecco perchè sei venuto fin qui. Cristiano: perchè ricordavi questo cartello e già pensi a cambiare di casa. Senti il pericolo. Ma qui, ad ogni modo, è troppo vicino.

— È troppo vicino, qui, vecchia.

— Dove lo vorrebbe, allora?

Egli fece un gesto vago con la mano, accennando lontano: ma una lontananza indefinita.

— Laggiù, verso i campi.... o più in là, Ma qualche cosa di piccolo, di solitario. Una casetta di contadini, laggiù.... il più lontano possibile.

E lasciò la vecchia in mezzo alla strada, a guardare in lontananza alla ricerca della casa che egli desiderava per sfuggire al suo pericolo.



Pericolo che ben presto si fece urgente, minaccioso.

Un pomeriggio caldo, quieto, di quelli che portano la noia e spingono la gente ad andare in cerca di svago, la vicina di casa andò a visitare il vicino.

Avesse almeno avuto bisogno di qualche cosa! No, andò da lui così, senza scusa, forse per sola curiosità o appunto per noia.

Era la prima donna, dopo la contadina, che penetrava nel recinto solitario, e nel farla entrare Cristiano prese l’espressione feroce di un eremita tentato nel suo rifugio.

Eppure la donna non aveva l’aria di volerlo sedurre. Semplicemente, senza guardare il luogo con troppa curiosità, andò fino al piccolo spiazzo davanti alla casa, e poichè c’era una scranna vi si sedette, con le braccia abbandonate sui fianchi. Aveva quasi l’aspetto affaticato di Ghiana quando arrivava nei giorni di gran caldo, e per la prima volta egli potè guardarla bene, forse perchè non doveva sollevare gli occhi: e pensò cosa poteva offrirle.

— Ma è bello, qui! — ella disse, tirandosi pesantemente le mani in grembo. — Beato, lei che sta così solo e tranquillo. Adesso capisco come possa starci: è un bel posto riparato, sicuro. E che belle pere che ci ha! Anche l’uva! Sa che una sera sono venuta fino al suo cancello, ho picchiato, ma poichè lei non apriva non ho avuto il coraggio d’insistere.

Egli la guardava e l’ascoltava con un senso di sollievo. No, non era una donna pericolosa, quella: i suoi capelli ondulati, lucidi e compatti come la scorza della castagna tenera davano dolcezza e confidenza a guardarli.

Ad ogni modo è bene tenersi in guardia. Cristiano: le apparenze ingannano.

— Ho sentito, sì: anzi ho aperto, ma non c’era più nessuno.

La donna lo guardò, di sotto in su, un po’ maliziosa, ma d’una malizia infantile. — Ma ha aperto davvero? Le assicuro che le prime sere, qui, avevo paura. E la serva più di me. Una solitudine così non 1a immaginavo: perchè infine la distanza dal paese, relativamente, non è molta. Quando si venne a vedere, con la carrozza del dottore, questo giugno scorso, mi parve d’arrivarci in pochi minuti: invece poi ci si trovò come nel centro di un deserto. Lei è qui da non molto tempo?

— Sì, — egli troncò con un accento che non ammetteva insistenza: poi domandò: — suo marito come sta?

Ella si drizzò sulla schiena come se qualcuno l’avesse toccata alle spalle; la domanda parve richiamarla al pensiero per un momento dimenticato; i suoi occhi e persino i suoi capelli apparvero più opachi.

— Va meglio: solo che alla notte dorme poco: dorme di giorno. Adesso appunto l’ho lasciato che dormiva. E lei, — domandò dopo un momento di silenzio, — va tutti i giorni in paese?

— Oh no! passano anche delle settimane. Ma perchè lasciarlo dormire di giorno?

La donna sollevò di nuovo gli occhi, un po’ stupiti: poi li riabbassò perchè lo sguardo di lui era ridiventato ostile.

Era come se entrambi, cercando di penetrare l’uno nella vita dell’altro, si pungessero. Ma d’un tratto, ella prese la risoluzione di svelarsi per la prima.

— Mio marito ha una forte nevrastenia, venuta così, non si sa perchè, neppure per eccesso di lavoro o di studio, nè di vita agitata: così, come vengono le altre malattie. Si faceva una vita quieta, agiata. Lui era medico condotto in un paese tranquillo. Anche mio padre è stato medico condotto, nello stesso paese, prima di lui, ma la sua vecchiaia fu serena, sana: si può dire ch’egli è morto scherzando: era un uomo semplice, gioviale, entusiasta, sebbene intelligente. Dico questo perchè adesso pare che l’intelligenza non debba essere che triste o cinica. Mio marito è anche lui intelligente, serio, un po’ chiuso; ma prima della malattia vedeva le cose giuste, chiare, e non si agitava per nulla. Poi d’un tratto fu preso da una melanconia senza ragione, da idee fisse, dall’insonnia, dal desiderio di non veder nessuno. Per questo siamo qui. Sulle prime si pensava d’andare in montagna; ma non è possibile stare così isolati, in montagna. Eppoi bisogna pensare all’inverno.

— Certo, — disse Cristiano con accento imbarazzato, — dicono che l’aria di mare non è buona per i nevrastenici.

— Ma, sa, dacchè siamo qui, invece, mio marito è calmo, tranquillo. Solo qualche rara crisi, quando il tempo è burrascoso. Del resto, è stato sempre calmo: non parla, non si agita, ma capisce tutto. Nei primi tempi della malattia lo portavo a passeggio con me: era tanto invecchiato che pareva mio padre, e quelli che c’incontravano ci guardavano con pietà: fu il primo lui ad accorgersene e non volle più uscire di casa.

I medici venuti a visitarlo mi ordinarono di condurlo fuori, di fargli cambiare ambiente. Avrei dovuto lasciarlo solo, perchè pare che la cura per queste malattie sia il far dimenticare al malato l’ambiente e le persone con le quali ha vissuto: come era possibile lasciarlo? Dove condurlo?

— In una casa di salute.

— Mai! — ella protestò con terrore, — piuttosto vederlo morire. E così venni anch’io. Non ho nessuno, al paese, e neppure la casa era nostra. Come potevo restare sola laggiù? Avevo già paura a restarci con lui. Paura, sì; in fondo, il paese dove si vive è come tutto una nostra casa, una nostra famiglia: tutti sanno i nostri affari, i nostri guai, le nostre debolezze: e il giudizio di chi ci conosce così bene ci dispiace perchè quasi sempre è giusto! Si è sotto tutela, sotto controllo: allora viene il bisogno di fuggire, di essere liberi. Liberi di soffrire, sopratutto, di abbandonarci al nostro dolore come ad un vizio, senza essere frenati neppure dalla pietà altrui.

— È vero, — egli disse, piano.

— Non ho parenti, laggiù, ma tutti si comportavano come vecchi parenti. Nei primi tempi, quando però già più non uscivamo di casa, tutti pretendevano di veder mio marito, e gli parlavano come ad un sano, ma rimproverandogli la sua malattia! Alcuni lo consultavano ancora come medico. E tutti si meravigliavano che non potesse curarsi da sè. Tutti pretendevano di darmi consigli. I monelli poi, stazionavano davanti alle nostre finestre aspettando di vederlo e di sentirlo gridare. Dio, Dio, l’ala del terrore mi sfiorava: mi pareva d’impazzire anch’io. Dovevo tener chiuse le finestre, per desiderio di lui, che si accorgeva di tutto: e ancora vuole così. Le donnicciuole lo dicevano ossesso: mille voci ridicole e atroci si spargevano: che egli s’era ammattito perchè aveva fatto morire uno per sbaglio; o perchè io minacciavo di abbandonarlo perchè vecchio, e che gli avevo rubati i denari da lui tenuti nascosti nel muro. Ma io l’annoio: scusi. Vuol farmi vedere il suo giardino?

Si alzò di scatto e scosse la testa come per mandar via l’ombra dei ricordi; poi si mise a camminare rapida attraverso il giardino. Tranne il vialetto centrale non c’era altro passaggio: si poteva andare qua e là sotto gli alberi e le pergole, sul terreno indurito ricoperto nei punti più ombrosi di musco giallino.

Cristiano accompagnava la donna in silenzio, più che mai imbarazzato: si cacciava di tanto in tanto le mani in tasca, cercando qualche cosa che non trovava, poi si fermava sotto qualche pianta e guardava in su, senza veder nulla: ella invece riconosceva ad una ad una le piante, delle quali diceva il nome toccandone il tronco, e strappando qualche foglia: ma le guardava con tristezza, come vecchie conoscenze che s’incontrano per caso e ci rammentano un tempo felice.

— Un tempo, — disse, ricadendo suo malgrado nei suoi ricordi, — gli alberi m’interessavano molto: vederli germogliare, fiorire, dar frutto, non è meraviglioso? E di autunno quando pare che arrossiscano o impallidiscano per la malattia che li consuma? C’era davanti alla mia finestra un platano che in novembre diventava così giallo e rosso che pure di sera pareva illuminato dal sole. Mi dava l’idea che fosse innamorato, di un amore senza speranza, che lo faceva morire ma in gioia.

— Letteratura! — pensò Cristiano, ma non osò dirlo: anche perchè, in fondo, il parlare della donna gli piaceva.

— Anche noi avevamo una vigna, — ella riprese sfiorando con la mano pallida la vite. — Grandi alberi la circondavano. La vite andava da un tronco all’altro con festoni pesanti che parevano archi scolpiti.

Sì, questa mi è dispiaciuto di lasciarla: ci ho passato la mia fanciullezza, son cresciuta con lei, può dirsi. L’aveva fatta piantare mio padre: da piccola passavo giornate intere arrampicata sugli alberi, a meravigliarmi del sole. Adesso la natura non m’interessa più. Quando ci si è ripiegati una volta a guardare dentro l’anima nostra, tutto quello che è esteriore non interessa più: tutto è scolorito e semplice in confronto a quello che avviene dentro di noi.

Si fermò sotto la robinia tonda in fondo al giardino appoggiando le spalle al tronco diritto e chinando un po’ la testa come intenta davvero a guardare qualche cosa che non era nè davanti nè intorno a lei: la sua figura chiara risaltava sullo sfondo scuro della siepe, con l’albero sopra come un grande ombrello di frangie verdi.

Cristiano la seguiva, con le mani in tasca, fermandosi se lei si fermava, ascoltandola in silenzio. A volte ghignava dentro di sè, per quello che lei diceva; a volte desiderava parlare e dirle parole di conforto.

Finalmente si fece coraggio.

— È che arriva un momento.... — disse, guardando anche lui per terra come per cercar di vedere quello che lei vedeva: — un momento in cui non c’interessano più neppure le cose nostre interiori.

— Questo no, questo no! Non può avvenire se non quando si ha già la morte dentro: quando si è molto vecchi.

— S’invecchia presto, quando si soffre; ci sono dei giorni che contano per diecine d’anni.

— È vero: ma è che ci sembra così non che lo sia realmente. Non si è vecchi finchè non si è vecchi davvero.

Egli continuava a guardare per terra ma si sentiva guardato e scrutato da lei: e pensava che se avesse sollevato gli occhi avrebbe veduto la sua anima stessa, come in uno specchio, negli occhi che lo fissavano.

— Del resto, — disse, scrollando le spalle, — tutti parliamo allo stesso modo, e crediamo di aver sofferto più degli altri, mentre il dolore è uguale per tutti, monotono come l’amore.

La donna non pretestò, ma non approvò: pareva ricaduta nei suoi pensieri e che davvero nulla delle cose esteriori, neppure le parole di lui, la interessassero. Ritornarono davanti alla casetta: rassicurato dall’indifferenza di lei, ma sopratutto dalla sua, egli la invitò ad entrare.

Ed ella entrò, senza diffidenza, anzi con una semplicità quasi ostentata, badando solo a carezzare il gatto che sonnecchiava sullo spigolo della tavola.

— Non si guarda attorno per non mortificarmi, — pensò Cristiano. Ma lui non si mortificava, no: non aveva vergogna della sua casa povera, lui: solo gli pareva che la donna osservasse con pietà il tappeto di tela cerata.

Ella, invece, gl’invidiava il gatto.

— Com’è bello! Sembra un ermellino: conforta il toccarlo! Da noi non è possibile tenere dei gatti perchè il cane li strozza tutti: non per crudeltà ma per gelosia. Ho provato a fargliene vedere uno appena nato, con gli occhi ancora chiusi: lo accolse più ferocemente degli altri.

— Ma si accomodi, signora....

Egli non sapeva ancora il nome di lei.

— Sarina, — ella disse con dolcezza: e sedette accanto alla tavola, con la mano sulla schiena inarcata del gatto, continuando a parlare del suo cane.



Tanto che, andata via lei, la cosa più inquietante parve a Cristiano il pericolo che correva il gatto: lo rassicurava il pensiero che il cane era legato; ed ecco invece qualche mattina dopo se lo vide ricomparire davanti: non in casa, però: adesso teneva il cancello sempre chiuso.

Aveva fatto un bagno in mare e stava sdraiato sulla sabbia, dietro una distesa di giunchi marini.

Oltre questa giuncaia che ondulava al vento lieve come un campo di grano, si vedeva, nero sull’orizzonte lilla, un gruppo di scogli; piccole onde spumose lo assalivano senza tregua, ma dolci e bianche come torme di conigli, introducendosi rapide in ogni fessura donde scappavano subito spaventate da qualche cosa che c’era là dentro; e incontrandosi con le onde venienti tentavano di farle tornare indietro, ma anche quelle proseguivano la corsa verso gli scogli, ripetendo lo stesso assalto, la stessa fuga. Era un gioco continuo, eguale, armonioso nel suo monotono movimento di scompiglio, e l’uomo provava piacere a guardarlo, affondato nella sabbia calda dove immergeva le mani con la sensazione di toccare qualche cosa di vivo come una carne così tenera che gli si scioglieva fra le dita.

Ad accrescere questo senso di serena voluttà il sole e l’aria gli penetravano in ogni poro, dandogli come un’ubriachezza d’etere; ma ecco il cane balzargli intorno e rompere quel velo di sogno.

Si sollevò spaventato; poi tosto si rimise giù col viso sulla sabbia e chiuse gli occhi come fanno i bambini per nascondersi. Avrebbe voluto seppellirsi vivo, piuttosto che farsi vedere così, nudo, dalla donna che si avanzava.

Si avanzava bianca fra l’oro e l’azzurro della spiaggia: ed egli aveva l’impressione che in breve gli sarebbe davanti alta fino al cielo, col suo cane feroce pronto a sbranarlo.

Il cuore gli batteva contro la sabbia, di collera, ma anche di un oscuro turbamento simile alla paura. Sentiva la voce della donna che pareva incitasse il cane alla corsa, alla caccia, ma sempre più lontana. Il brusìo fra i cespugli era cessato. Allora tornò a sollevarsi, cauto, e vide il cane che nuotava scuotendo la testa bagnata a fior d’acqua. La padrona, ferma sulla riva lo incitava ad allontanarsi, poi lo richiamava; finchè l’animale balzò, pesante e lucente d’acqua, sulla sabbia, ed ella si mise a correre per farlo correre: era agile come una bambina.

La speranza ch’ella se ne andasse esasperò nell’uomo il piacere di vederla: perchè, sì, Cristiano, è inutile negarlo, tu provi piacere a vederla, e la paura di essere veduto da lei altro non è che paura di farle cattiva impressione.

Ma ella non se ne andò: dopo le corse col cane finì col gettarsi anche lei sulla sabbia, con l’animale accanto, e parvero tutti e due assopirsi.

Per qualche tempo rimasero tutti così, immobili, smarriti nella luce, nella serenità della spiaggia; e a poco a poco Cristiano si calmò, chiuse gli occhi, tornò a immergere le mani nella rena.

A poco a poco.... Anche ad occhi chiusi vedeva la donna stesa sulla sua ombra nera, con le vesti abbaglianti che pareva si disfacessero nella luce.

A poco a poco.... Il cuore gli si chetava. Non tentò più di nascondersi. Ella non lo cercava, non lo vedeva: così vicina eppure così lontana, quieta come la luce del sole, come la nuvola bianca che fioriva sul confine del mare.

A poco a poco il sopore voluttuoso interrotto dall’arrivo del cane lo riprendeva: gli sembrava di dover stare tutta la vita così, sospeso fra il cielo e la terra, anche lui come la luce, come la nuvola. Il mondo era fatto di silenzio, di dolcezza, abitato solo da lui, dalla donna, dal cane.

Poi rabbrividì, d’un tremito caldo simile a quello che scuoteva i giunchi: rabbrividiva, eppure il suo sopore si faceva più profondo. Poi.... È un sogno, o davvero la donna si è alzata e si avvicina a lui, con le vesti ricamate dall’ombra dei giunchi?

Si avvicina, si piega, gli versa della sabbia addosso.... E la sabbia gli piove sopra come un’acqua tiepida, più dolce del calore del sole, dolce come la carne stessa della donna.

Si svegliò di soprassalto. Vide ch’ella s’era alzata davvero e si scoteva dalle vesti la sabbia luminosa: e chiuse di nuovo gli occhi, con la speranza che il sogno si avverasse.

Ma subito provò un senso di terrore, e il desiderio di urlare, di darsi dei pugni. No, no, no, egli non voleva ricadere nelle tristi illusioni che rodono inutilmente la vita.

Per fortuna la donna se ne andò, senza neppure vederlo: ed egli respirò, ritrovandosi solo; più solo che mai.



L’autunno cominciò precocemente, quell’anno: un settembre piovoso e freddo seguiva all’agosto torbido d’uragani. La vegetazione risentiva già la vecchiaia; ma nelle ore di sereno pareva si ribellasse a che tutto fosse finito; e si coloriva d’oro e di rosso, colori che all’occhio che guarda e non s’illude appaiono ben fittizi ed esteriori. Cade una foglia che pare tinta di sole, che nel cadere ha l’iridescenza d’una farfalla; ma appena giunta a terra si confonde con l’ombra, già morta.

È bastato il suo fruscìo per scuotere tutto l’albero, che comincia a lamentarsi. D’albero in albero il lamento si estende: tutto il frutteto è agitato, e sembra non sia il vento a scuoterlo, ma una forza interiore, un’angoscia mista a rivolta. Giù tutte le foglie! È inutile tenerle quando non sono più parte viva del ramo: e con le foglie cade anche qualche frutto: la pigna si spacca e i pignuoli le si staccano e cadono come i denti dalla bocca del vecchio. I rami più alti, con ancora le foglie verdi, si sbattono in una lotta leggera: alcuni dicono di sì, altri di no: e i primi si sbattono contro i secondi per spogliarsi più presto, flagellandoli con crudeltà, poi tutto di nuovo si placa, in una stanchezza dolce, rassegnata.

Ma quando il velo del crepuscolo ricopre ogni cosa, il lamento ricomincia, e dà l’impressione che davvero la natura sia malata e non possa sopportare oltre in silenzio il suo dolore.

Cristiano non era superstizioso: ma aveva delle fissazioni. Adesso è questa, che la quiete intorno sia sconvolta dalla presenza degli abitanti della casetta bianca. Mai l’autunno è stato così precoce e agitato. Certe sere anche lui si sente travolto da quella disperazione, tanto che ha bisogno di uscire, di aggirarsi nel suo frutteto e mescolare la sua all’inquietudine della natura. E trasalisce nel sentirsi toccato da una foglia che cade: si ferma accanto alla siepe e tende l’orecchio ai guaiti del cane; va verso il cancello sembrandogli che qualcuno sia là dietro e non osi picchiare per farsi aprire....

Gli altri anni non era così; nulla turbava la sua solitudine.

A volte provava un sordo rancore contro i suoi vicini: eppure in quelle interminabili sere un insolito bisogno di rivedere gente viva lo spingeva verso la casetta. Una sera di vento andò ad attingere l’acqua dal pozzo. Quando fu là stette a guardare le finestre chiuse, senza luce, ed ebbe ancora l’impressione che la casa fosse disabitata.

Il vento era così forte che gli sbatteva il secchio sulla gamba; e gli portò via il cappello che svolazzò, rotolò, andò a sbattersi misteriosamente contro la porta della casa.

Sì, qualche cosa di misterioso pareva constringesse anche lui ad andare fino a quella porta.

Il rumore per quanto lieve dei suoi passi destò l’abbaiare del cane: una finestra si socchiuse, una voce domandò chi c’era.

Egli dovette rispondere.

Gli aprì la donna grassa coi baffi, che chiuse subito la porta salutandolo famigliarmente.

— Non ha paura del buio e del vento lei! Entri, entri: la signora viene subito.



E di nuovo si sentì come stretto in una rete, nel salottino dove i mobili di giunco, il tavolino laccato, le tende sottili, avevano un tremolìo glaciale. Fuori il vento rombava come il mare in burrasca.

Cristiano pensava al fuoco lasciato acceso nel suo camino: si stava meglio a casa sua.

Ma ecco la signora Sarina, anche lei visibilmente contenta di vedere un essere vivente in quella solitudine. E gli porge la mano; e la sua mano è calda.

Questo contatto e il rosso vivo della giacca di lana ch’ella indossava, gli ridonarono un senso di calore, di luce.

— Com’è stato buono a venire! Ma andiamo di là: c’è il fuoco.

Sì, c’era il fuoco anche in quella casa che di fuori sembrava morta: un camino grande, in una stanzetta piccola: una lampada sopra una tavola come a casa sua: e sotto la lampada un libro aperto: come a casa sua.

Egli vedeva tutto rosso; e aveva troppo caldo, adesso; e paura del fuoco, della stanzetta troppo piccola e troppo chiusa, del camino troppo grande che incendiava tutta una parete.

— Non ho freddo, — disse bruscamente, tirandosi indietro verso l’uscio. — Ero venuto ad attingere acqua, e il vento mi ha portato il cappello fino alla sua porta. Non voglio disturbarla.

— Ma no, anzi mi fa piacere. Stavo qui a leggere. Adesso mio marito va meglio: è tranquillo. Col freddo sta sempre meglio.

Gl’indicò una sedia presso la tavola, e lo guardò un pò incuriosita un po’ mortificata per l’estrema timidezza di lui; ed egli capì ch’ella credeva una scusa quella del cappello.

— Bisogna che vada, è tardi.

— Va forse in paese? — ella domandò, burlandolo un poco.

Allora egli sedette, offeso e contento a un tempo.



Di che cosa avevano parlato, anzi discusso, quella sera, non sapeva bene, tornandosene a casa sua, nel vento, con la brocca e il secchio freddi dei quali s’era a un tratto ricordato come se lo aspettassero fuori soffrendo.

Di che cosa si può discutere in un deserto, quando due si conoscono appena?

Eppure egli aveva la testa confusa, e le mani e il viso così caldi che gli faceva piacere il vento e il freddo della brocca e del secchio.

Anche in un deserto, e fra due che non si conoscono si può parlare e discutere: del tempo, della guerra, di Dio, del bene e del male, di cose passate.

La donna non si faceva pregare, a raccontare le sue cose passate; anzi ne parlava troppo, evitando di parlare del presente e dell’avvenire.

L’avvenire! Ecco che egli, invece, rimessa l’acqua e coperto il fuoco, quando fu nel suo lettuccio freddo che d’un tratto si scaldò, cominciò a pensare all’avvenire. Che accadrà domani?

Si rivoltò sotto le coperte che gli pesavano e sorrise come aveva veduto sorridere Sarina (ecco ch’egli già la chiamava col suo solo nome....) quando si burlava un poco di lui. Anche lui si beffava di sè stesso. Che accadrà domani? Nulla che già non sia accaduto oggi. Cristiano: tu andrai ancora fuori di casa in compagnia dei tuoi sogni, e te ne tornerai in compagnia del vento....



Il giorno dopo ecco infatti Ghiana. Non si beffava di lui, però: anzi aveva un viso scuro, più stanco e sofferente del solito: e qualche cosa di freddo e di ostile negli occhi.

Ed egli provò un sentimento nuovo, verso di lei: come un senso di paura, ma anche di speranza ch’ella lo aiutasse, con la sua gelosia, col suo controllo, a salvarsi dal pericolo dell’altra. Tentò anche di scherzare.

— Non ha mandato più quattrini, tuo marito, che sei così seria?

— Mio marito sarà qui a giorni. Ha scritto che partiva una settimana dopo che scriveva: la lettera è arrivata ieri. — Cara moglie, dice, preparami un corpetto di lana perchè qui mi sono abituato al caldo; e qui fa caldo anche d’inverno. — I denari li porta lui, sì, — aggiunse, triste, contando le uova dentro il paniere che aveva deposto sulla tavola. — Mi dispiace, — ripetè sollevando gli occhi a spiarlo in viso, — di non poter più venire quaggiù. Ma adesso non c’è più bisogno di me. Di là c’è l’uomo che bada al malato e la serva può andare al paese sempre che vuole, per le provviste. Così può farle anche per voi.

— Io non ho bisogno di nessuno! Tu potevi non venire anche oggi.

Ghiana parve subito pentita di averlo irritato: lentamente staccò le mani dal paniere ed esitando le mise sulle spalle di lui: e lo guardava, lo guardava, ma spaurita, tutta tremante per il timore di venir respinta. — Lo so, sì, che andate là.... di notte.... e state a conversare con la signora. Il cane vi conosce, adesso: anche del cane siete amico.... E prima gridavate: se vengono dei vicini voglio andarmene!

— Ma che t’importa? — egli le urlò sul viso, afferrandola per i polsi. La sua collera diede coraggio alla donna.

— Voi siete padrone di andare dove volete.... ma era meglio non andare. Era meglio non venissero. Un pazzo non è un buon vicino.... e voi.... e voi, se volete rivendere la casa, dunque adesso i denari ci sono. La vecchia compra anche il mobilio, se volete; le dissi ch’è tanto bello, con quest’armadio, questo tappeto.

— Questo tappeto se ti piace te lo regalo: ecco, prendilo, ma fammi il piacere di lasciarmi in pace. O sei gelosa, forse?

La lasciò per sollevare la lampada e ripiegare il tappeto, ma non finì di toglierlo perchè Ghiana lo teneva fermo con le sue mani tremanti.

Col viso pallido sollevato, gli occhi supplichevoli e nemici ad un tempo, anche lei si mise a gridare.

— E se fossi gelosa? Non ne ho il diritto? Sono venuta per paga, forse?

— Ma che ti passa in mente? — egli disse esasperato. — Nulla, mi passa in mente, ma ho dispiacere, sì, che andiate là. Io, per me, non voglio nulla: vi ho mai domandato nulla, io? Mi avete dato un anello, eccolo, — disse traendolo di saccoccia, — ed io l’ho preso come segno di fede. Eccolo.

Lo depose sulla tavola e riprese:

— Se voi mi aveste detto: Ghiana, vieni con me in capo al mondo a farmi la serva, sarei venuta a occhi chiusi. Solo per farvi la serva, senza pretendere nulla.

Egli rimetteva il tappeto pensando che dopo tutto voleva toglierlo perchè sperava in un’altra visita e già aveva il desiderio di aggiustare con più gusto la sua povera casa.

— Ghiana, — disse con voce pacata, — riprendi quell’anello e lasciami in pace. Lo so che sei una buona figliuola ed io ti sono riconoscente di tutto. Mi hai curato, mi hai cercato tu sola quando ero abbandonato anche da Dio. Tu puoi venire qui sempre che vuoi; io posso arrabbiarmi, a volte, ed anche maltrattarti, ma in fondo ti voglio bene. Se tu fossi stata libera.... forse.... Ma non sei libera. E sai, anche, lo sai bene, che se io sono qui è perchè voglio vivere tranquillo.

— Lo so, sì, — ella mormorò con un soffio che lo fece trasalire. La guardò con un rapido corrugare della fronte, ma non volle neppure approfondire il suo sospetto. No, ella non poteva conoscere il suo passato.

— Riprendi quell’anello e vattene. Oh, che fai adesso?

Gli sembrava che Ghiana piangesse; ma ella non faceva altro che ritirare piano piano l’anello senza guardarlo, con la testa china sul petto.

E non se ne andava.

Allora egli ebbe l’impressione di qualche cosa di oscuro, di minaccioso; il dolore di lei era troppo duro per essere causato dalla sola gelosia: che c’era d’altro, dunque?

— Che c’è d’altro. Ghiana?

— C’è altro, — ella disse, senza sollevare la testa. — Il vecchio sospetta; è lui che non vuole che io torni più qui: forse la vecchia vorrebbe; basta che io venda bene la roba: ma lui no. Gli uomini sanno bene le cose meglio delle donne.

— Che può sapere il vecchio?

— È che.... è che — ella disse, indietreggiando di qualche passo e piegandosi davanti a lui come paurosa ch’egli, sentite le sue parole, la percuotesse; — mi sembra di essere incinta.

Allora anche lui diede un passo indietro, annaspando l’aria e chinandosi in avanti quasi dovesse cadere.



Di nuovo tentò d’isolarsi, più completamente ancora, se era possibile. La notizia che Ghiana gli aveva dato lo esasperava; pensava che poteva essere falsa, o che la contadina, per gelosia o per semplice astuzia, gli attribuisse una paternità non sua: ma in fondo la coscienza non lo illudeva: no, la notizia era vera, ed egli si domandava come doveva fare.

Ghiana se n’era andata senza dirgli altro, senza farsi più vedere: e tutto questo lo rendeva ancora più inquieto e perplesso.

Ecco che ricominciavano i guai della vita, le cose orribili e vili, le menzogne per le quali s’era allontanato dalla comunità degli uomini. La vita lo perseguitava fino al limite della terra.

Aspettò il ritorno di Ghiana con una certa paura nervosa: egli non voleva sottrarsi alla sua responsabilità, ma non sapeva come, e voleva che la donna stessa glielo suggerisse: era abbastanza furba per non pensar lei al come: ma quello che più lo pungeva era l’accorgersi quanto una cosa così grande, che appassionatamente altre volte lo aveva interessato, lo irritava, adesso, lo avviliva.

Temeva anche l’arrivo del marito di Ghiana; Dio sa che cosa poteva succedere: anche una tragedia. Ma passarono tre giorni, passò una settimana: nessuno veniva; e anche lui non andò più dai suoi vicini. Il rancore contro l’umanità intera lo riprendeva.

La mancanza delle cose necessarie che Ghiana usava portargli aumentava la sua tristezza; doveva recarsi più spesso in paese, per provvedersi di tutto; e un giorno s’accorse che la sua vicina di casa lo spiava dalla finestra: allora fece un lungo giro per non passare più davanti al prato.

Anche per l’acqua preferiva camminare, e andava a prenderla ad una sorgente lontana piuttosto che lasciarsi vedere al pozzo.

Intanto sopravveniva davvero l’autunno con gl’interminabili giorni di pioggia: il giardino era tutto coperto di foglie fracide, invaso di ranocchi che si confondevano con quelle: la sabbia sembrava tabacco; il vento urlava di continuo, mostri, elefanti, grandi uccelli sinistri, cavalli selvaggi di nuvole si affacciavano incessantemente alla siepe.

Caduta la sera egli si chiudeva in casa, accendeva la lampada e leggeva i giornali vecchi d’una settimana, e anche dentro le pagine stampate non c’erano che rombi di morte, bagliori di sangue: notizie d’odio: nel mondo regnava il dolore.

Cosa che non gli accadeva da anni, sentiva desiderio di piangere. Analizzava questo desiderio, pensava che era effetto di debolezza, perchè da vari giorni si nutriva male, e derideva sè stesso. Mangiar bene, bisogna, Cristiano, e tener solido il corpo, del quale l’anima non è che una miserabile serva. Ma con tutto questo il desiderio di piangere non cessava. E pensava a Ghiana, così umile e remissiva, e gli pareva di volerle bene: forse perchè non era più tornata.

Ma poichè aveva bisogno di essere sempre irritato, la sua irritazione adesso si ritorceva contro la sua vicina di casa. Ecco che da giorni e giorni ella non lo vedeva, e non si curava neppure di mandare a prender notizie di lui. Poteva essere malato, poteva morire: nessuno se ne dava pensiero.

Un desiderio puerile di ammalarsi davvero, di morire abbandonato lo prese. A che continuare così, oramai? La prova di vivere solo era fallita: in fondo all’anima sentiva che aveva nuovamente bisogno di compagnia, di amore: era vivo ancora: e la solitudine è morte.

E ricominciò ad aspettare Ghiana, col proposito di andare a cercarla, lui, se non tornava; solo lo tratteneva la paura di nuocerle destando maggiormente i sospetti dei parenti di lei.

Ed ecco una sera, sul tardi, gli sembrò che qualcuno lo chiamasse, di là dalla siepe: il vento rompeva la voce sconosciuta e pareva ne spandesse i brani nell’aria. Ed era solo il suo nome, che la voce ripeteva: Cristiano: ma era pronunziato stranamente, quel nome: Cristiano: era pronunziato da una persona che lo conosceva solo per averlo sentito da altri. Cristiano: ecco la terza volta che lo chiama: è proprio il suo nome.

Sentì una vaga paura. Non era superstizioso, ma la voce gli sembrava non umana.

Pensò ai parenti della contadina, al marito, che doveva essere tornato dall’Australia.

— Cristiano?

Non voleva aver paura: quindi uscì.

Era una notte di nuvole gialle, di vento tiepido: cadevano le ultime foglie, le più pesanti, volteggiando nell’aria come pipistrelli.

Appena uscito lui la voce era cessata. S’avvicinò alla siepe, verso il punto donde gli pareva ch’essa venisse, e domandò chi c’era. Nessuna risposta: ma si sentì distintamente un fruscìo che non era causato dal vento; un fruscìo come di una bestia agile che si sollevava di tra i cespugli e fuggiva rapidamente.

E subito dopo risonarono i latrati del cane: e altre voci, ma lontane: infine egli distinse quella di Sarina che chiamava gridando:

— Giorgio, Giorgio? Dove sei? — Il gride ansioso riempiva di terrore la notte.

Di corsa egli uscì dal suo giardino, attraversò il sentiero, fu nel prato: il cuore gli diceva già quello che doveva essere accaduto; e quando nella penombra giallastra vide alcune figure nere correre qua e là, come fantasmi erranti nel vento, cercando qualche cosa che non trovavano, anche lui si mise a cercare, riavvicinandosi alla sua siepe.

Una delle figure aveva in mano una lanterna e ne rivolgeva qua e là il raggio, correndo appunto lungo la siepe: ma non rischiarava che i rovi, i cespugli, le pietre.

— Signora, signora! — gridò Cristiano, per avvertire la sua presenza.

Allora dei gridi s’incrociarono in aria, mentre anche le foglie secche correvano sull’erba del prato come prese dall’angoscia comune.

La voce di Sarina diceva: — È uscito di casa mio marito. È scappato. Lo cerchiamo.

— Il pozzo? Hanno guardato nel pozzo?

— Abbiamo guardato; non c’è.

— Ho sentito chiamare, poco fa.

— Chiamare? Come?

— Chiamarmi, dietro la siepe.

— Dove? Dove?

La donna gli correva incontro, con le vesti e i capelli che si sbattevano spauriti al vento, mentre la serva gridava:

— Io credo sia andato verso il mare: ho veduto una forma bianca correre nel sentiero....

— E il cane? Perchè non slegano il cane?

— No, no, lo potrebbe spaventare.

L’abbaiare del cane, che copriva ogni altro rumore, era già per sè stesso troppo sinistro.

— Franco, malanno a voi, perchè non andate verso il mare? — ripeteva la serva correndo dietro l’uomo della lanterna.

Ma l’uomo della lanterna si ostinava a cercare silenzioso lungo la siepe, esplorando ogni cespuglio: e invece di andare verso il mare si dirigeva verso la brughiera.

— Sì, — disse Cristiano alla donna, che gli si era quasi aggrappata addosso con disperazione convulsa, — ho proprio sentito chiamarmi, col mio nome. Corro, domando chi è, ma sento solo un fruscìo.... un passo che fugge. Qui, all’angolo della siepe: credo anch’io sia nascosto fra i cespugli. Io le consiglierei di sciogliere il cane.

Andarono a sciogliere il cane, ed ella si chinò ad accarezzarlo sulla testa, dicendogli qualche cosa sottovoce. Il cane tremava tutto; si rizzò, come volesse abbracciarla, le leccò le mani; poi si slanciò silenziosamente verso il mare.

La voce di lei risonò di nuovo, con desolazione, e tutti corsero di qua e di là come folletti nella notte pallida angosciosa.

A frammenti ella raccontava come il malato era fuggito: lo raccontava a Cristiano, ma pareva lo gridasse alle cose intorno, e il rumore del vento e delle onde, a misura che si avvicinavano al mare, accompagnava la sua voce.

— Lo avevo lasciato assopito. L’uomo, che dorme nella stessa camera, preparava il suo letto. Ed io ero così sicura di lui! Un uomo serio, già quasi vecchio, con moglie e figli. Mi pareva così affezionato e fidato.... Ma da qualche giorno osservavo che stava troppo volentieri in compagnia della mia donna.... Io stavo già a letto quando m’è parso di sentire la porta ad aprirsi....

Sto un momento in ascolto: silenzio: poi il cane urla. Allora corro a vedere e trovo il letto di Giorgio vuoto, la porta giù aperta.... Solo alle mie grida l’uomo vien fuori dalla cucina dove era andato a trovare la donna.

Di tanto in tanto s’interrompeva per ripetere il suo grido angoscioso.

— Giorgio? Giorgio?

Il vento le portava via le parole di bocca e pareva giocasse con loro.

Quando furono giunti in fondo al sentiero ella non esitò a slanciarsi attraverso l’arenile, verso il grigiore agitato delle onde.

— Guai, guai, se non lo ritroviamo — gridava; — mi butto anch’io in mare.

Cristiano si affrettò a raggiungerla, per impedirle di eseguire il funesto proposito; ma ella gli sfuggiva davanti con una velocità fantastica tanto che a lui pareva di sognare, di impazzire anche lui.

Sentiva la sabbia cedere sotto i suoi piedi, mentre il vento lo investiva con ondate di umidità pungente: e aveva l’impressione di essere già entrato in acqua per seguire la figura della donna nuotante nell’ombra grigia davanti a lui.

D’un tratto come un muro li fermò: prima lei, poi lui: il mare.

E il mugolìo delle onde pareva irridere cupamente la loro angoscia, il loro vano esplorare, quando di lontano arrivò, col vento, una parola di conforto.

— Signora! Signora!

— È la voce dell’infermiere. Deve aver trovato. Anche il cane è tornato verso casa, — ella disse, tornando indietro con una corsa così rapida che Cristiano si sentì sfiorare dalla sua veste come da un’ala.

Il cane venne loro incontro, leccò di nuovo la mano di lei, poi si rimise a correre precedendoli verso un gruppo strano formato dall’uomo con la lanterna che ne trascinava un altro vestito di bianco, esile e piccolo come un ragazzo.

Il chiarore della lanterna faceva loro strada, sull’erba grigia del prato.

Di volo la donna fu presso i due uomini; prese il braccio del marito sotto il suo e gli accarezzò la mano, timidamente, mormorandogli qualche parola con voce dolce come si rivolgesse a un sonnambulo e avesse paura di svegliarlo.

— Ma perchè hai fatto così, Giorgio? Che pena ci hai dato!

L’uomo aveva davvero l’aspetto d’un sonnambulo, con la sua veste da notte, gli occhi chiusi, il viso bianco e duro come di marmo: solo i denti gli tremavano, sotto le labbra strette.

Cristiano si mise a fianco della donna, offrendo silenziosamente il suo aiuto; ma ella lo respinse con la mano, accennandogli di stare indietro; ed egli si ritrasse, mortificato. Poi, quando furono rientrati nella casetta, e gli altri salivano lentamente le scale, rimase nell’ingresso, domandandosi che cosa doveva fare.

Chiuse la porta, cambiò di posto alla lanterna che la serva aveva tolto di mano all’infermiere e lasciato sul gradino della scala; infine si fece coraggio e salì anche lui, in punta di piedi, senza però avanzare dal pianerottolo.

Gli pareva di essere un intruso, un curioso che stesse lì a spiare i fatti dei vicini senza interessarsene gran che.

Attraverso gli usci aperti vedeva le camere illuminate, coi letti disfatti e le coperte per terra; in quella a destra, la più ampia, le due donne e l’infermiere s’affaccendavano per rimettere a letto l’ammalato. Prima di fuggire, l’infelice aveva avuto tempo di mettersi le scarpe: segno che era stato a lungo solo: e la moglie adesso gliele toglieva, frenando il suo tremito di sdegno contro l’infermiere. Ma gli occhi le lucevano e una espressione di grande energia le induriva il mento.

Quando il malato fu disteso sul letto, e ricoperto bene, ella introdusse la mano fra le lenzuola, gli toccò i piedi e disse alla serva;

— È tutto gelato: bisogna scaldare l’acqua e mettergli delle bottiglie attorno al corpo.

La serva andò subito giù: passando accanto a Cristiano gli disse sottovoce:

— Entri: ho paura che la signora faccia qualche sciocchezza.

Egli s’avanzò fino all’uscio: vide infatti Sarina che si agitava per rimettere in ordine la camera e guardava con sdegno l’infermiere che preparava qualche cosa entro una tazza sopra il cassettone: nel vederlo ella parve ricordarsi di lui e provar sollievo per la sua presenza.

— Ma perchè non entra? — gli disse. — Anzi, se non le dispiace, la prego di stare un momento qui. Si metta a sedere; qui, sull’ottomana. E voi. Franco, venite giù con me: ho da parlarvi.

Cristiano obbedì, silenzioso; e subito vide l’infermiere voltarsi tutto d’un pezzo, pallido e duro in viso, con l’aria di voler discutere: ma la donna era già sul pianerottolo, e faceva segno di seguirla, di non parlare per non turbare il malato. L’uomo esitò un momento, poi la seguì scuotendo la testa e roteando gli occhi con uno sguardo sprezzante e minaccioso. Allora Cristiano si guardò attorno. Dopo tanta inquietudine gli veniva quasi da ridere: ancora una volta pensava ai giochi strani della vita. Ecco che non solo egli è stato ammesso nella camera misteriosa, ma è incaricato di farci la guardia. A dire il vero la camera misteriosa è come tante altre camere comuni, con le pareti rivestite di una carta e striscioline bianche e argentee, con quell’ottomana turchina trasformabile in letto, col cassettone ricoperto di una tovaglia e sopra una fila di boccettine piene a metà di medicine scure.

Solo la finestra senza tende ha qualche cosa d’insolito, con due anelli di ferro agli stipiti e una catena per traverso fermata da un lucchetto: chiusura più solida dell’inferriata d’un carcere, e che tuttavia non ha impedito la fuga del malato. Giochi della vita!

D’altronde il fuggitivo se ne sta adesso di nuovo nel suo letto, coperto fino alla testa, e non si muove; pare dorma tranquillo, già dimentico della sua avventura.

Cristiano non sa staccare gli occhi da quel corpo inerte, così esile che si delinea appena sotto la coperta, e a poco a poco lo vince il desiderio di andare a vederlo più da vicino, di scoprirgli il viso, di domandare se è stato proprio lui a chiamarlo, di là dalla siepe, e come ha fatto a sapere il suo nome.

Ma rientrava la serva ed egli non si mosse.

La donna s’inginocchiò davanti al letto, per collocare meglio ai piedi e ai fianchi del padrone le bottiglie dell’acqua calda: poi sollevò un po’ le coperte per guardarlo, cautamente, con tenerezza, come si guarda un bambino che dorme: infine lo ricoprì bene e baciò la coperta sul punto dove c’era la mano di lui.

Quando si alzò aveva gli occhi brillanti di lagrime: e incerta, turbata, andò a sedersi sull’ottomana, all’angolo opposto ove stava Cristiano.

— Lo manda via.... — mormorò, sporgendosi un poco verso di lui. — L’ha chiamato giù per non farsi sentire: è irremovibile. È fatta così: buona, ma dura con chi manca al proprio dovere....

Incoraggiata dal silenzio di Cristiano gli si accostò per proseguire le sue confidenze.

— La colpa non è mia, veh! Lei stessa dice che la colpa è sua, perchè non è stata attenta: e dice che d’ora in avanti dormirà lei, qui, per vegliare meglio il padrone.

Cristiano la guardava e taceva: vedeva i grossi piedi di lei, le grosse gambe corte disegnate dalla stoffa della gonna stretta, le mani rosse posate sul ventre rotondo e avrebbe voluto scostarsi, ma il ferro dell’ottomana glielo impediva.

Ella aspettò invano qualche parola di lui; poi sospirò e riprese, come per conto suo:

— Buona, ma non perdona. Non ne fa lei, di mancanze, ma non vuole ne facciano gli altri. Del resto il padrone non è alla sua prima scappata. Ha sempre tentato di fuggire. Nei primi giorni della malattia lo si trovò in casa del vignaiuolo, a capo fitto dentro un tino ove s’era gettato credendolo un pozzo.

Cristiano pareva non avesse piacere di ricevere le confidenze della serva.

— Non le farà del male, quell’uomo, alla vostra signora? Mi sembra di sentir gridare, — disse sottovoce, per interromperla.

— No, non le farà nulla. È un idiota e se ne andrà magari subito. E vedrà che resteremo sole di nuovo, in questa tebaide: la signora non prenderà più un uomo in casa. E le giuro che io non ne ho colpa. È quell’idiota sfiatato, che veniva in cucina. La solitudine!... — aggiunse, con un breve sommesso riso che tremolò nel silenzio come un barlume di luce. — Sì ha bisogno di parlare, finchè si è vivi: e qui finiremo col parlare alle nostre ombre sui muri. Oh, del resto, per me non importa: mi dispiace per la signora che finirà con l’ammalarsi anche lei. — Siete da molto al loro servizio? — egli domandò finalmente.

E come la donna rispondeva: — da quasi quarant’anni: — si volse bruscamente a guardarla, così fiorente e fresca com’essa era ancora; ed ella sorrise lusingata, rispondendo prontamente allo sguardo di lui con uno sguardo pieno d’offerta.

— Proprio così! Sono entrata al loro servizio da bambina, per guardare o meglio per togliere le mosche dalla zana della sorellina lattante del dottore: di questo, — precisò, accennando al malato, — non del padre della signora. Erano dodici figli, Dio li salvi, tutti vivi: dieci femmine e due maschi: tutti piccoli, si può dire davvero, delle dieci femmine, come le dieci dita delle mani. Eppure i genitori ne erano contenti, felici: il padre li voleva tutti a tavola, quando tornava dal campo, — era un contadino come noi, — e guai se la moglie si lamentava. Non voleva sentir lamenti, lui. Anche la moglie, del resto, era contenta: la domenica si portava in chiesa le dieci bambine vestite di bianco: sembrava una processione di comunicande: tutte belle come colombe. Ma lei era stecchita, succhiata da tutta quella figliolanza; e morì presto, di una malattia. Dio salvi, quasi simile a questa del padrone: insomma vaneggiava come fosse vecchia di cento anni. Dei due ragazzi uno ha studiato, ed è questo: per molto tempo fece il medico condotto al nostro paese, ma poi gli prese la smania di cambiare. Aveva questionato col fratello e i cognati e non voleva più vivere con loro. Quando si trattò di partire mi disse: vuoi venire con me? — E andiamo, dico io. E con lui sono sempre stata, anche dopo che s’è sposato. Ma non era uomo da sposarsi, lui, era un uomo da lasciarlo solo nella sua camera, coi suoi libri, senz’altri pensieri. Invece gli toccava, per guadagnare quattrini, di alzarsi la notte, anche d’inverno, e andare lontano, nei cascinali, nelle stalle. No, non amava la gente: eppure se qualcuno moriva si dava tanto scrupolo: per paura di non averlo saputo curare. Era già anziano quando sposò la signorina — proseguì la serva, accorgendosi che adesso l’uomo l’ascoltava volentieri. — La signorina abitava col padre in una casa che il Comune dà al medico condotto. Ci abitavano da molti anni: era diventata come di loro proprietà: ci avevano messo dei mobili di famiglia. Morto il vecchio dottore, e venuti noi nel paese, la signorina avrebbe dovuto andarsene, lasciar la casa, il giardino, un campo che avevano comprato accanto. Il mio padrone ed io, nei primi tempi, si andò ad abitare in due stanzette d’affitto: la signorina cercava un’altra casa, per portar via i mobili: ma non trovava: era così angustiata! Si ammalò, anche, e il mio padrone la curò. Mi ricordo che tornava sospirando e mi diceva: forse è bene che la sposi: così non la caccio via di casa. Così fece. Figli non ne ha avuto; quasi per castigo di quelli molti dei genitori. Era contento di non averne, — riprese dopo un momento di silenzio durante il quale tanto lei che Cristiano stettero in ascolto, preoccupati sebbene giù non si sentisse più a parlare. — Mi diceva che ancora sognava di trovarsi in casa dei genitori, fra la baraonda di tante creature piccole, delle quali sempre ce n’era qualcuna malata. Non amava il chiasso, no; e nessuno ne faceva, adesso, in casa. Eppure s’è ammalato lo stesso: e tutto quel che Dio vuole.

Cristiano guardava sempre verso il malato: gli pareva fosse già morto. E non era come di un morto che la serva ne parlava? D’improvviso ella tacque, restringendosi nell’angolo dell’ottomana e piegandosi col viso fra le mani quasi volesse nascondersi. L’uscio s’era aperto, per lasciar passare la signora, seguita dall’infermiere: l’uomo aveva un’aria accigliata e cupa, ma non disse parola, limitandosi a cercare qua e là le sue robe e a misura che le trovava gettandosele sulla spalle e sul braccio: qualche oggetto gli cadeva per terra ed egli si chinava a raccoglierlo: solo allora sbuffava, ridestando un senso d’inquietudine in Cristiano. Inquietudine che non cessò quando l’uomo uscì di nuovo e ridiscese nel piano di sotto, sempre seguito e sorvegliato dalla signora, che pareva lo dominasse e lo facesse agire come una domatrice di belve: con una calma e una fermezza sotto le quali traspariva una trepidazione angosciosa.

— Se ne va, — mormorò la serva.

Allora Cristiano non potè tenersi oltre: uscì nel pianerottolo e si protese sulla ringhiera della scala, pronto a difendere Sarina se ce ne fosse di bisogno.

Fuori risonava cupo il vento.

Giù nell’ingresso la lanterna spandeva un cerchio di chiarore azzurrognolo. Per qualche momento egli ebbe l’impressione di essere affacciato ad un pozzo: e il silenzio, nell’interno della casa, accresceva la sua inquietudine, fino a renderla angoscia.

Il cuore gli cominciò a battere, come per spavento. Eppure sentiva che tutto questo era esagerato, che nessun pericolo grave minacciava nè la donna nè altri. Ma era come si trovasse davanti a un mistero. Finalmente vide Sarina risalire, sola, e piano piano si ritrasse, riprese il suo posto. Ma, non sapeva perchè, non era più l’uomo di prima.



— Se ne vuole andar via subito, — ella disse sottovoce, dopo aver guardato il malato sempre immobile sotto la coperta. — Naturalmente io l’ho congedato, non scacciato: gli dissi che poteva stare qui fino a domani, ma vuole andarsene subito: meglio.

Sedette sull’ottomana, fra Cristiano e la serva; e come questa accennò ad alzarsi la tenne ferma, anzi parve aggrapparsi a lei in cerca di sostegno.

— No, no, non ti muovere....

E Cristiano pensò ch’ella doveva sentirsi ben sola e debole se faceva così. E la sua tristezza aumentava.

Stettero qualche momento in silenzio, ascoltando. L’uscio era aperto: adesso si sentiva distintamente l’uomo camminare nelle stanze di sotto e nell’ingresso: finalmente aprì la porta e mise fuori qualche cosa.

— Potrei dirgli di dormire a casa mia, — mormorò Cristiano.

— No, no, la prego, non si muova! — supplicò Sarina: e tese il braccio avanti a lui, per impedirgli di alzarsi. Egli la vedeva vibrare tutta, adesso, con un’agitazione resa più intensa dal silenzio ch’ella s’imponeva: e sentiva desiderio di prendere quella mano che gli tremava davanti come una foglia bianca.

Quel tremolìo gli faceva male; gli si rifletteva dentro il cuore.

Ecco dunque anche il suo cuore feroce intenerirsi, aver quasi paura. Paura non più di un mistero; o di un mistero, sì, ma tanto chiaro.



D’un tratto Sarina abbandonò pesantemente la mano sul grembo e sospirò di sollievo.

L’uomo giù se n’era andato, chiudendo forte la porta.

Allora Cristiano vide una cosa strana.

Il malato metteva la testa fuor delle lenzuola: una testa che sembrava di gesso, coi capelli bianchi rasi e il profilo angolare del contadino: e per qualche momento stette tranquillo, con gli occhi chiusi; ma d’improvviso li spalancò, grandi, azzurri, appannati, senza sguardo; come occhi finti: poi mise un piede fuori della coperta, un piede piccolo, bianco magro come una mano, ma energico, pronto alla fuga. E tutto il suo corpo s’inarcò. Tentava di alzarsi; pareva avesse aspettato pazientemente quel momento, per muoversi, per cercare di fuggire ancora; adesso che l’infermiere non poteva più fermarlo.

D’un balzo le donne gli furono sopra, lo costrinsero a stendersi, gli rimboccarono le coperte: ed egli obbedì, docile; ma Sarina non si fidava e mentre la serva andava giù a riempire d’acqua calda le bottiglie, ella sedette accanto al letto, appoggiandosi tutta sul malato e parlandogli con parole infantili come si fa coi bambini per tenerli buoni.

Egli sembrava tornato buono, fermo, con gli occhi chiusi: ma dal suo posto Cristiano vide una cosa che lo impressionò più di tutte le altre vedute quella sera: il malato tentava di mordere la mano che lo accarezzava. E pareva volesse farlo di nascosto, che gli altri non se ne accorgessero: ed era una specie di rivolta, muta, impotente; un rosicchiare di prigioniero alle sbarre del carcere.

Allora Cristiano si accorse di un’altra cosa, più grave ancora. Che soffriva. Il dolore, l’inquietudine, la paura, tutti i sentimenti che fino a quel momento aveva provato, sì, ma come a galla, adesso gli calavano in fondo all’anima: e soffriva, adesso, come se il dolore e il disordine che lo circondavano fossero d'un tratto divenuti suoi.



E a poco a poco egli sentì la sua vita riempirsi di quel dolore, di quel disordine: come se il vento che era quella notte entrato nella sua casa lasciata aperta vi avesse scompigliato ogni cosa ed egli non riuscisse a rimettere l’ordine di prima.

Cominciò a trascurare davvero la sua casa e le sue faccende: la mattina si attardava a letto, si nascondeva con la testa sotto il guanciale per non vedere il filo di luce del finestrino, e così tentare di dimenticare che fuori faceva freddo, che se si alzava doveva uscire e andare a prendere notizie dei suoi vicini.

No, egli non voleva più pensare a loro, più pensare a lei: ed ecco che lei, invece, gli stava accanto, era dentro il suo letto, era dentro di lui....

Allora balzava dal letto, andava qua e là seminudo prendendosi un bagno di freddo per stordirsi: finiva col vestirsi, uscire, andare a chiedere notizie dei vicini. Il timore che il malato fuggisse ancora lo inquietava di continuo: il malato invece era caduto in una depressione profonda e non poteva più neppure sollevarsi dal letto.

Ad ogni modo, perchè Sarina non restasse sola in casa, egli s’incaricò di andare al paese per le provviste e per avvertire il dottore dell’aggravarsi del malato.

Ecco che torna, col suo carico di pacchetti e una borsa con dentro una bottiglia di latte: torna come un servo sollecito, lungo la strada tante volte percorsa con più calma ma anche con più pesantezza.

In fondo non si dimenticava mai: si vedeva sempre, come se il terreno fosse uno specchio e la sua ombra la sua immagine: e a momenti gli sembrava di essere grottesco e ridicolo, a momenti assottigliato e abbellito da questa sua ripresa di vita, di amore al prossimo. Aveva persino dimenticato la sua inquietudine per Ghiana, e non desiderava più il ritorno di lei. Adesso era la serva dei vicini a fargli dei servizi: o meglio se li rendevano scambievolmente.

Infatti, mentr’egli ritorna dal paese con le provviste, ella attinge vigorosamente l’acqua dal pozzo, anche per la brocca di lui.

E lo accoglie con un sorriso giovanile, mostrandogli da lontano i bei denti intatti sotto il labbro rosso coronato di peli, cercando di non farsi scorgere dalla padrona che sta dietro la finestra nella camera del malato.

L’uomo si turba, abbassa gli occhi: non per il sorriso della serva, ma perchè s’illude che la padrona, dietro la finestra, stia a spiare il suo ritorno.

Ella infatti gli corse incontro fino all’ingresso e lo pregò di salire con lei.

— Guardi, — disse, scoprendo il malato che, al suo solito, si teneva nascosto sotto la coperta. — D’un tratto è diventato così.

Il malato sembrava un altro, tutto gonfio, col viso rosso e come d’improvviso comicamente ingrassato. Sarina gli premè un dito sulla mano, e sulla carne rimase un buco violastro: poi ella strinse fra le sue quella mano grossa, d’una grossezza molle, come piena d’acqua.

— Giorgio! Giorgio!

Il malato tentò di sollevare le palpebre gonfie: apparvero e disparvero gli occhi azzurri, spauriti, ma d’un terrore cosciente e rassegnato: e Cristiano ricordò di aver sentito dire che i pazzi quando stanno per morire riacquistano la ragione.

Subito però si disilluse: il malato tentava ancora di morsecchiare la mano che gli sfiorava il viso: e parole incomprensibili gli uscivano di bocca, con un mugolìo stanco di protesta e di minaccia: pareva chiedesse di lasciarlo morire solo, in pace, al buio; e che gli desse noia quel piegarsi della donna su lui, quell’essere guardato così con spavento, e sopra tutto quel modo di chiamarlo come dal fondo di un abisso.

— Giorgio? Giorgio?

Così forse la donna lo chiamava nei giorni felici, per svegliarlo dal sonno; e dal riposo ributtarlo nella fatica: o nei giorni di dolore e di malinteso, per richiamarlo dall’ombra che già li separava.

Finalmente egli riuscì a ricoprirsi, a nascondersi di nuovo.

Allora ella si sollevò, con gli occhi lucenti di disperazione: e rivide lì accanto Cristiano. Lo guardò, un attimo, come cercando di riconoscerlo, di ricordarsi chi era.

Era un uomo vivente. E da tanto tempo ella viveva con un morto.

Gli tese quindi la mano, come chiedendogli di trarla fuori da quel cerchio di morte: ed egli esitò, quasi avesse paura, di esserci trascinato lui, in quell’ombra; poi prese la mano e la strinse lievemente, con diffidenza apparente. Ma nel profondo dell’anima tremava tutto di gioia, perchè era la mano della donna che traeva lui dal suo cerchio di morte.



Furono giorni in cui il fiore dell’umanità parve risbocciare in lui come l’ultima rosa in un rosaio già morto.

Egli diffidava: diffidava della donna, ma sopratutto di sè stesso, e s’irrigidiva ogni giorno di più nel proposito di non lasciarsi tentare: ma sentiva che se aveva pietà del malato era per pietà di lei, così sola, così ansiosa di paura e di speranza — che il marito morisse o guarisse: — e andava e veniva continuamente, dalla sua alla casetta bianca, e da questa al paese, per comprare medicine e viveri, per chiamare il dottore, per aiutare la serva nelle più umili faccende.

E la serva almeno la ricompensava con sorrisi promettenti, mentre la padrona, dopo quel primo slancio di confidenza, si ritraeva anch’essa chiusa nella sua pena.

Egli la trovava sempre seduta accanto al moribondo, nella camera buia, intenta a spiarne il corpo gonfio e immobile, chinandosi ogni tanto a dirgli qualche cosa, ma così piano, così piano, quasi avesse timore di svegliarlo. Pareva un po’ malata di mente anche lei.

Una mattina Cristiano le domandò perchè almeno non apriva la finestra.

— C’è un bel sole che consola i morti. Mi permette di aprire?

— No, no, — ella disse fermandolo per la mano. Ed egli sentì che la mano di lei era fredda, dimagrita: eppure quel contatto lo scosse tutto, con un brivido che parve illuminarvi il sangue.

Non era amore, nè desiderio; ma qualche cosa di più profondo: un senso di tenerezza, di protezione, verso la creatura sola in combattimento col mostro della follia e della morte.

Spalancò la finestra con violenza, e nella luce improvvisa vide che Sarina si era come rimpicciolita, invecchiata, coi capelli in disordine, opachi intorno al viso pallido.

E poichè s’era alzata e tentava di chiudere la finestra, egli a sua volta la fermò.

— Senta, faccia piuttosto una cosa: vada un poco giù, a far due passi: starò io, qui.

Ella si sporse sul davanzale, facendogli cenno di affacciarsi anche lui.

— Ma non capisce che può alzarsi e buttarsi giù? — mormorò con voce irritata.

— Ma che alzarsi! Se non può più muoversi. Se.... — egli disse, senza osare di esprimere tutto il suo pensiero: gli sembrava che il malato avesse già preso la posizione dei moribondi, supino, gonfio sotto le coperte, col viso che neppure tentava più di nascondere simile ad una maschera di cera segnato di viola alle palpebre e alle narici, e la barba cresciuta sulle guancie come un musco grigiastro.

— Eppure anche stanotte ha tentato di alzarsi, — ella riprese sottovoce. — Sembra assopito, morto, ma appena si accorge di non essere sorvegliato tenta di alzarsi, di fuggire. E sente tutto, ascolta tutto, capisce tutto. Si ricorda che l’ha chiamato col suo nome, dietro la sua siepe? Ebbene, deve avermi sentito parlare di lei, con la donna, e sapeva chi lei fosse. Son certa che adesso ci ascolta e ci sente. Sono malattie in cui non è vero che la coscienza si spegne: rimane come sepolta sotto il cumulo di macerie dell’organismo distrutto, ma è viva, è vigile, e vede forse più che la coscienza nostra di sani. Vede e giudica tutto attraverso le sue tenebre, come i morti dall’al di là. Per questo, — aggiunse, volgendo il viso verso il viso di Cristiano, gli occhi del quale la fissavano con pietà e curiosità e anche con ansia e con quel misterioso senso di terrore che destano appunto i malati dei quali ella parlava, — per questo non l’ho mai abbandonato, nè ho permesso di chiuderlo. Che orrore, se lei sapesse, quelle case di salute! Si trattano ancora i pazzi come ossessi: invece sono, ripeto, più vicini di noi alla verità. Se desiderano di morire.... perchè non lasciarli morire? Tante volte ho avuto l’idea di ucciderlo e di uccidermi, — mormorò chinando il viso fin sulla pietra del davanzale; — uccidermi per sfuggire alle conseguenze del mio delitto, non per altro. Perchè io amo la vita: lei non può sapere come e quanto! Non mi guardi così, spaventato. Non mi creda pazza. Ma sono tanto stanca.

— Lei ha bisogno di uscire, — disse Cristiano. — E piegò anche lui la testa e si battè la fronte con la mano aperta. — Andiamo un po’ fuori, signora Sarina; andiamo al paese, andiamo almeno fino al mare....

Ella non diceva di no, ma restava immobile, piegata: finchè egli vide cadere sul davanzale grosse lagrime che brillavano al sole. Cadevano lente, dense, dalle dita di lei, come fossero le perle dei suoi anelli a staccarsi; ed egli le guardava stupito: pareva non avesse veduto mai lagrime.

— Coraggio, — mormorò, — tutto passerà....

Poi sentì un velo sugli occhi, ma si vergognò di piangere anche lui.



Infine riuscì a convincerla di andare un po’ fuori. Fu chiusa e sbarrata la finestra, e la serva giurò sui suoi morti che durante l’assenza della signora non si sarebbe mossa dalla camera del malato.

Fu anche sciolto il cane, che s’era immelanconito e invecchiato come la padrona; e per un tratto di strada insistè nel seguirla, sbadigliando di noia, finchè lei non si piegò e gli prese la testa fra le mani parlandogli sottovoce:

— No, no, tu starai di guardia davanti alla porta. Se la donna ti dice di venirmi a chiamare verrai; se no, no. Su, buono!

Lo prese per il collare e lo ricondusse fino alla porta: ed esso guaiva e cercava di leccarle la mano, ma appena lei si allontanò di nuovo per raggiungere Cristiano, tentò ancora di seguirla, incerto, però, come se non sapesse qual era il suo dovere, se fare la guardia alla casa o fare la guardia alla padrona: infine, ad un cenno energico di lei, tornò sulla porta e vi si accucciò.



Ella raggiunse Cristiano nel sentiero. D’un tratto era ridiventata lieve, colorita, come se l’aria pura di quella bella giornata cristallina avesse dissipato l’incubo che la perseguitava.

— Dio, Dio, vien voglia di correre, — disse respirando forte.

Ma l’uomo camminava grave, pensieroso, e, lui che pure l’aveva convinta ad uscire per toglierla dalla sua allucinazione, parve volesse richiamarvela.

— Sì, — brontolò scuotendo la testa bassa, — non è la prima lei a dire che bisognerebbe far morire i malati così. Liberarsene; liberare i viventi dal peso inutile dei già morti. E poi? La vita passa lo stesso, e la morte arriva per tutti ed eguaglia tutte le cose.

— Ma appunto perchè la vita passa presto, e la morte è la cosa più certa, perchè non tentiamo di liberarci dal dolore con tutti i mezzi che possediamo?

— Troppo ci sarebbe da discutere, e troppi lo han fatto prima di noi, e inutilmente. Il dolore! Ma se io uccido un uomo sia pure perchè malato di una malattia inguaribile, non proverò più dolore e noia di quanto ne provo nell’assisterlo per qualche anno o per qualche mese?

— Pochi anni, pochi mesi, quando si è giovani, contano per una eternità: una volta perduti, buttati al dolore, non tornano più. Eppoi, io intendevo dire questo: che bisognerebbe uccidere i malati inguaribili per alleviare la loro pena: liberar noi, ma liberare anche loro.

— La libertà? Esiste? Sappiamo noi se dopo morti saremo liberi? Anche in vita abbiamo l’illusione di trovar libertà. Dove è? Si rompe tutto intorno a noi, si corre, si fugge, si ricade sempre nella rete che mescola gli uomini e li avvinghia gli uni agli altri solo perchè sono uomini. Lei uccide un malato; ne trova subito un altro. Siamo tutti malati, tutti schiavi gli uni degli altri.

— Eppure lei.... — cominciò la donna, ma non osò proseguire: no, era vano tentare di parlar di lui.

Infatti egli intese, e non parlò più.

Arrivarono fino alla spiaggia. Tutto era puro, d’una purezza fredda, quasi dura. Il mondo pareva appena creato, tutto nuovo, col cielo senza una nuvola, la rena senza un’orma, il mare lucido e fermo come stupito della sua bellezza.

La donna andò fino a toccare l’acqua col piede: era di nuovo preoccupata, ma non della sua solita preoccupazione.

D’improvviso tornò indietro, passo passo, fino al sentiero; arrivata al cancelletto socchiuso di Cristiano si fermò di botto, aspettò ch’egli la raggiungesse e gli domandò se non sapeva più nulla di Ghiana.

Egli brontolò qualche cosa, ed ella non insistè per avere una risposta più chiara.

Con una mano fra i rami del cancello guardava verso la casetta e pareva aspettasse che Cristiano la invitasse ad entrare.

Ed egli la invitò. Perchè non doveva farlo?

Gli sembrava di sentirsi puro e freddo, accanto a lei, sebbene pieno di quel senso di pietà e di tenerezza che ella sempre più gl’inspirava.

Ed ecco che appena furono dentro, la donna gli rivolse uno sguardo del quale ella stessa parve sentire la gravità perchè tosto lo deviò, senza mutarlo, rivolgendolo alle cose intorno.

Era uno sguardo di pietà.

Allora egli guardò la sua casa come un estraneo e ne sentì tutto l’abbandono e il freddo. C’era anche un insolito disordine, e poca pulizia. Foglie secche umide annidate qua e là negli angoli ricordavano l’autunno e parevano ranocchi. Il gatto col pelo spruzzato di cenere sonnecchiava accanto al camino spento: all’entrare del padrone aprì solo un occhio e lo richiuse subito.

Anche fuori, il giardino con gli alberi nudi, la siepe nera e i cespugli di rosmarino negli angoli d’ombra coperti di musco, sotto quel cielo che d’un tratto appariva d’un azzurro desolato, dava l’idea d’un cimitero campestre.

Pareva d’essere al confine deserto del mondo, in una povera capanna di gente esiliata.

Neppure la presenza di Sarina vi spandeva calore: tanto che Cristiano si mise quasi istintivamente a riaccendere il fuoco.

Mentre stava curvo sul focolare sentì la voce di lei che gli chiedeva qualche cosa, ma di lontano: sollevò gli occhi e vide ch’ella era penetrata nella cameretta attigua. La sua voce era esile, curiosa e un po’ infantile.

— E quando sarà vecchio, vivrà ancora qui, così?

Egli non rispose subito, attardandosi a disporre meglio i tizzi intorno alla fiamma.

— Come, così? — domandò.

— Così.... solo: così, come.... un contadino. Egli vedeva la fiamma rosea agitarsi davanti a lui come una mano; le dita ardenti gli facevano cenni misteriosi, scrivevano parole folli sullo sfondo nero del camino.

— Cristiano, la donna è là e ti chiama. Per pietà, per desiderio, per curiosità o per amore? Per tutto questo, e perchè siete soli nella solitudine. Va, va: è la vita stessa che ti richiama: non è più la voce della contadina interessata e animalesca: è la voce di una donna intelligente, che domani sarà libera.... Puoi ritornare ad amare, ad essere amato: puoi crearti di nuovo una famiglia.... Puoi ritornare uomo. Va, va, che fai? Puoi fare di meglio che accendere un fascio di fuscelli: puoi riaccendere il fuoco dell’anima tua. Va!

Egli non andò.

Sollevandosi vide la donna che s’era seduta sul lettuccio e sfogliava il libro da lui lasciato sul tavolino accanto: e sentì un grande calore al viso, al petto, come se la fiamma del camino gli fosse saltata addosso e lo spingesse a correre; ma non andò.

Sedette affranto davanti al camino e guardò fuori, quel cielo freddo che gli sembrò quasi bianco; poi si passò una mano sul viso per scacciar via l’ombra rossa della tentazione. — Venga qui, — disse. — Ecco il fuoco.

Ella s’alzò subito, ripose il libro, rientrò, ma non s’accostò al camino.

— È tardi: bisogna andare.

— Ma no, aspetti! Devo rispondere alla sua domanda, potrei dirle che son già vecchio, ma non lo dico perchè in fondo non è la verità. Riguardo al resto, può darsi che resti tutta la vita qui, può darsi che me ne vada, secondo! Ma contadino lo sarò sempre.

Allora lei si mise a ridere, come nessuno mai in quella casa aveva riso. Ma dopo, la sua voce risonò un po’ stridente d’ironia, eppure dolce, turbata.

— Che, si è forse offeso?

— Ma no! Sono proprio un contadino: questo volevo dirle. Sono nato nella città, è vero, in una di quelle terribili case allineate, numerate, elencate come i loculi dei cimiteri dove i cittadini vengono deposti per continuare anche dopo morti le loro abitudini di ordine, di pulizia, di strettezza. E non le dico che mi dispiacesse la vita così: cioè non mi dispiaceva e non mi piaceva: l’accettavo, e mi pareva che la gente di campagna o anche di provincia non fosse per questo più felice o infelice della gente di città. Tutto andò bene finchè vissi con la mamma, soli noi due in un appartamento al quarto piano. La mamma faceva tutto da sè: ed io l’aiutavo; così ho imparato tante cose che adesso mi giovano. Siamo stati molto felici, io e la mamma, allegri come uccelli. Mi faceva dormire con lei; o meglio ero io che volevo dormire con lei, ancora attaccato alle sue viscere, ancora un’anima sola in due corpi. Certo, dopo l’adolescenza ho sognato di spiccare il volo di lassù, dalle finestre del quarto piano: e l’ho spiccato. Ho sposato una donna ricca: ma i guai sono incominciati allora. Troppa gente intorno; ed io mi accorsi che non ero più libero, non perchè avevo moglie ma perchè avevo dei servi. Ero troppo abituato a far tutto da me: questo dava ai nervi a mia moglie. Di lì cominciarono i dissapori. Anche lei mi disse un giorno ch’ero un contadino: e mi offesi, allora, non perchè la cosa sia offensiva in sè stessa, ma perchè mia moglie l’aveva detta precisamente per offendermi. Adesso, detta da lei, signora Sarina, mi piace. Sì, sono un contadino, se per contadino s’intende un uomo che non ha bisogno che della terra per tenersi in piedi, ma padrone lui della terra.

La voce della donna domandò, un po’ vaga, sorvolando le considerazioni di lui.

— E sua moglie, adesso?

— È morta. — E la sua mamma?

— È viva. Sì, — egli riprese, con lo stesso tono di lei, cioè sorvolando su quelle ultime battute e riprendendo il tema di prima, ma con più vivacità, e non senza ironia verso sè stesso, — sono proprio un contadino, ma fino a un certo punto. Il giardino è mal coltivato, per esempio, però sono resistente a tutte le fatiche; non ha veduto come spezzo bene le legna? Anche ieri mattina presto, mentre lei stava ancora a letto, ne ho spezzato un bel mucchio per la sua serva.

Rispose la voce della donna, riprendendo il motivo lasciato poco prima da lui, come in una musica nella quale cambia solo il suono degli strumenti:

— Sì, ho sentito. Nel dormiveglia mi pareva di essere ancora a casa nostra, laggiù, e che il bifolco spaccasse le legna nel cortile. Come mi piaceva sonnecchiare, la mattina, e ascoltare i rumori intorno, e vedere le cose attraverso un velo di sogno! Tutto è bello, quando si è giovani: anche le cose più insignificanti, al ricordarle ci turbano. Perchè? Non lo so: ma appunto tutte le mattine ricordo quel picchiettìo di scure sul legno secco; mi pare di vedere il vecchio bifolco chino ad ammucchiare i rami neri coperti di musco grigio, sul selciato umido del cortile sporco di scheggie simili a pezzetti di carne salata. Sento ancora il rumore speciale del portone che s’apre, il tonfo della secchia nel pozzo, la serva che macina il caffè.... Parlo di quando ero molto giovane. E il ricordo di queste voci, di questi suoni, mi dà un senso di gioia come se la giornata che s’apre sia ancora per me una di quelle. Che poi non erano giornate felici: ma erano piene di speranza e di sogni di felicità. Io sognavo la città, si capisce! Tutte le ragazze intelligenti che vivono nei paesi sognano la città. Io ancora la sogno, perchè non la conosco. Solo una volta, da bambina, sono stata in una città di mare: ricordo che al primo vedere il mare, che era appena increspato, il movimento delle onde mi sembrò prodotto dall’agitarsi dei pesci! Non dimenticherò mai quel momento di meraviglia e di gioia: ne rido, eppure ho l’impressione che la cosa fosse vera. E tutta la città mi sembrò bella, coi suoi tetti di ardesia, umidi, lucenti: mi pareva una città dissepolta dal mare, ancora ricoperta di uno strato d’azzurro. Ma non era possibile vivere in città: mio padre amava il paese, la campagna, i malati poveri. E così io mi contentavo di sognare: sogni che non si sono avverati, ma così belli per sè stessi che il loro solo ricordo fa gioire.

Cristiano s’era voltato un poco per ascoltarla meglio. La vedeva appoggiata con la schiena alla tavola, col viso sollevato verso il finestrino: per la luce chiara e fredda che l’illuminava di faccia appariva pallida, d’un pallore lucido, eguale, che le affinava i lineamenti e le ridonava una bellezza di adolescente.

— Lei è giovane ancora, e spera e sogna ancora. È per questo che i ricordi le sembrano belli.

— Oh, non dica così! Mi sento così vecchia. In che cosa devo sperare?

— In tutto! Resterà libera, amerà ancora, sarà riamata, potrà crearsi di nuovo una famiglia: può ritornare donna.... voglio dire, avrà da far meglio che stare a vegliare un marito così.... come il suo: può rivivere, insomma: può riaccendere il fuoco dell’anima sua.

D’un tratto tacque e tornò a rivolgersi verso il fuoco. Ecco ch’egli parlava alla donna come la fiamma a lui: e piano piano la donna gli si accostava, come la farfalla al lume.

Ecco, se la sentiva alle spalle, di nuovo alta sopra di lui; ebbe l’impressione ch’ella gli tendesse la mano sul capo, aspettando solo un’altra parola per accarezzarlo. Una parola sola, e la vita rianimava la solitudine intorno, il deserto si copriva di fiori: ritornava ancora, per loro che ne erano esiliati, il regno di Dio sulla terra.

Ma egli non disse questa parola: ombre rosse e ombre nere lo travolsero per un attimo, come onde delle quali una lo attirava nell’abisso, l’altra lo spingeva in alto, verso la riva.

Tornò a volgersi, rivide il cielo pallido e sospirò.

— Il suo cane abbaia, — disse.

E subito sentì la donna sollevarsi, rigida, richiamata alla realtà.



Quando lei se ne fu andata gli sembrò di sentirsi contento.

Non per aver vinto la tentazione di rientrare nella vita e ricacciarsi nei soliti guai, ma per essersi convinto che aveva la forza di tanto.

In fondo non s’illudeva. Se aveva respinto o creduto di respingere la donna, era anche perchè sentiva per lei una certa amicizia.

Amicizia che copre l’amore come la veste il corpo nudo. A poco a poco, dunque, la sua contentezza disparve, il fuoco si spense, nuvole bianche chiusero il vano del finestrino.

Ecco che il tempo riprendeva la sua corsa nella solitudine, senza scosse, in silenzio.

— Gioia! — egli brontolò. — Noi ti rinneghiamo e ti disprezziamo come la volpe l’uva. Ti sei tanto negata, tanto invano abbiamo tentato di prenderti che abbiamo finito con l’odiarti: e adesso, a lungo andare, se ti offri non ti accettiamo, non perchè non crediamo in te ma perchè non abbiamo più la capacità di prenderti.

Poi tentò di fare le solite faccende, ma ogni tanto sollevava il viso a guardare le nuvole come il contadino preoccupato del tempo.

— Bisogna stare a casa. Cristiano: se tu te ne stavi a casa tua facevi molto bene.

E nello spezzare le legna e prepararsi il desinare gli sembrava di aver sempre alle spalle la donna vestita di rosso che parlava con la sua dolce voce di violino. Andò anche a sedersi sul lettuccio, dove s’era seduta lei, e prese il libro.

Ma d’un tratto gli parve di non saper più leggere: o almeno, le parole scritte non avevano più significato per lui. Depose il libro, come lo aveva deposto lei alla sua chiamata, e passò la mano sul cercine tiepido del gatto arrotolato in fondo al lettuccio. Ma anche il gatto oramai era talmente abituato all’indifferenza di lui che neppure si mosse. Ed egli rimase lì, tutto il resto del pomeriggio, a guardare la finestra chiusa dalle nuvole bianche come da una lapide mortuaria.



Tre giorni stette senza tornare nella casetta bianca.

La decisione di diradare, se non cessare del tutto le visite, non era però calma e dura come erano sempre le sue decisioni. Brontolava:

— Forse se non vai è peggio, Cristiano. Ma perchè non dovresti andarci? Se tu fossi indifferente, come t’illudi d’esserlo, non esiteresti così.

Ad accrescere la sua nervosità scoppiò di nuovo un temporale che durò tre giorni. La pioggia era così furiosa e abbondante che pareva davvero si fossero aperte le cateratte del cielo; e il rombo del tuono non cessava mai: e in quel caos lo splendore urlante della folgore si avvicendava con l’oscurità più nera, come se il giorno e la notte si fossero di nuovo biblicamente mescolati in una vibrazione continua di luce e di tenebre.

L’uomo vibrava con gli elementi. Lo agitavano i ricordi del passato, le incertezze per l’avvenire, un rabbioso pentimento non sapeva se di essersi lasciato sfuggire la donna o di non averla trattata con più freddezza; ma sopratutto la constatazione ormai sicura che i progetti fatti nel cercare la solitudine erano stati vani.

E questa solitudine adesso gli pesava: gli pareva che le cose intorno lo deridessero con le loro pupille misteriose; e anche il loro contatto era freddo.

Non lo volevano più, le sue piccole cose intorno: ed egli pensò di andarsene.

Appena il mal tempo cessava, si sarebbe mosso in cerca di una nuova abitazione: ma il mal tempo non cessava, ed egli ricominciò ad impensierirsi per i suoi vicini. Forse il malato si agitava, forse l’acqua inondava la casa. E le due donne erano sole, contro il male di dentro e di fuori. Ma queste sono scuse. Cristiano: scuse verso te stesso che hai bisogno di tornare.

Di notte tendeva l’orecchio: gli pareva di sentire dietro la siepe la voce strana del malato che lo chiamava: o la donna che scuoteva la porta in cerca di aiuto.

Sapeva d’illudersi, eppure tendeva l’orecchio. E perchè la sua illusione non poteva essere realtà? Egli sogghignava e palpitava, nel suo lettuccio, mentre gli oggetti intorno apparivano e sparivano alla luce dei lampi. Niente era vero: non esisteva, di vero, che il suo sogno.

— Dio, Dio, — gemeva, cacciando la testa sotto il guanciale e chiudendo forte gli occhi, — potessi credere e amare ancora! Così non posso vivere più, come il peso sulla bilancia vuota.

E in fondo si rallegrava, per questo suo ritorno a Dio.

— Fatemi amare ancora, poichè la vita è amore, e senza amore è morte. Non importa che io sia amato, o che sia amato e tradito: importa che io ami, che il mio dolore non sia più sterile e vuoto.

Da tre giorni continuava la tempesta. Egli mancava di pane, e pensava che di là dovevano mancare di tutto.

Quando apriva la porta la pioggia lo ricacciava dentro: e più che la pioggia la paura di andare nella casetta. Ma sentiva che più tardava ad andare peggio era: peggio o meglio?

La terza sera la tempesta raddoppiò di furore: il mugolìo dei tuoni, del vento, del mare si confondeva in un unico rombo incessante; e i lampi erano pallidi, quasi facessero fatica a rompere le tenebre e a combattere col vento.

Cristiano sperava che la tempesta come di solito cessasse dopo il terzo giorno: al quarto, infatti, vi furono delle soste, ma dopo quelle la pioggia e il vento ricominciavano con più furore; e pareva cessassero solo per riprendere più forza.

Una intera settimana passò così: negli ultimi giorni il vento soffiava da tutte le parti e faceva penetrare l’acqua dalla porta e dalle finestre. Anche il tetto sgocciolava, e Cristiano dovette adoperare tutti i suoi recipienti per raccogliere l’acqua.

— Così almeno non vado al pozzo, — diceva beffandosi di sè stesso.

Un’umidità intensa inzuppava tutta la casa: le legna non s’accendevano; le provviste erano finite: e anche lui si sentiva tutto fracido, fuori e dentro, di una tristezza fredda disperata.

Gli pareva di essere solo nel mondo sommerso dal diluvio. Ben ti sta, Cristiano; così hai voluto e così sia.



Non sentiva più neppure il cane dei vicini abbaiare; forse anch’essi avevano abbandonato la casetta. Con questo timore e questa speranza si fece coraggio: mise il cappotto e uscì.

L’uragano aveva sgangherato la siepe e ridotto a ruscello il sentiero: in fondo a questo, sotto il cielo d’un nero verdastro s’intravedeva come una torma di cani e di cavalli terrei accapigliati: il mare.

Dalla parte opposta il cielo s’era un po’ schiarito: e sopra la casetta bianca, sullo stelo del comignolo, si spandeva un grande fiore di fumo azzurrognolo. E Cristiano provò un senso di gioia al guardarlo.

Gente viva, dunque, stava ancora lì accanto; e fra questa gente era la donna che gli riaccendeva la lampada della speranza nel cuore.

Allora gli sembrò di essere davvero scampato dal diluvio, e che Dio avesse sentito la sua preghiera: e andò verso la casa dei vivi con un senso di religione.

Quando battè alla porta era già tutto zuppo di pioggia; eppure sudava e le palme gli pulsavano come dopo una corsa sotto il sole d’estate.



Aprì la serva. Aveva il viso insolitamente pallido e spaurito; e guardò l’uomo corrucciata. — Finalmente! Si poteva morire qui, e si stava freschi aspettando l’aiuto dei buoni vicini.

— Posso dire altrettanto io, — egli brontolò, con un piede sulla soglia, senza osar di entrare. — Sono stato malato.

— Sì, è dimagrito, infatti: e con tutti quei peli sul viso sembra un lupo uscito dalla tana. Ma perchè non entra?

Egli entrò con l’esitante timidezza delle prime volte; e invece di salire al piano di sopra andò in cucina e sedette in un angolo, come un servo.

— Come stanno? — domandò sottovoce.

— Il padrone pare stia un po’ meglio. Si è un po’ sgonfiato; ma, dice il dottore, ha la nefrite e il pericolo non è scongiurato. Se il male gli arriva al cuore può morire.

Cristiano sospirò, col viso scuro di barba fra le mani umide: pareva non avesse ascoltato le parole della serva perchè domandò:

— Il dottore è venuto?

— È venuto, le dico! Se non era lui come si faceva? Vedendoci così sole e disperate ha mandato un uomo per le provviste. Ma lui stesso ha consigliato la signora a non stare più qui, in questa tebaide, e appena il tempo si rimette cercheremo di andar via: è proprio da pazzi, star qui. — Da pazzi, sì. Anch’io ho pensato di andarmene.

Dopo, non parlò più: e, neppure dava ascolto alla serva che continuava a chiacchierare preparando qualche cosa davanti ai fornelli: solo tendeva l’orecchio con la speranza di sentire un passo nell’interno della casa.

L’interno della casa era silenzioso, di un silenzio fatto più intenso dal rumore della pioggia e del vento di fuori.

Dunque, se ne andavano. Dunque, egli poteva restare. Perchè aveva detto il contrario? Doveva, voleva restare. Ricadrebbe nella solitudine: gli parrebbe di aver sognato. Non desiderava più neppure di rivederla: poichè doveva partire per sempre, perchè rivederla per qualche attimo? Solo desiderava fare qualche cosa per convincerla della sua devozione, del suo rispetto ch’ella non credesse di essere stata respinta per indifferenza.

Domandò:

— Non c’è nulla da fare? Se avete bisogno di qualche cosa posso andare al paese.

— Bisogno ci sarebbe, sì! Manchiamo di tante cose: ma come vuole andare, con questo tempo?

Egli si alzò; ma la serva lo guardò beffarda: — Ma è pazzo anche lei? Dove vuole andare, malconcio com’è? piuttosto, se ne ha la forza, mi spacchi un po’ di legna.

Ed egli uscì subito sotto la tettoia che riparava la porta della cucina, prese la scure e si piegò su un grosso ceppo che la serva aveva trascinato fin là. Gli sembrava di ricordare una musica: «mi par di essere ancora a casa mia, laggiù e che il bifolco spacchi la legna nel cortile....» e batteva forte con tutte e due le mani la scure sul ceppo che teneva fermo contro il muro, con la speranza che ella nel sentire il rumore scendesse e lo vedesse così, umiliato al suo servizio.

Ma ella non scendeva: forse neppure sentiva il rumore: o forse lo sentiva e non scendeva lo stesso. Meglio o peggio? Si sollevò e si asciugò il sudore, pensando che era ben ridicolo ad abbandonarsi così alle sue fantasie: ma quando la serva lo pregò di andar su dalla signora, egli andò su con un tremito alle ginocchia: tremito, del resto, causato anche dallo sforzo di aver spaccato il ceppo, ma ch’egli aveva piacere di credere tutto effetto della sua passione.



L’uscio della camera del malato era chiuso: un barlume grigio scendeva dal lucernaio battuto dalla pioggia. Cristiano non osava picchiare, e stava lì, ansioso, come un ladro: eppure provava una gioia dolorosa al pensare ch’ella era là, dietro quell’uscio che bastava spingere per vederla: e piuttosto che tornare alla sua solitudine, alla desolazione di quei giorni passati, avrebbe preferito vivere sempre così, dietro la parete della stanza ov’ella respirava.

Infine ella dovette accorgersi che qualcuno era nel pianerottolo perchè aprì l’uscio e guardò. Anche lei era spaurita dalla solitudine; ma nel vedere Cristiano si oscurò maggiormente in viso.

— Sono venuto per salutarla, — egli disse umilmente, col cappello fra le mani come usano portarlo i mendicanti. — Devo andar via.

— Ah, lei va via? E dove? — ella disse con improvvisa curiosità. — Anche noi si vorrebbe andar via. Mi hanno indicato un villino nuovo, in fondo al viale dei lecci, giù nel paese. Ci sarebbe una trattoria vicino, il che è comodo. Lei conosce la località?

— Poco, — egli rispose sottovoce, osando finalmente guardarla in viso. La vide ancora più dimagrita, più triste, più pallida di prima; e di nuovo un senso di tenerezza e il rimorso di averle fatto male lo turbarono così violentemente che ella se ne accorse.

Allora lo invitò ad entrare nella camera.

Il malato, sempre immobile nel suo lettuccio, s’era sgonfiato: ma la bianchezza della sua pelle e dei suoi capelli aveva preso un tono giallastro; e il modo con cui era disteso, supino, allungato, e le sue palpebre e le narici violacee, impressionarono Cristiano: era questa volta davvero la positura e il colore che prendono i moribondi.

Tuttavia la donna pareva molto illusa sullo stato di lui.

— Sta meglio, molto meglio; spero che tra qualche giorno possa alzarsi.

Poi si chinò fino a sfiorargli il viso col viso e stette così chiamandolo: — Giorgio! Giorgio! — e poi susurrandogli qualche cosa che Cristiano non sentiva. E neppure il malato doveva sentire perchè non dava segno di vita, benchè lei si ostinasse a parlargli, e chiedergli risposta. La verità è che anche lei aveva perduta la speranza di vederlo migliorare; ma pareva volesse impedirgli di addormentarsi, cercando di tenerlo in vita col suo alito.

E una triste gelosia oscurava il viso dell’uomo che assisteva al disperato sforzo di lei.



La serva andò a cercarlo tre giorni dopo. Non vedendolo ricomparire, lo credeva malato, — disse; — ma aveva una espressione insolita, nel guardarlo, fra il malizioso e il pietoso, che invitava alla confidenza. Egli non rispondeva neppure: sembrava davvero malato, così rincantucciato sotto la cappa del camino, mentre di fuori brillava finalmente un bel sole e i vetri delle finestruole sembravano di diamante.

Anche il gatto era andato fuori: tutto intorno era disordine e abbandono; ed egli dunque non rispondeva neppure alle domande premurose della serva che si aggirava nella stanza e istintivamente rimetteva a posto qualche oggetto, ma la sentiva alle sue spalle, e più per spirito di malizia che per convinzione, pensava che anche lei era venuta a tentarlo: in fondo sentiva che se ella avesse davvero osato tanto, si sarebbe alzato urlando per scacciarla.

La serva, d’altronde, pareva si attardasse lì solo per bisogno di chiacchierare.

— Il mio padrone sta molto meglio; è tanto debole, però; sembra fatto di quattro zolfanelli, adesso che s’è sgonfiato: potrei prenderlo dentro il pugno: mi pare un bambino coi capelli bianchi. Ha anche la mente più lucida: ieri venne il dottore e gli chiese che cosa desiderava: andar via, disse. Adesso la signora è presa dalla smania di portarlo via, e non fa che ripeterglielo. Lo porterà via, sì! Oggi andrà a vedere il villino giù nel paese, e lei resterà qui solo come un eremita, se non si decide a cercare anche lei un’altra casa.

Allora egli si volse: la vide che ripuliva distrattamente la tavola col suo grembiule, ma al moto di lui prontamente volgeva anche lei il viso a guardarlo, ammiccando.

— Tornerà Ghiana a farle compagnia....

— Vattene! — egli gridò con la sua voce feroce di un tempo: e tornò a volgerle le spalle.

Eppure, appena andata via lei, si sollevò improvvisamente rianimato; uscì fuori, guardò il cielo e respirò forte. Ah, finalmente se ne andavano, dunque! Che senso di liberazione, quasi di gioia! Come il mondo era più largo, come ci si muoveva meglio! Chiuse la porta e si avviò al paese.



Andava per far le provviste, non per cercare un’altra casa come avrebbe potuto supporre la serva: e mai quel viaggio gli era parso più piacevole.

Sull’orlo della strada morbida come un nastro di velluto frangiato d’erba così fina e spruzzata di perline che non si osava calpestarla, pareva di camminare sull’azzurro dell’orizzonte. Quel sole tiepido, quell’odore puro e dolce di bella giornata davano all’aria un sapore di latte. Ed ecco il paese, silenzioso e fresco come un villaggio alpino: pareva che buona parte degli abitanti fosse emigrata, perchè quasi tutti i piccoli negozi aperti nell’estate, erano chiusi: chiusi i villini verso il mare: e l’erba cresceva nel prato della chiesa. Solo i vecchi pescatori stavano al loro posto, al sole, appoggiati ai muri, o inquadrati dalle porticine nere, immobili come figure dipinte; e i vecchi marinai seduti sulla banchina del piccolo porto, addossati allo sfondo del mare come al muro della propria casa. L’inverno, però, dava anche a loro, alle loro barbe giallastre, ai loro colli rossi, una tinta umidiccia, come ai macigni del molo e a tutte le cose intorno.

Cristiano si fermò sulla porta della botteguccia dove di solito si serviva, ma vide gente davanti al banco e andò oltre. Andò verso l’altro negozio grande in fondo alla strada. Questo era deserto, coi suoi barili d’aringhe metalliche coperti di veli rossi e i vasi di confetti sul banco lucido: tuttavia egli non entrò.

Guardava il cartello ingiallito dall’umido che si dondolava con una cert’aria di noia sopra la porta.

Si vendono e si affittano villini
e appartamenti.

La vecchia che pareva di cera uscì dal retrobottega, come l’altra volta, e sebbene fossero passati dei mesi, riconobbe l’uomo e ricordò quello che egli desiderava.

— È lei che voleva una casa di contadini, in luogo non frequentato? Ce l’avrei: vuole andare a vedere?

— Mi hanno indicato un villino in fondo al viale degli elci; c’è una trattoria vicino.... — Ma credo sia già affittato: la casa che dico io è appena più in là, verso le vigne: se vuole andare a vedere le dò il ragazzo.

Egli la guardò in viso: gli pareva che ella si burlasse di lui.

— Vado da me, — disse. — So dov’è.

Ma la vecchia insisteva nel dargli indicazioni.

— Risalga la strada, volga a destra, vada diritto per il viale dei lecci; l’aspetto con la risposta.

Ed egli risalì la strada, volse a destra e andò diritto nel viale dei lecci. Dopo aver camminato a lungo in un’ombra fredda umida come in mezzo ad un bosco, sbucò ad un tratto in una campagna coltivata. Quella distesa di terra rossiccia, con le sue macchie verdi e lo scintillio delle acque, coi casolari sparsi in mezzo alle vigne, gli parve un paese nuovo, sconosciuto.

Sembrava d’autunno: nei prati verdi pascolavano le vacche all’ombra di quercie enormi che conservavano ancora tutte le loro foglie d’oro; un treno correva attraverso il paesaggio, lasciandosi dietro una interminabile bandiera di fumo azzurro; e si sentiva la terra tremare al suo passaggio. L’uomo guardava ogni cosa con meraviglia: aveva quasi dimenticato che oltre il mare e la brughiera, e oltre la landa bruciata del suo mondo interiore, altri aspetti del mondo esistessero: e l’osteria campestre, con le tavole imbevute d’acqua e di vino, e le galline e i gatti, e i mucchi di piume sparsi sotto il pergolato nudo, e le voci e le grasse risate dei carrettieri che mangiavano e bevevano nella cucina, gli parve un luogo oltre ogni dire tumultuoso.

Dietro la trattoria vide una strada appena tracciata, e casette in costruzione; una sola era già finita, mezzo rossa e mezzo bianca, fredda come un gelato di fragole.

Si avanzò da quella parte, sebbene opposta a quella indicatagli dalla vecchia; d’un tratto però si fermò, e si volse come se qualcuno lo avesse chiamato; e dall’arco del viale che s’apriva come quello di una galleria vide uscire una signora alta vestita di scuro, con le gonne corte e il viso coperto di una veletta nera.

Sì, era proprio lei: egli non ne distingueva a distanza i lineamenti, ma la riconobbe dal battito del suo cuore, dall’istinto che ebbe di nascondersi dietro un muro in costruzione.

Di là la vide andar dritta all’osteria, entrarci e dopo qualche momento uscire accompagnata da un uomo che si puliva le mani con un grembiale sudicio e agitava una chiave indicando le casette nuove: assieme li vide attraversare il prato e la strada; e poco dopo la figura della donna apparve sulla piccola loggia della casa rossa e bianca.

Allora egli tornò indietro e andò a sedersi ad una delle tavole sotto il pergolato. Ancora non sapeva precisamente perchè era venuto, perchè era lì. Per vederla? Non sapeva. Per cercarsi anche lui un’altra casa? Non sapeva. E pensò che doveva aver l’aria di un uomo smarrito, perchè il ragazzo dell’osteria che venne a ripulire con uno straccio la tavola e a domandargli che cosa ordinava, lo esaminò con aria sospettosa.

Egli ordinò del vino sebbene non ne bevesse; poi domandò al ragazzo se era lì nella trattoria che avevano le chiavi della casetta nuova e l’incarico di darle a chi desiderava visitarla.

— Sì, c’è andata adesso una signora, col mio padrone. Eccoli, tornano.

Tornavano. La donna camminava svelta sull’erba, con la sua gonna corta svolazzante sugli stivalini alti, che le dava un’aria di ragazza: arrivata al pergolato vide Cristiano che s’era alzato per salutarla e lo guardò fra distratta e sorpresa, quasi stentasse a riconoscerlo; poi la sua ombra si avanzò precedendola fra il ricamo delle ombre tenui dei tralci nudi.

Nell’attimo ch’ella mise ad avvicinarsi alla tavola Cristiano arrossì ed impallidì più volte; avrebbe voluto nascondersi e nello stesso tempo provava una gioia violenta nel veder il suo piano riuscito: perchè adesso lo sentiva bene, ch’era lì per incontrarla.

— Che cosa fa lei qui? — ella domandò senza tendergli la mano.

— Ma.... sono qui! Ho fatto una passeggiata. E lei ha veduto la casa?

— Sì.

— Le piace?

— Mi piace. La prendo, — ella disse con una certa durezza.

Allora egli non seppe più contenersi: si lasciò ricadere seduto, come se le gambe non lo reggessero, e parlò con voce di rancore:

— Lei se ne va per farmi dispetto, per vendicarsi. Ma fa male.

Subito la vide irrigidirsi, con le mani aperte sulla tavola, scura dura più che i nudi rami attorno: e lo sguardo che gli rivolgeva era così sdegnoso ch’egli abbassò il viso e se lo nascose fra le mani.

E aspettò ch’ella parlasse.

Ella non parlava; allora egli ebbe paura di averla offesa ancor più della prima volta; ancora più che col respingerla col dirle d’averla respinta.

Adesso era la volta che ella se ne andava via davvero per non tornare più; se stava ancora lì, immobile a guardarlo dall’alto, era per impedirgli di più sollevare gli occhi fino a lei e potersene fuggire silenziosa, come le ombre degli uccelli a volo sopra il pergolato che attraversavano le sue mani.

Un peso alle palpebre, tale che non poteva più sollevarle; un senso di sonno e di sogno lo vincevano; come se avesse bevuto il vino che il ragazzo aveva deposto davanti a lui. Gli pareva di essere a casa sua, di notte, davanti alla sua tavola; la donna era venuta, com’egli tante volte aveva desiderato; era lì, e rischiarava l’ombra intorno come un raggio di luna.

Ma egli non riusciva ad allungare la mano per prenderla, pure desiderandolo con tutte le sue forze; si può prendere un raggio di luna?

E d’un tratto gli parve che il cuore gli si sciogliesse, dentro il petto, in un’onda di lagrime che gli riempivano la gola, gli traboccavano dagli occhi: eppure provava una gioia senza nome: tanto che gli dispiacque di essere richiamato alla realtà dalla voce stessa della donna.

— Cristiano? Ma che fa? Cristiano?

Ecco ch’ella lo chiamava, china su lui, come usava chiamare l’altro.

Egli sollevò la testa; ma vide il ragazzo dell’osteria che veniva verso di loro e non parlò.



Ritornarono assieme.

S’era d’improvviso sollevato il vento, e sul terreno sotto la lunga navata scura del viale le ombre e le chiazze di sole tremolavano incessantemente: si aveva l’impressione di camminare su un terreno mobile, o sull’acqua; tanto che Cristiano metteva istintivamente i piedi sulle ombre più larghe, come sulle pietre di un guado.

La donna gli camminava accanto, senza parlare, col suo passo lungo e rapido che spesso sopravanzava quello di lui.

Camminavano come due che fanno la strada assieme senza conoscersi. Egli la vedeva a momenti nera nell’ombra, a momenti luminosa nel sole e cercava d’indovinarne i pensieri: senza dubbio ella aspettava che ricominciasse lui a parlare; ma egli non voleva, non poteva parlare. Era mai possibile dire quello che sentiva? E s’ella non riusciva a intenderlo anche attraverso il suo silenzio era inutile dirglielo.

Eppoi, no, egli non voleva rompere l’incanto che li trasportava; aveva paura della realtà. Ma arrivati al paese ella disse che vi si doveva trattenere per concludere l’affitto della casa e per fare certe spese; e lo salutò fredda e, a lui parve, un po’ ironica.

Ed ecco che gli sfuggì di nuovo, col suo passo lungo e rapido di trampoliere: l’erba della piazzetta le lucidò gli stivalini, grata ch’ella la calpestasse; i vecchi pescatori sollevarono la testa a guardarla, e il loro viso parve illuminarsi per la luce del suo passaggio: poi la sua figura, davanti a Cristiano che la seguiva senza più raggiungerla, si dileguò tra il verde liquido del piccolo porto.

Dove andava? Poteva anche andare a trovare un uomo. E d’un tratto Cristiano si pentì di averla fatta uscire, un giorno, strappandola dal letto del malato.

Gli tornavano alla mente le parole di lei: «io amo la vita: oh, non può immaginarsi come l’amo!» e la facilità di lei a dimenticarsi del dolore. Ma in fondo questo non gli dispiaceva: se anzi era per questo ch’ella gli piaceva! perchè era la vita stessa in persona, oppressa dal dolore ma sempre tesa a liberarsene e a cercare la gioia.

L’aspettò nella strada all’uscita del paese.

Ella tardava. Dov’era andata? Forse in casa del dottore.

Questo dottore, giovane, ricco, libero, si mostrava troppo premuroso con lei e andava troppo spesso a trovare il malato. Cristiano si sentì improvvisamente geloso di lui: gli sembrava di vederlo, sul suo carrettino di vimini; rosso, biondo, tondo e lucido come un pomo nel suo cestino.

Era anche lui un uomo pieno di vita, il dottore, e senza fantasie: l’uomo vero, che prende dalla terra, dall’aria, dalle cose, dai suoi simili, il succo per vivere il meglio che sia possibile. E Cristiano sentì di odiarlo, come i magri odiano i grassi.

Ma la donna non tornava.



Si mise a camminare: perchè doveva aspettarla? Che gl’importava di lei, dopo tutto? poteva vivere senza di lei.

Adesso la strada gli sembrava diversa di prima: i cespugli tremavano al vento, con uno splendore roseo, illuminati obliquamente dal sole che cadeva sul mare increspato.

Tutto era tremulo, colore di rosa, ma di un rosa di corpo nudo che ha freddo.

Anche lui sentiva freddo. Ecco laggiù la sua casa, scura fra gli alberi nudi come una brage spenta fra un mucchio di sterpi bruciati.

Eppure mai come in quel giorno aveva sentito di amare la sua catapecchia: appunto perchè era una catapecchia, umile, fredda e triste. No, non per questo solamente. La verità era un’altra. Amava la sua casetta perchè ricominciava a riamare tutte le cose della vita, belle e brutte, tutte le cose del mondo, piccole e grandi: perchè ricominciava ad amare.



Adesso gli pareva di sentire il passo di lei alle sue spalle; un passo senza suono, e che pure gli echeggiava forte dentro le orecchie. Ma non si volgeva, anzi affrettava il passo. Doveva raggiungerlo lei, se lo voleva. Ma lo voleva davvero? O era tutto un sogno della sua fantasia?

Il passo risonava forte, adesso, lo seguiva, lo accompagnava. Si fermò. Il passo si fermò, di fuori, ma gli continuava dentro. Era il battito del suo cuore!

Allora sedette sull’orlo della strada, in faccia al sole rosso che scendeva sul cielo azzurro incontro ad un altro sole rosso che saliva dalla profondità del mare azzurro; e mentre aspettava che la donna lo raggiungesse cominciò a parlare sottovoce come s’ella fosse già seduta lì al suo fianco sull’erba tiepida.

— Sarina! — Osava finalmente chiamarla col suo nome, che gli si scioglieva in bocca come una cosa dolce. — Sarina, mi sembra di esserci un giorno incontrati fanciulli in riva al mare, quando la mia mamma, dopo essersi per undici mesi privata di tutto, mi portava per un mese in una spiaggia ch’era per me come il confine del mondo reale e il principio del mondo dei sogni; più in là non si poteva andare; si sarebbe morti di gioia. Là ti ho incontrato, forse quella volta che tu pure sei andata fino al mare e le onde ti sembrarono agitate dai pesci. E per gioco ci siamo dati la posta di correre lungo la riva del mare, tu da una parte, io dall’altra, e di fare tutto il giro dei continenti fino a incontrarci ancora. Eccoci qui, adesso, di nuovo in riva al mare, tra il confine della realtà e del sogno: più in là non si può andare; si morrebbe di gioia. Eccoci qui, di nuovo fanciulli, ubriacati dal gioco dell’amore.



Il sole tramontò: cessò il vento, come se un velo pesante cadendo sulle cose le fermasse: ella non veniva.

Ma perchè non veniva egli si ostinò ad aspettarla. Voleva rinfacciarle di aver lasciato solo il marito, voleva richiamarla ancora una volta al suo dovere, poi cominciò a temere che le fosse accaduta qualche disgrazia.

Era già quasi sera: faceva freddo, una stella brillava sull’orizzonte sopra le colline sempre più viva come assorbisse tutta la luce del giorno.

Così era quel pensiero di lei, che gli brillava nella mente e assorbiva ogni altro suo pensiero: ma intanto lei non veniva. Era già il crepuscolo quando finalmente un passo risonò in lontananza; ma a misura che s’avvicinava si faceva lieve, furtivo, come s’ella cercasse di passare inosservata. No, era lui che scivolando un po’ più giù della strada s’era steso bocconi sull’erba per non farsi vedere da lei.

Ella passò oltre: ed egli rimase qualche tempo così, a baciare la terra, coi capelli confusi con l’erba: triste e felice come se la terra fosse la donna e l’erba i capelli di lei.



Poi si alzò e s’avviò rapidamente, finchè la raggiunse nel prato davanti alla casetta.

Non le disse nulla, non le domandò nulla. Anche perchè, ecco, standole vicino non provava più quel senso di esaltazione, di gelosia, di desiderio che lo aveva abbattuto sull’orlo della strada.

Anche lei taceva: camminava rapida per riacquistare il tempo perduto e rientrare presto a casa; aveva in mano due pacchetti e un mazzo di fiori bianchi, luminosi nella penombra del crepuscolo.

La porta d’ingresso era chiusa. Dovettero fare il giro della casetta per entrare dalla porta di cucina; ma anche questa era chiusa.

Il cane cominciò ad abbaiare come vedesse degli estranei; e insisteva, specialmente al suono della voce di Cristiano.

Picchiarono più volte: la porta non si apriva.

— Che sarà accaduto? — domandò Sarina guardando fisso Cristiano come se egli avesse potuto dirglielo. Anche lui la guardò: stavano addossati alla porta sotto la piccola tettoia rischiarata da un ultimo barlume verdognolo del crepuscolo; e un senso di mistero pareva finalmente avvicinarli, come la paura di un pericolo che spinge due ignoti a tenersi stretti. Egli avvicinò il viso al viso di lei, fino a sentire il profumo della pelle vellutata: e lei sentì l’odore di terra e d’erba ch’era rimasto sul viso di lui: ma non arrivarono a baciarsi perchè la porta s’apriva.

La serva però li guardò come si fossero già baciati: sguardo complice, beffardo e invidioso nello stesso tempo, e nello stesso tempo pieno di una espressione di rimprovero e di compatimento.

— Che facevi? — domandò la padrona, con una stizza causata non si sa se dal troppo tardare o dal troppo affrettarsi della serva ad aprire.

La serva si ritraeva, seguita dal chiarore del crepuscolo che la illuminava tutta sullo sfondo scuro della cucina.

— Il signorino sta molto male, — disse.

— Non l’ho abbandonato un momento, dopo ch’è andata via lei; non si è mosso più. Ho paura....

La padrona buttò per terra i pacchetti e i fiori e corse su a vedere. L’uomo la seguiva, ma, come la prima volta, non osò entrare nella camera, fermandosi sull’alto della scala, sotto il barlume verdastro della vetrata del tetto. E per alcuni momenti ebbe l’impressione di essere sospeso ad una grande altezza. Tutto era crepuscolo e mistero.

Dentro la camera la donna, china sul lettuccio, chiamava sottovoce:

— Giorgio? Giorgio?

— Giorgio? — gridò poi spaventata. E si abbattè sul lettuccio gemendo e dibattendosi, con la testa sul petto del marito, come s’egli l’avesse presa per i capelli e la traesse con sè giù nell’abisso della morte.

Poi salì la serva coi fiori bianchi che aveva raccolto dal pavimento, e li sparse sul corpo del padrone.

— Se n’è andato in questo frattempo mentre io scendevo ad aprire, — mormorò trasognata. — Pareva aspettasse un momento in cui era solo.



Arrivò dapprima un uomo, all’albeggiare, tutto nero, con cinque sacchi lunghi neri. Pareva un essere balzato fuori dalla notte morente e che dentro quei sacchi ne avesse raccolto tutta l’ombra.

Invece, appena fu nella camera del morto, e dopo aver salutato questo e i vivi con rispettosa indifferenza, slegò uno dei sacchi e dentro vi apparve qualche cosa di luccicante.

La serva offrì il suo aiuto; l’uomo la scansò con la mano, poi d’un colpo trasse dal sacco, come una spada dalla guaina, una lunga croce dorata fissa su un piedestallo vuoto.

La mise ai piedi del letto osservando bene la distanza, che fosse proprio a metà e corrispondesse ai piedi e alla testa del morto.

Poi dagli altri quattro sacchi trasse quattro grandi candelabri d’oro, e quattro ceri che piantò su di quelli, grossi, lisci e pallidi come piccole colonne di alabastro.

Li accese uno dopo l’altro, con lo stesso fiammifero che in ultimo ebbe cura di buttare dalla finestra. La finestra era spalancata, finalmente, e al lucchetto che stava sul davanzale umido di rugiada si aggrappava una formica col folle tentativo di afferrarlo e portarlo via. L’aria era fredda, argentea, con riflessi d’oro; e anche dentro la camera le quattro grosse fiammelle dei ceri, così gravi ed immobili che parevano d’oro massiccio, spandevano sulle pareti grigie un chiarore di sole nascente.

Tutto era fermo, freddo, luminoso. Anche il morto, vestito di nero, con gli stivali lucidi e la camicia inamidata, con le dita durissime intrecciate sopra un piccolo crocifisso d’argento, pareva una statua di marmo rivestita con gli abiti un po’ troppo larghi di un uomo vivo. Fiori bianchi posavano immobili come dipinti sul suo abito nero e gl’incoronavano la testa candida; ma il loro odore andava tutto verso la finestra come un pensiero che fugge.

Del resto egli non si curava di tutte quelle cose che lo coprivano e lo circondavano; tutto chiuso in un suo meditare austero, con le palpebre ferme, le narici un po’ violacee dilatate, la bocca chiusa rimpicciolita.

Lasciò fare, quando l’altro uomo nero che si muoveva attorno silenzioso, svelto e furtivo come un ladro, trasse un metro e con rapida accuratezza lo misurò da capo a piedi; d’altronde l’atto fu così rapido e il metro grigiastro s’aprì e si chiuse così lesto e discreto che neppure i vivi presenti nella camera se ne accorsero. Poi l’uomo nero raccolse e chiuse i sacchi in un cassetto del canterano che la serva imitandolo nel suo fare gli aprì; tutto con rapidità furtiva sebbene fredda e calcolata. Pareva che egli cercasse di nascondere i suoi gesti: per riguardo a chi? in realtà perchè così era obbligato a fare.

Infine salutò con rispettosa indifferenza, e se ne andò.

Allora la vedova, che stava seduta nell’angolo dell’ottomana, vestita ancora degli abiti del giorno avanti, s’alzò e si chinò sul morto, fra una colonna e l’altra dei due candelabri posati sul davanti del letto: pareva spiasse se il marito tornava in vita, o se si fosse annoiato di tutto quel cerimoniale inutile che accompagnava la sua partenza. Egli era annoiato e corrucciato, sì, ma d’una noia e d’un corruccio che risalivano ad un tempo lontano, e che non sarebbero svaniti se non con le stesse sembianze che li esprimevano.

La vedova gli toccò le dita, ch’erano la cosa più fredda ch’ella avesse mai toccato, gli aggiustò i fiori sul petto; si sollevò più pallida e rigida dei due ceri che la fiancheggiavano, e per alcuni momenti stette immobile a contemplare il lettuccio con sgomento misterioso, come ferma fra le colonne d’un portico spalancato verso l’eternità. La serva la prese per il braccio e la ricondusse al suo posto, nell’angolo dell’ottomana.

Nell’altro angolo sedeva Cristiano, con un viso stanco, ma con gli occhi lucidi di buona volontà. Anche lui aveva vegliato tutta la notte, dopo essere stato di nuovo al paese per avvertire il dottore e provvedere per il trasporto funebre.

Ed era stato lui a far la barba al morto, ad aiutare a vestirlo; e al chiaro di luna aveva colto i pochi fiori del suo giardino nudo per ornare il cadavere. Adesso bisognava aspettare il dottore per la constatazione della morte. Aspettavano dunque, lui e la vedova, seduti sulla stessa ottomana, rigidi come i ceri davanti al morto: senz’altra preoccupazione che quella di rendere omaggio a lui e alla coscienza del proprio dovere.

Ma il cuore batteva per conto suo, e di tanto in tanto aveva dei guizzi, come la fiammella dei ceri al muoversi dell’aria intorno.

Allora Cristiano sentiva un brivido di gioia; gli pareva che il suo sangue tornasse tutto indietro, nelle vene, e ricordava l’incresparsi del mare al vento di ponente, in certi crepuscoli rossi di marzo. Cristiano, diceva a sè stesso, tu rispetti adesso il morto perchè egli non ha più bisogno del tuo rispetto; ieri che era vivo non lo rispettavi. E domani? Domani il mondo avrà più spazio, liberato anche della sua spoglia, e tu berrai alla sua coppa, avrai la gioia che non ha avuto lui.

L’arrivo del dottore cominciò a fargli temere che a questa gioia non mancherebbe qualche vena di amarezza.

Senza muoversi dal suo posto vide entrare l’uomo grasso e rubicondo che emanava dalla bocca un vapore di vita, e la vedova andargli incontro, d’istinto d’un tratto vispa, come la farfalla addormentata sulla parete che si sveglia all’accendersi del lume e gli va incontro.

11 dottore le prese le mani, palpandogliele fra le sue; poi la scostò, davanti a sè, e la guardò negli occhi, nella bocca, nel collo: sguardo di medico, che tuttavia ingelosì Cristiano. Senza muoversi dal suo posto egli vide quei due avvicinarsi al morto, chinarsi, parlare sottovoce, sollevarsi, parlarsi ancora, fra le due colonne dei candelabri. Lui era messo da parte, lasciato indietro. E s’ingelosì anche di questo, come se il morto gli appartenesse.

Il dottore s’incaricava non solo di provvedere alla dichiarazione di morte, ma di sollecitare per i funerali e quanto altro occorresse: la vedova ringraziava, sollevata, come se fino a quel momento non avesse avuto altro aiuto; pareva dimenticarsi anche del morto, perchè accompagnò il vivo fino in fondo alla scala. Cristiano, che non ostante la gelosia, o forse a causa di essa, si era alzato, avanzandosi come per aspettare degli ordini o per far intendere che c’era anche lui, rimase solo col morto.

Il dottore se n’era andato senza neppure salutarlo; è vero che anche lui non aveva salutato; ma davanti ai morti non si fanno cerimonie.

Tutto deve procedere con calma, davanti ai morti: eppure egli sentì un impulso violento di squassare il lettuccio, rovesciare i candelabri, portarsi via i fiori del suo giardino... Gli sembrò che una mano potente gli afferrasse la testa e gliela facesse girare rapidamente sul collo come una trottola: mille cose gli formicolarono nella mente, destate da quella scossa...

Ma quando la vedova rientrò egli era già di nuovo al suo posto, rigido più del morto.

Ella invece conservava il calore di vita che la visita dell’altro uomo le aveva trasfuso; riprese anche lei il suo posto, ma non stava più quieta come prima; le gambe e i piedi sottili si agitavano senza che ella se ne accorgesse: e Cristiano guardava il sole che già entrava nella camera, sentiva l’odore del verde portato dall’aria, rivedeva la grande campagna animata, intraveduta il giorno prima e pensava:

— Domani ella se ne andrà: ha bisogno di correre il mondo, con le sue gambe di trampoliere.

Domani... domani il mondo sarà di nuovo chiuso per lui, a meno che anche lui non si metta a correre appresso alla donna.

Intanto stavano lì seduti, senza guardarsi, lasciandosi trasportare dal tempo.

Finchè arrivò un carro nero lucido, decorato d’oro, tirato da due cavalli neri eguali. Così eguali che parevano fabbricati apposta, con una mano di vernice sulla schiena e i lombi, le zampe fatte al tornio, e un mazzolino di criniera sulla fronte. Tutti e due scuotevano un po’ la testa dalla stessa parte e battevano a tempo la zampa destra sull’erba del prato davanti alla casetta, mentre due uomini vestiti di nero, anch’essi rassomiglianti fra loro, tiravano giù la cassa di noce e la portavano nella camera del morto.

Cristiano era sceso a riceverli e li accompagnava.

La cassa, ultimo modello, lieve e solida, si apriva e si chiudeva come un baule, senza rumore. Fu deposta in mezzo alla camera, ove il sole batteva più forte, e aperta che fu parve uno scrigno, con la sua bella fodera di raso bianco e il fondo ovattato.

La vedova s’inginocchiò per mettervi dentro un piccolo cuscino che volse e rivolse finchè non lo ebbe aggiustato bene; poi passò la mano sul fondo della cassa per assicurarsi che non era duro. Era soffice, intiepidito dal sole; ed ella si sollevò rassicurata.

Allora lei e Cristiano e la serva presero il morto, sollevandolo con cautela come per non svegliarlo e lo deposero nella cassa.

Ella tornò a inginocchiarsi e gli aggiustò i piedi, le vesti, le mani, del resto già così rigide che le dita non s’erano mosse; poi gli rimise intorno i fiori che la serva a mano a mano prendeva dal letto e le porgeva. E quei fiori erano bagnati dalle lacrime della serva.

Gli occhi della vedova rimanevano lucidi e aridi, nel viso sempre più pallido. Solo quando il morto fu tutto aggiustato bene, ella gli accarezzò i capelli e si chinò a baciargli la fronte; e rimase un po’ così; si dicevano ancora qualche cosa, il morto e lei; infine si sollevò e diede come in uno scoppio di riso: piangeva.



Nessuno però parve dare attenzione al suo dolore, occupati come erano tutti a chiudere la cassa: uno dei due uomini era andato giù e tornava con una cassettina di zinco come quella che accompagna gli stagnari; ne trasse ed accese un fornellino, lo tenne in mano come una lampada; la fiamma obliqua cigolava come una lingua infernale; e con essa l’uomo saldò, sciogliendone lo zinco, tutta la serratura intorno alla cassa.

Così questa fu sigillata, da spedirsi all’eternità.

I quattro ceri rimasti intorno al letto deserto agitavano un po’ le loro fiammelle, come protestando di star lì ancora a far nulla. Intanto fuori erano sopraggiunte due vetture nere, tirate da cavalli neri, e da una erano scesi tre piccoli frati sporchi che sembravano di terracotta, coi piedi nudi entro i sandali logori ed il cappuccio lungo sulle spalle sino alla cintola.

Salirono cantando alla camera del morto e furono loro dati tre dei ceri; il quarto lo prese la serva che continuava a piangere ma badava a non far sgocciolare la cera sul pavimento.

I frati cantavano intorno alla bara; pareva avessero cantato sempre e dovessero sempre cantare monotoni e indifferenti quella nenia che aveva tuttavia una dolcezza grave, e un cupo rimprovero; dolcezza e rimprovero che però risonavano solo nel tono delle parole e venivano di più lontano che dal cuore e dalla voce meccanica dei frati: canto antico in una lingua antica di cui si era perso la conoscenza, ma del quale rimaneva la musica grande di ammonimento e di pietà. Era la voce stessa di Dio che parlava non all’uomo morto, ma a quelli viventi, come fossero i veri morti, e dovessero risorgere. E allora anche a Cristiano, che non si era fino a quel momento commosso se non per gli altri, gli occhi s’inumidirono. Piangeva per sè, adesso: gli sembrava fosse il suo cuore a rispondere a quel canto, invece del morto.

Poi aiutò a sollevare la bara, e portarla giù e deporla sul carro. Una corona di palme e di rose così belle che parevano fìnte vi fu posata sopra; e gli uomini neri aggiustarono bene il largo nastro nero, che scendesse da una parte e dall’altra e vi si leggesse la scritta dorata: «Al caro estinto, la vedova ».

La vedova stava a guardare, con la testa avvolta in un velo nero. Disse che voleva seguire il carro a piedi, ma Cristiano la prese per il braccio e la costrinse ad entrare in una delle carrozze chiuse ferme davanti alla porta.

Nell’altra rientrarono i frati, che avevano contemporaneamente spento i ceri, ma se li portavano appresso come bastoni.

Il quarto cero rimase alla serva che stava lì immobile in mezzo all’agitarsi degli altri, come ad illuminare la scena. Ella sperava di seguire i funerali del padrone: quando vide che ciò non era possibile, spense anche lei il cero e se lo portò dentro, pensando che poteva un giorno servire per lei.

Ma uno degli uomini neri glielo riprese e lo rimise nei sacchi coi candelabri e la croce; per consolarla le disse sottovoce qualche parola galante, e anche lei gli sorrise, con gli occhi pieni di lagrime.

E nella camera del morto, sgombra che fu, rimase una lieve gioia di luce, di odore di campagna, di liberazione.

Dalla finestra la serva vedeva il funerale procedere per la strada soleggiata col carro lucente che pareva rimorchiasse le due carrozze chiuse.

Andavano lentamente; così lentamente che dentro la carrozza chiusa la vedova aveva l’impressione di star ferma a guardare da un finestrino dietro il cui vetro appannato passava il paesaggio fatto di due sole linee, quella azzurra del cielo e quella un po’ più azzurra del mare.

Cristiano le stava accanto: non si toccavano, non si guardavano, non si parlavano, ma sentivano entrambi di aver cominciato un viaggio che dietro la morte li conduceva alla vita.



Poi l’inverno distese le sue ali di nuvole sul mare e la brughiera.

La vedova non aveva lasciato la casetta, ma ogni relazione fra lei e Cristiano pareva di nuovo cessata. Le finestre rimanevano chiuse come quando era vivo il morto.

Cristiano, passando nel sentiero per andare al paese, si contentava di guardare il lieve fiore azzurrognolo del fumo che s’agitava sopra il comignolo: solo segno di vita in tanta solitudine.

A volte picchiava alla porta per domandare alle due donne se occorreva loro qualche cosa in paese; apriva la serva e gli rispondeva premurosa che doveva andarci anche lei, in paese, che anzi, poteva incaricarsi delle spese per lui. E lo invitava a entrare proponendogli di chiamare la padrona; ma egli non accettava l’invito, anzi si affrettava ad andar via.

Andava in paese; e osservava che la serva non ci si recava mai nelle ore in cui poteva incontrarsi con lui. Solo un giorno la vide che tornava, calma, lenta, col suo cestino scuro: da lontano gli ricordò Ghiana, e si meravigliò di questo ricordo, accorgendosi che s’era completamente dimenticato della contadina.

La serva si fermò a salutarlo; aprì il cestino con dentro il giallo smorto degli involti mischiato al verde degli erbaggi e al rosso delle mele, e gli disse il costo di ogni cosa; poi gli domandò se era stato dalla sua padrona.

Egli la guardò negli occhi; no, la domanda non era fatta con malizia: anzi una certa premura, un desiderio di bene per la padrona traspariva dal viso della serva. E Cristiano osservò che essa s’era ringiovanita, abbellita.

— Di’, per caso non hai qualche affare in paese? — le domandò, imitando il modo di ammiccare di lei.

Ed ella arrossì, tutta allegra, poi se ne andò via di corsa dondolando i fianchi; come faceva Ghiana.

Più in là Cristiano vide in lontananza nella strada un uomo che se ne tornava in paese, evidentemente dopo aver accompagnato per un tratto la serva. Gli sembrò di riconoscerlo; affrettò il passo. Sì, era lo stagnaro che aveva saldato la cassa del morto.

Verso sera, tornato a casa, vide venir la serva che gli portava qualche cosa dentro il grembiale. Ma anche nel suo camino il fuoco era acceso e il paiolino mormorava una nenia brontolona, sospeso al gancio in mezzo al fiore della fiamma come un grande pistillo nero. Tutto intorno era ordinato e pulito.

Piano piano, un po’ timidamente, la donna aprì il suo grembiule, sollevò un piatto bianco che ne ricopriva un altro, e sullo smalto vaporoso, fra i due recipienti apparve una coscia di cappone così grassa che la pelle pareva d’oro liquefatto.

Cristiano ringraziò, un po’ commosso, un po’ umiliato, non sapendo se era la serva o se era la padrona a fargli parte del pranzo: commosso e umiliato in tutti e due i casi.

— Che lusso — disse; poi domandò se loro donne avevano già pranzato.

— Non ancora: La signora sta a fare un dolce. Perchè non viene stasera da noi?

Ah, stava a fare un dolce? Dunque era la serva che aveva avuto l’idea di fargli parte del pranzo: altrimenti la signora avrebbe mandato il dolce. Ma, certo, anche lei acconsentiva al pensiero premuroso della serva. E se faceva il dolce significava che era uscita dalla sua malinconia e stava bene.

— Non vengo perchè non mi ha invitato.

— Non la invita perchè ha paura che non venga lo stesso.

— Lo ha detto lei?

— Non lo ha detto ma lo capisco io. È fatta così, eppoi è così triste e sconfortata. A volte dice che vuole stare qui tutta la vita, a volte che vuole andarsene subito.

— E tu cosa pensi? — egli domandò con malizia.

La donna lo guardò; ma non ammiccava più; anzi aveva uno sguardo timido di fanciulla. Voleva dire qualche cosa, ma non osava.

Istintivamente portata dalla sua attività domestica riordinò qualche oggetto intorno, finalmente si fece coraggio.

— Se lei viene.... stasera, o quando viene, non dica niente alla signora.

— Ma io non so niente! — egli protestò, chinandosi a guardare nel suo paiolino, del quale sollevò il coperchio. Allora la serva vide che dal brodo grasso fumante dentro il paiolino emergevano le zampe gialle di un cappone.



Dopo il suo pasto solitario egli uscì fuori, nel suo giardino.

Era la notte di Pasqua: notte tiepida e silenziosa di marzo, foderata di nuvole bianche lucide e soffici come drappi di seta.

Egli non aveva pensato di festeggiare la Pasqua, ma suo malgrado un soffio antico di poesia gli saliva dal cuore e lo costringeva ad uscire fuori della sua tana come gli animali che hanno dormito tutto l’inverno; ma sopratutto lo spingeva a muoversi in cerca di qualche cosa che egli tentava di non dirsi ma che in fondo sapeva bene cos’era.

Fece il giro del giardino, coi passi pesanti delle sue scarpe inchiodate che pure non producevano rumore, tanto il terreno era molle, inumidito dallo scirocco. E guardava in su, verso le cime degli alberi come quando essi avevano i frutti; le nuvole vi si posavano, così basse che parevano sostenute dalla lieve ossatura dei rami già dentellati di germogli: tutto intorno il profilo nero della siepe descriveva sullo sfondo bianchiccio il suo fantastico giro di guglie, di piccole torri, di mura merlate.

E d’un tratto egli sentì il bisogno di evadere da quel suo recinto preistorico: uscì, e quando fu nel sentiero guardò verso il mare, poi andò verso la casetta: ma vide luce alla finestra del salottino e gli sembrò di sentir a parlare, dentro.

Chi c’era? Il cuore gli battè per la curiosità, la gelosia, il dolore di esser fuori di quella stanza, di esser fuori della vita. Ma forse s’ingannava: forse erano la padrona e la serva che chiacchieravano.

Senza osare di accostarsi alla finestra fece il giro della casetta: il cane abbaiava, e sotto la tettoia della porta di cucina egli intravide due persone che parlavano sottovoce tenendosi molto strette.

Al suono dei suoi passi si separarono; ma egli tornò subito indietro, inseguito dall’abbaiare del cane: e quel grido rauco, spezzato e pesante, gli batteva alle spalle, alla testa: era come una scarica di sassi, che lo scacciava, lo minacciava di peggio se non faceva presto a fuggire, e nello stesso tempo lo irrideva e lo compassionava.

Ed egli fuggiva; e non si fermò se non quando lo sgorgare dell’acqua sulla sabbia, sull’orma del suo piede, non lo avvertì che non si poteva andare oltre.

Stette davanti al mare agitato come davanti a uno specchio che invero rifletteva la sua anima com’era in quel momento, piena di un tumulto grigio e ardente.

Com’erano lontane le calme mattine d’estate quando il mare lucido e morto gli sembrava egualmente lo specchio della sua quiete interiore! E dapprima s’ irritò accorgendosi che non rimpiangeva quella quiete, che anzi il ricordo di quei giorni gli destava un senso di pietà verso sè stesso: poi cominciò a sentire un’esaltazione mista di terrore e di gioia: la certezza che amava davvero, che il suo amore resisteva alla gelosia, al dubbio, alla paura del dolore.

— Ma è proprio vero che amo! — disse a voce alta, chinando la testa.

E decise di andare dalla donna e di offrirsi. Bastò questa decisione per renderlo già felice; di una felicità trepida, tanto che si chinò e si fece il segno della croce con l’acqua del mare.



Tornò indietro, ma gli sembrò di essere in un luogo diverso da quello attraversato poco prima.

Una nebbia improvvisa, tiepida e argentea, lo circondava: pareva che le nuvole si fossero abbassate fino alla terra.

Non vide più neppure la sua casa; solo sentì la sua siepe, cercandola con la mano attraverso la nebbia.

Poi si trovò come sulla sponda di un lago: sulla riva opposta appariva un lume: la finestra di Sarina.

Ed egli attraversò il prato ricordando certe sere della sua adolescenza, in città, quando camminava fra la nebbia, nei grandi viali di circonvallazione, e i fanali gli sembravano astri, e tutto era bello e fantastico, intorno a lui, di una bellezza di sogno, perchè tutto era bello dentro di lui. Anche allora andava verso la vita; allora come adesso; anche adesso si sentiva giovane e con l’anima intatta.

Di nuovo fece il giro della casa, verso la porta della cucina; le ombre erano sparite, il cane taceva; e non abbaiò più neppure all’avvicinarsi di lui: capiva che oramai l’uomo voleva entrare nella casa con cuore sincero.

Solo l’aspetto ambiguo della serva, venuta ad aprire, tornò a turbare Cristiano.

— La signora è sola?

— E con chi vuole che sia?

— Allora può ricevermi.

— Chi lo sa? Così.... a quest’ora!

— Se tu stessa mi avevi detto di venire? Va a dirle che sono qui.

Rimase per alcuni momenti nella cucina tiepida rischiarata dal fuoco: tutto vi era ancora in disordine, ma un disordine lieto, come quello dei giorni di festa nella casa dove la gente pensa a godere.

Ed egli desiderò di sedersi accanto al fuoco e di aver lì il colloquio con Sarina: invece dovette passare nel salotto.

E il salotto, senza fuoco, era come sempre lucido e freddo, con riflessi come di luna: eppure la mano che Sarina, seduta a leggere presso la tavola, gli porse, era calda.

Non aveva bisogno di fuoco, lei: era tanto giovane ancora.

— Poco fa, — egli disse, rigido davanti a lei come un soldato, — sono venuto fino alla sua porta col desiderio di vederla e salutarla. Non sono entrato perchè ho sentito a parlare, qui, e ho creduto che non fosse sola.

— Ma se ero io che leggevo ad alta voce!

Si metta a sedere.

Egli sedette, discosto da lei.

— È un’abitudine che avevo da ragazza: quando ero sola, nelle lunghe sere d’inverno, o in quelle d’estate che sono più lunghe ancora, leggevo, specialmente commedie e drammi: la mia voce mi pareva quella dei personaggi stessi, e mi faceva compagnia. Eppoi perchè sognavo anche di diventare attrice.

— È il sogno di tutte le ragazze disoccupate, — egli disse contrariato: poi subito ebbe timore di averla offesa e le domandò che libro leggeva.

— Ne legga qualche pagina per me.

Ella guardò la copertina del libro come se ancora non ne sapesse il titolo, poi lo chiuse e lo depose sul piano inferiore del tavolino.

Quando sollevò la testa i suoi occhi avevano una luminosità profonda, maliziosi e appassionati, e cercavano quelli di lui.

— Io leggo quando sono disoccupata, cioè sola. Adesso...

Egli non evitava più quello sguardo che gli penetrava fino all’anima e gliela inondava di luce. Stettero così a guardarsi, per quanto tempo egli non avrebbe saputo dirlo: non sapeva più nulla: solo aveva l’impressione di essere ancora in riva al mare e di aver la potenza, adesso, di andare oltre, di camminare sulle acque e sulle nuvole, di sciogliersi nell’infinito.

— Sarina, — disse con voce turbata. — mi dica che non è un sogno.

Per risposta ella avvicinò la sua sedia a quella di lui, e gli offrì la mano: e bastò questo contatto per mescolarli in un tremito solo.

— Grazie, — egli mormorò. — Lei mi fa risorgere. Perchè ero morto.... Peggio che morto... Adesso sono qui... sono una cosa sua. Faccia di me quello che vuole. Però, Sarina, me lo dica subito, quello che lei vuol fare di me. Sarò felice in tutti i modi, purchè lo sia anche lei, e mi ami davvero.

— Se non l’amassi non sarei qui, — ella disse sottovoce, ma guardandosi attorno come per paura di essere ascoltata. Egli le baciò la mano, con riconoscenza, ma anche già con la paura ch’ella gli sfuggisse.

— Lei è buono, — ella mormorò intenerita dall’umiltà di lui.

— No, non lo sono, almeno con gli altri. Lo sono stato, però. La mia bontà era come un diamante grezzo contro il quale si adoperavano, smussandolo, tutti quelli che volevano giovarsene; ed io lasciavo fare; anzi ne provavo piacere: adesso, dopo tanta limatura di dolore sento che la mia bontà esiste ancora, anzi più intatta di prima; ma come il diamante sfaccettato non si presta più a diminuzioni; si dà tutta, o rimane dentro di me inutilmente preziosa come il diamante nel suo astuccio.

La donna lo ascoltava pensierosa, sempre tesa verso di lui con un senso di curiosità quasi infantile.

Egli si portò tutte e due le mani di lei al viso e parve, per un momento, volesse dire qualche cosa del suo segreto: poi riprese:

— Anche lei è buona. Solo una bontà come la sua poteva sacrificarsi come si è sacrificata. Per questo, anche, la ho amata, fin dal primo giorno che lei è venuta qui. Si ricorda? Giù, al pozzo: mi parlò subito di suo marito malato, ed io indovinai tutta la sua vita di tristezza e di sacrificio. E non sorrida di me, Sarina, se le dirò che questo è il mio primo amore... Questo... questo... Questa è la cosa grande, che mi rende quasi pauroso della mia felicità. Perchè io mi credevo condannato a non amare, a non essere mai amato. Non credevo più nell’amore, non credevo più nell’umanità: vivevo di rabbia e di odio: lei è venuta e la vita ha mutato aspetto per me.

Ma il solo accenno ai tristi giorni passati gettò un’ombra sul cuore di lei: ed egli che a sua volta la guardava intensamente in viso, se ne accorse e s’irrigidì.

Piano piano ella ritirò le mani: piano piano un senso di mistero tornò a dividerli: di un mistero che riusciva a vincere anche l’attrazione dei sensi. E lei cercò di spiegarlo.

— Domani mattina verrò da lei e parleremo meglio. Qui no.... qui no.... non è possibile parlare d’amore e di gioia. Ho l’impressione che egli sia ancora su nella sua cameretta, a soffrire. Anche lui non credeva più nell’amore, nell’umanità: questo era il suo male peggiore. Tanta ombra mi ha lasciato intorno che ancora non riesco a ritrovare me stessa. Perchè lei non sa, Cristiano, lei non sa tutto... Egli si credeva odiato da me: più di una volta ha tentato di uccidermi...

Cristiano si fece pallido fino alle labbra: chinò la testa e Sarina si accorse che egli chiudeva gli occhi per non piangere: allora si pentì di rattristarlo così e per dissipare un poco la sinistra impressione delle sue ultime parole disse:

— Non le nascondo che l’aspettavo, Cristiano: se sono rimasta qui, in questa solitudine, sono rimasta per lei. Anche per me lei rappresenta la vita... il ricominciare della vita, o meglio di una vita migliore della prima... Forse lei potrà darmi tutto quello che ho sognato da fanciulla, ed io potrò dare a lei quello che ancora le è mancato. In fondo sento ancora di essere una fanciulla; ho il cuore pieno di gioia. Ma mi lasci un poco pensare prima di decidere la nostra sorte.

— Lei non mi ama ancora abbastanza se ragiona così, — egli disse con amarezza.

— Forse è vero... Ma è l’ombra... è l’ombra... — ella ripetè guardandosi attorno: — mi pare sempre di vedere l’ombra di lui. Domani mattina verrò da lei e parleremo meglio.

Ed egli non insistè, perchè anche lui rivedeva l’ombra che lo separava dalla vita, e pensava:

— Bisogna ch’ella mi ami molto, ciecamente, per amarmi anche quando le dirò chi sono.



Fin dall’alba, la mattina dopo, egli accese un gran fuoco nel suo camino, per scaldare la casa. Una nebbia fitta, chiara, chiudeva i finestrini con la sua tenda biancastra: non faceva freddo, eppure di tanto in tanto egli rabbrividiva. Aveva paura che Sarina non venisse, a causa del tempo, o perchè non volesse venire. Ma perchè, se aveva promesso? Non si trattava, poi, d’un convegno colpevole. Eppure egli aveva paura... Ma non le andava incontro per nasconderle questa paura.

Eccola finalmente sulla porta, con una pelliccia nera che fa meglio risaltare il candore perlaceo del suo viso e il rosso della bocca dalla quale esala un tenue vapore.

Quella bianchezza, e il chiarore degli occhi, e la stessa pelliccia brillante di goccioline d’acqua come il pelo d’un animale che ha corso sotto la pioggia, accrebbero la gioia e la diffidenza di lui.

D’un balzo le andò incontro, la cinse con un braccio e la condusse verso il camino lisciandole istintivamente la manica della pelliccia: e quel contatto gli diede un brivido di voluttà. Gli occhi si incontrarono ancora, le labbra si cercarono, senza dar tempo al pensiero di rivelarsi: e tutto fu dimenticato.



Eppure una cosa strana avveniva: mentre la donna tendeva ad andare verso la cameretta di lui, egli la portava verso il camino: e fu il primo a cessare di baciarla, aspettando ch’ella parlasse.

La nebbia s’addensava sulla piccola finestra, seppelliva la casetta; egli pensava che avrebbe potuto esser felice subito, eppure non voleva, e questa volontà esasperava maggiormente i suoi sensi: eppure non voleva.

Lo stesso abbandono della donna lo irritava: sentiva qualche cosa di felino e di ambiguo, in lei, il corpo vicino ma l’anima sfuggente.

— Ho pensato tutta la notte a te — ella disse — tutta, tutta la notte... Sono felice del nostro amore: ti ringrazio, sai, ti ringrazio; e accetto la tua proposta.

— Quale? — egli pensò. — Due sono state le proposte: o sposo o amante.

— Ma bisogna che ci conosciamo meglio, Cristiano....

— Ah, ci siamo! — egli pensò.

— Io credo di conoscerti già tanto — disse con tristezza. — Ti conosco perchè ti amo: tu, però, non mi ami abbastanza.

— Che cosa posso fare più di così? — ella disse, un po’ esasperata. — Sono qui... ti amo. Se non ti pare abbastanza dipende da te che lo sia...

— Come, come posso fare? — egli protestò a sua volta. — Più di amarti così?

Tornò a baciarla: e vedeva gli occhi di lei annegarsi nella voluttà, ma due solchi d’angoscia solcarle le guancie intorno alla bocca.

— Lo so, lo so, quello che vuoi, — pensava. — Vuoi sapere chi io sono. Ma se te lo dico puoi prendermi ancora per amante, mai per marito: non vorrai legarti a me, ma solo saziarti di me per poi lasciarmi. Ed io ti voglio tutta, per tutta la vita: peggio per te che sei venuta a cercarmi fino ai confini del mondo. No, tu non mi ami ancora abbastanza per dirti chi sono.

Eppure fu sul punto di prenderla, e dirle il suo segreto. Momenti di ansia come quando si arriva alla vetta estrema di un monte e si è fra l’ubriachezza dell’infinito e la paura dell’abisso.

— Che posso dirti di me, — cominciò a gemerle sul viso. — Ti ho già detto tutto, un giorno, ricordi, qui. Non ho parenti: solo la mamma che vive molto lontano, nell’Argentina, e poco si cura di me: ha ripreso marito ed è quasi ricca. Anch’io ho tanto da poterti offrire una vita non più stretta di quella che finora hai vissuto. Dopo il secondo matrimonio della mamma e la morte di mia moglie ho vissuto anni così tristi e sconsolati che l’umanità mi è venuta in odio: tre anni or sono cercai una casetta isolata, solitaria, dove passare qualche mese di riposo: ho trovato questa e ancora ci sto.

— Dimmi, dimmi... — ella insisteva, soffiandogli il suo alito ardente sul viso: egli rabbrividiva a quel soffio, e continuava a dirle qualche particolare della sua vita: ma il maggiore segreto rimaneva entro di lui: e gli dispiaceva e nello stesso tempo era felice che la donna non lo indovinasse neppure lontanamente.



Passò un giorno, passò una notte. Chiuso nella sua casetta Cristiano sentiva il lamento del mare e gli pareva il gemito del suo cuore felice.

Poi, all’alba, quando si svegliò nel suo lettuccio fu sorpreso del grande silenzio intorno.

Solo qualche grido d’uccello attraversava l’aria: il giorno pareva sbocciare, nel finestrino della cameretta, come un fiore bianco che a poco a poco si tingeva di rosa.

D’un tratto un picchiettio risonò sul vetro: era un uccellino che vi batteva il becco.

E Cristiano balzò come un bambino, corse ad aprire e gridò di gioia. Nella notte i fiori dei peschi s’erano aperti: sopra ogni fiore brillava una ghirlandina di rugiada: e fili iridescenti, collane sottilissime di perle correvano da una cima all’altra della siepe.

L’aria odorava di resina e di menta. Era la primavera. Ed egli ebbe desiderio di correre fino alla riva del mare, di avvoltolarsi fra i giunchi, di lavarsi con la rugiada.

Il pensiero che fra poco avrebbe riveduto Sarina lo faceva soffrire. Poi cominciò le solite faccende; ed ecco, nel silenzio del primo mattino, un lieve picchiare al cancello lo richiamò all’angoscia del passato, Sarina non poteva essere, a quell’ora. Doveva essere Ghiana.



Ghiana era lì dietro il cancello, col suo paniere, ma talmente mutata che quasi non si riconosceva. Uno scialle fiorito le circondava il viso gonfio macchiato di chiazze color marrone come un frutto guasto, e s’incrociava sul seno, con le frangie ricadenti sul ventre sporgente. La gonna corta davanti lasciava vedere i piedi grossi con le calze turchine e le scarpe infangate.

E il suo sguardo era bieco e smarrito; il respiro ansante: pareva una bestia inseguita.

Entrò risoluta, ma poi aspettò che Cristiano chiudesse e la precedesse, come altre volte. Ed egli chiuse, e la precedette, come altre volte, ma pareva più smarrito di lei. Se la sentiva alle spalle, ansante, pesante, e chinava la testa come se il peso di lei gli gravasse sul collo.

La gioia di poco prima era caduta: l’ombra antica lo riavvolgeva.

Arrivati alla porta. Ghiana accennò a sedersi sulla soglia; egli le ordinò ruvidamente di entrare e la costrinse a sedersi accanto alla tavola.

— Ebbene, — disse scuotendo la testa in segno di rimprovero, — che c’è? cosa sei venuta a fare?

Ella parve cercar la risposta, a testa bassa, nascondendo coi lembi dello scialle il ventre che si sollevava e s’abbassava, ma la risposta era in quest’ansia stessa, e Cristiano si sentiva preso da un tremito che non era più di rabbia ma neppure di gioia. Cercava di non guardarla e non poteva. Pure così deforme, pallida tra i fiori rossi del suo scialle, gli pareva che anche lei facesse parte della primavera; pure lei col suo frutto dentro; e faceva il calcolo dei mesi, ostinandosi a credersi ingannato da Chiana, e cioè che il figlio non fosse suo.

Ella indovinava questo pensiero; disse col suo solito accento sommesso:

— Son quasi sette mesi che il mio Alessandro è tornato: proprio il tre del mese entrante fanno sette mesi, e verso quel tempo, se Dio vuole, nascerà la creatura. Passerà per essere una settimina: sono d’accordo con la comare, che è buona ed ha compassione delle disgraziate come me. Eppoi le ho dato l’anello vostro: non avevo altro, e non potevo metterlo, l’anello. Anche la mia vecchia crede, o finge di credere che io sia al settimo mese. Se Dio vuole tutto andrà bene. Anche il mio Alessandro è contento.

Aspettò ch’egli dicesse qualche cosa: egli taceva, a testa bassa come lei, e non sapeva che dire.

— Solo il vecchio non sembra contento. Non dice niente, ma sta sempre a contare sulle dita, e quando mi parla non mi guarda in faccia. Eppoi grida per ogni piccola cosa. Si capisce che sospetta... Io ho paura di lui: ho paura che Dio mi castighi per mano del vecchio. Adesso è da tre giorni a letto con la febbre, ed anche il mio Alessandro è via, per la visita ai richiamati per la guerra. Speriamo che Dio me lo lasci in casa e non mi castighi anche col farmelo andar via un’altra volta. È tanto buono, povero ragazzo, ancora obbediente ai suoi genitori, come un bambino. E crede in Dio e prega sempre; e mi vuol bene davvero. Io credo che mi perdonerebbe, anche se sapesse... Ma io non voglio farlo soffrire, sebbene a volte sia tentata di confessargli tutto. A me, forse, perdonerebbe — aggiunse timidamente; — ma a voi no.

Egli sogghignava un poco.

— Sei venuta per dirmi questo, dopo tanto tempo che non ti facevi vedere? — domandò sempre più aspro. E cominciò a credere ch’ella volesse del denaro.

— Che venivo a fare? La cosa la sapevate; e se mai, toccava a voi cercarmi. Ma non importa: è meglio così. Io non voglio nulla da voi. Solo... solo ho paura di morire e volevo salutarvi e chiedervi scusa.

— Scusa di che?

— Di avervi dato anch’io pensiero. Certo, era meglio che questa creatura non nascesse: chi sa, poi, se verrà bene, se sarà sana, se sarà buona: Dio può castigarmi anche in questo.

Un’ombra passò negli occhi dell’uomo: gli pareva d’intendere un misterioso sentimento di Ghiana; che ella conoscesse davvero il segreto di lui, e avesse paura che il figlio rassomigliasse nei suoi errori al padre.

Ombre, ombre: egli si mise a camminare attraverso la stanza per scacciarle, ma anche per non guardare più il viso della donna.

— Ma speriamo in Dio, — ella continuava, sempre più intimidita; — e non inquietatevi qualunque cosa succeda. Anche se io dovessi morire, il mio Alessandro penserà alla creatura; e se lui dovesse andare in guerra, resteranno sempre i vecchi.

— Ma perchè vuoi morire? — egli domandò, sempre più impensierito, — perchè?

— Non sono io che voglio morire: è che non sono più tanto giovine, e questo è il primo figlio. Ma non è questo che mi dà pensiero: è che qualche cosa mi deve succedere. Il vecchio me lo dice sempre, senza spiegarsi; e mi fa più paura. Mi dice sempre che i peccati si scontano; racconta sempre storie di figli che hanno scontato le colpe dei padri... A volte mi sveglio, la notte, e non posso più dormire: ho persino paura che lui, il vecchio, se campa, farà del male alla mia creatura: può farla anche morire.

— Tu sei malata. Ghiana, — egli disse raddolcendosi un poco. — Hai scrupoli inutili, che un tempo non avevi. Forse tuo marito, con la sua bigotteria, ti fa più male che bene. Lascia stare Dio in paradiso, e pensa a star bene e a curarti.

Ella parve offendersi: piano piano sollevò la testa, prima con fatica, come le pesasse, poi con uno sforzo duro: una volta sollevata non la piegò più; però ancora non lo guardava in viso.

— Per un’altra cosa son venuta, — disse dopo un momento di silenzio. — La mia vecchia domanda sempre se vendete la casa.

Egli non rispondeva.

— Si hanno i denari pronti; son lì, da sette mesi.

— Da sette mesi! — egli ripetè come fra sè: poi disse di nuovo con asprezza: — non ne trovate un altra, di casa?

— Si vorrebbe questa.

Egli si rimise a camminare su e giù, su e giù per la stanza: e sentiva adesso lo sguardo sornione e scrutatore della donna seguirlo.

D’improvviso le si rimise davanti, minaccioso: in fondo sentiva che Ghiana sapeva del suo amore e a modo suo gelosa era venuta per turbargli la gioia della nuova vita e tentare di allontanarlo dalla donna amata; ma voleva credere a tutt’altra cosa, alla sola avidità, alla sola astuzia di lei.

— Di’ un po’ la verità, — disse brutalmente — tu vuoi che ti regali la casa?

Un’espressione dapprima di sorpresa, poi di spavento alterò il viso di Ghiana: ella non capiva, o non voleva capire.

— Voi volete regalarmi la casa? Come sarebbe? Alessandro allora verrebbe a sapere.... e anche i vecchi....

Poi d’un tratto l’ira la vinse, la fece arrossire.

— Ah, mi viene voglia di sputarti in faccia, — gridò, alzandosi, coi pugni stretti sotto lo scialle. — Tu credi ch’io sia venuta a domandarti qualche cosa? Ti ho domandato mai nulla, io? Va, va, sei un signore ma sei un miserabile. E vi compatisco perchè... perchè...

Non terminò la frase, e si aggrappò alla sedia singhiozzando senza lagrime. Anche lui si sentiva profondamente sconvolto: quel voi ch’ella riprendeva a dargli subito dopo il momento d’ira lo colpiva più che l’ira stessa: sentì ch’ella glielo dava per rispetto a sè stessa, già pentita di averlo ingiuriato bassamente, e per la prima volta anche lui provò un senso di rispetto per lei: rispetto che però non placava lo sdegno.

— Tu mi compatisci, tu! Di che cosa? — gridò. — Dillo dillo subito.

Ella singhiozzava, piegata sulla sedia,

e pareva avesse paura ch’egli la percuotesse.

— Tu mi compatisci? Di che? — egli insisteva, senza sapere veramente perchè questo compatimento di lei gli destasse tanto furore. O meglio, sì, lo sapeva, e voleva ch’ella si spiegasse e finalmente gli dicesse: so chi siete; ma voleva, con la stessa attitudine minacciosa, impedirle di parlare.

— Vattene, e non tornare più qui, se no, non rispondo di me: posso anche accopparti.

— Fatelo! Non ho paura — ella rispose pronta, piegandosi ancora di più, come per prestarsi meglio ai colpi di lui.

Questo lo calmò.

La prese per gli omeri e la costrinse a rimettersi a sedere; poi riprese a camminare.

Nel silenzio sentiva l’ansare di lei, e avrebbe voluto confortarla; ma non poteva, non poteva. Ella era venuta troppo tardi.

— Ho capito il tuo pensiero. Ma perchè vuoi che me ne vada? — disse finalmente, senza fermarsi. — Quello che ha da compiersi si compirà lo stesso, o qui o altrove.

Del resto, non sono stato io ad abbandonarti. Ghiana. Sei tu che non sei più venuta, ed io non potevo venire a cercarti, avendomi tu stessa detto che i tuoi parenti sospettavano. Non vedendoti più credevo che tu stessa desideravi che tutto fosse finito. E credevo che ti fossi ingannata sul tuo stato. Adesso, poichè le cose stanno così, perchè vuoi che me ne vada? Ti aiuterò, penserò io al bambino: non credermi un uomo senza coscienza.

Ghiana scuoteva la testa. No, no, non voleva questo: il rimedio era peggiore del male.

— Io non voglio aiuti, nè per me nè per lui. Eppoi il mio Alessandro non è uomo da ingannarsi più di una volta. Non voglio nulla; solo mi lamento perchè avete cessato di volermi bene.

— Perchè dici questo? Ti ho forse fatto dei dispetti? Sei tu, ripeto, che non sei più venuta.

— Ebbene, potevate venire voi. Un uomo di cuore trova sempre il modo di far del bene. Se passavate una volta sola non davate sospetto: anche con la scusa di venire a dire per la casa. Invece nulla, come non ci si fosse mai incontrati, anzi peggio ancora, come fossero stati due cani a incontrarsi. I cristiani non fanno così: io sono una donna ignorante e voi un uomo istruito, ma quando c’è di mezzo un figlio tutti siamo eguali. Io almeno credevo così. Ma voi non m’avete mai voluto bene, no, no: mi avete considerato come una bestia; ma come tale, allora, dovevate rispettarmi...

— È vero, è vero, — egli diceva fra sè, e ancora una volta pensava al fallimento della sua prova: no, non basta la solitudine a purificare l’uomo.

— L’unica consolazione che ancora potete darmi, — riprese Ghiana sottovoce, come paurosa di rivelare anche a sè stessa il suo desiderio, — è di andarvene, sì. Questo.

— Ma dove andare? Ghiana, ti sembra una cosa da nulla, per un uomo come me, vendere la casa e andare in giro per il mondo in cerca di un’altra casa come la voglio io?

— Adesso che non v’importa più tanto di star solo vi riuscirà più facile di trovare, — ella disse con amarezza.

— Adesso? Adesso più che mai, — egli gridò, ripreso da tutti i suoi antichi rancori.

Se vado, vado a nascondermi in cima ad un monte. Oh, perchè davvero non si è mai soli, mai liberi, mai?

— È Dio che vuole così.

Ella si alzò di nuovo, dopo aver detto questo: e le sue stesse parole parvero convincerla a rassegnarsi, ad abbandonarsi alla volontà di Dio.

— Io vi auguro ogni bene, — disse, — ma badate che l’altra non vi faccia scontare il vostro peccato. Addio.

Ma egli non la lasciò andare: un senso di paura superstiziosa lo vinceva. Sì, sentiva anche lui d’aver peccato, di aver preso la donna altrui come si prende un frutto che è alla portata di mano, di aver gettato il seme della sua vita come il seme al vento, e aveva paura di dover pagare tutto.

— Ghiana, non te ne andare, prendi qualche cosa. Ti darò un po’ di caffè, adesso. Siedi: non te ne andare: non è possibile ch’io ti lasci andare senza che tu mi dica cosa posso fare, poi, per te e per la creatura.

Ella sollevò gli occhi, guardandolo di sotto in su: uno sguardo fermo, luminoso di dolore.

— Ho saputo che dovete sposarvi con l’altra. È questo... Fate quello che volete, ma che siate lontani, che io non senta più parlare di voi... È questo...

Egli chinò di nuovo la testa: e non sapeva perchè, la sua felicità gli appariva adesso meno grande di prima.

— Se io decidessi di andarmene anche di qui, lontano, in un luogo ove non si saprebbe più nulla di questi luoghi e della gente che conosciamo, tu verresti con me? — le domandò: e non sapeva se parlava con convinzione o se voleva provare la donna.

Ella rispose subito: — Verrei.

— E tuo marito, allora? poco fa dicevi di non volerlo far soffrire.

— Prima di lui siete voi.

— Io potrei maltrattarti, Ghiana: conosci il mio carattere.

— Che importa? Appunto perchè vi conosco non ho paura di voi.

— Tu mi conosci! — egli disse come fra sè. — Mi conosci davvero? Sai chi sono?

— Sì, — ella disse finalmente.

— Chi te lo ha detto?

— Il vecchio.

— Come lo ha saputo?

— Io non lo so: so che me lo disse più volte, forse per convincermi a non venire più da voi.

— Ebbene, Ghiana, chissà che un giorno, davvero, io non abbia bisogno di te. Adesso vattene, e sta tranquilla, e cerca di far venire bene al mondo la nostra creatura. Vuol dire che sarà davvero quel che Dio vorrà: comincio anch’io a credere in lui. Tu, forse, — disse sottovoce, — sei il filo che mi riconduce a lui.

Ella spalancava gli occhi, come per intender meglio le misteriose parole: e una gioia confusa le agitava il cuore. Le sembrava di aver finalmente conquistato l’uomo: di potersene andare con lui per il mondo, di guidarlo come si guida un cieco. Confusamente, ma sentiva queste cose; e pensava con gioia al suo nuovo stato, agli stessi pericoli ai quali si esponeva: ma sopratutto a quanto diceva, fra le altre cose, il vecchio bene informato: che Cristiano era molto ricco!



Egli fece scaldare una tazza di caffè e gliela offrì quasi timidamente: ed ella prese del tutto coraggio: sorbiva lentamente il caffè e sollevava gli occhi verso gli occhi di lui, con l’antico sguardo languido di desiderio e di voluttà: ma questo ricominciò ad irritarlo, oltre che a destargli un senso di ripugnanza.

Ed ecco che anche in Ghiana rivedeva la bestia; così, subito dopo ch’ella gli si era rivelata come un’anima; ah, bisogna essere duro con le donne; Cristiano: duro come il domatore che solo con la minaccia della sofferenza e della morte tiene fermo l’istinto cieco delle belve.

Quando ella s’alzò per andarsene non la trattenne oltre: anzi l’accompagnò fino al cancello e le mise una busta con denaro nella tasca del grembiale. Ella non rifiutò: ed egli si fermò a guardarla mentre si allontanava.

Si allontanava piano piano, col paniere sul capo e i fianchi ancora dondolanti: vista di dietro era sempre lei, e Cristiano si rinfrancava pensando che in fondo essa era buona e non lo avrebbe perseguitato.

E si rassicurò del tutto quando vide che arrivata allo svolto del sentiero ella traeva di tasca la busta e ne contava lentamente i denari.



Più tardi venne l’altra e le ombre si dileguarono.

E per giorni e settimane parve che la luce sola regnasse sulla terra. Anche le notti erano chiare, illuminate dalla luna: una luna così limpida e lucente che sembrava un astro nuovo appena creato, e al vederla sorgere, nel crepuscolo di rosa, sempre più grande e più vivida dava l’impressione che dovesse trasformarsi in sole.

La terra raggrinzita si distendeva al tepore del sole, riprendeva la sua veste verde bordata di violette: anche il mare se ne stava placato come un vecchio guerriero che dopo tante battaglie si abbandona ancora a sogni d’amore: e arrossiva tutto al bacio della sera primaverile.

I due vedovi si amavano, liberi anche di loro stessi, poichè ciascuno viveva in casa sua e si vedevano solo nelle ore in cui il bisogno di vedersi li spingeva all’incontro.

Così, tutte le cose andavano bene. Eppure Cristiano non era felice.

La visita di Ghiana gli aveva lasciato un’ombra attorno, ed era deciso di confessare ogni cosa all’altra: ma neppure nelle ore di più intenso amore riusciva a dirle il suo vero pensiero: e dopo si sentiva più solo che mai.

Un giorno, però, ella acconsentì ad uscire assieme: assieme andarono sotto il sole, nella viva luce del mattino, più uniti così che nell’interno delle loro case.

Il cane scodinzolava nel vederli allontanarsi; la serva li guardava dalla porta come due fidanzati avviati a sposarsi.

Giù nel sentiero egli la prese sotto braccio e si tenne la mano di lei stretta sul petto. Lei lasciava fare: camminava però un po’ distratta e assente, lasciandosi portare; solo allo svolto della siepe ebbe un movimento per dirigersi al cancello del giardino di lui: ma egli la trascinò dolcemente oltre.

Andarono verso il mare. — Ricordi, — egli le disse, — la prima volta che ci siamo incontrati? Io ho ancora l’impressione che tu avessi qualche cosa di luminoso intorno, che non mi permetteva di guardarti: tu invece mi vedevi bene, con la mia brocca e il mio secchio e mi credevi un povero diavolo.

Ella si mise a ridere, ma ancora un po’ distratta; poi gli avvicinò il viso al viso, attirando gli occhi di lui con quel suo sguardo profondo che gli divorava l’anima:

— Povero o ricco, sai cosa eri per me? Eri un uomo.

— Allora, — egli domandò con voce rauca, — tu hai scelto subito? Ma pensavi che un uomo ha nella sua vita, come tutti gli uomini, debolezze ed errori?

— Non lo so; non ci pensavo.

— E adesso ci pensi? Dimmi la verità, Sara, parliamoci un poco: se non cerchiamo di conoscerci adesso forse non ci conosceremo più. Tu avevi ragione, quella mattina che sei venuta a darmi la risposta: bisogna conoscersi. In fondo, anch’io non so quasi nulla di te.

— Che vuoi sapere di me? — ella disse, ridendo di nuovo. — Mi hai fra le mani come una bambola: spezzami e vedrai che dentro non c’è alcun mistero. Ti ho raccontato già cento volte tutto di me. Ho sognato da ragazza tutte le cose che sognano le ragazze, l’amore, la ricchezza, la vita in città, e non ho avuto nulla. Ho sposato un uomo che mi è morto fra le braccia molto tempo prima che fosse morto: e l’ho dovuto tener così, cadavere, durante gli anni più belli della mia giovinezza. Eppure gli volevo bene; tu l’hai veduto: la pietà me lo attaccava al cuore; era diventato come un mio figlio. Ma avevo bisogno d’altro! Avevo bisogno di un uomo vivo perchè ero viva anch’io. E tu mi sei apparso nella solitudine....

— Tu dunque mi hai scelto solo per questo? Qualunque altro uomo ti fosse apparso....

— No, qualche cosa di speciale l’avevi. Sapevo che vivevi solo; un’atmosfera di mistero ti circondava.

— Potevo essere un poco di buono, oltre che un povero diavolo.

— Oh, no: il viso ti rivelava un galantuomo. A dir la verità, pensavo che tu fossi un artista: è facile che un artista, a un dato momento, cerchi di segregarsi, di far la vita dell’eremita.

Egli tacque per alcuni momenti, continuando a stringersi la mano di lei sul petto; avrebbe voluto camminare così, per tutta la vita. Fu lei a fermarlo; erano sulla riva del mare e non potevano andar oltre, ma pareva si fossero fermati semplicemente come ci si ferma in mezzo alla strada per proseguire meglio un discorso,

— Quella contadina, Ghiana, che veniva per i servizi, parlava sempre di te, in modo strano, reticente e insistente: pareva fosse innamorata di te, ma non volesse farti apparire sotto una buona luce: forse per gelosia; ad ogni modo aveva bisogno di parlare di te, e non se ne andava se prima non riusciva a vedermi e dirmi qualche cosa sul conto tuo. Così io sapevo com’era l’interno dalla tua casa, le tue abitudini, il tuo carattere. Ella affermava ch’eri un gran signore, e che nel tuo passato c’è un mistero; ella accennava a conoscere questo mistero ma non voleva dirlo. Solo, un giorno, disse che più che per elezione eri costretto a viver così per altre ragioni.

— Quali ragioni? — egli domandò col suo antico accento brusco, staccandosi da lei.

— Io non so: lo diceva lei.

— Che ne sapeva di me quella villana?

Io non le ho mai fatto confidenze.

— Ne sei sicuro? — ella domandò guardandolo con malizia. — Ci son dei momenti in cui si parla senza avvedersene....

Egli si fece pallido, grave.

— No, sono certo di non averle mai fatto nessuna confidenza.

Sarina sollevò la testa, sul collo rigido; i suoi occhi presero una luce fredda, diffidente.

— Se parlo mi lascia subito, — pensò Cristiano; — ma è necessario.

— È necessario ch’io ti dica una cosa, — cominciò con grande calma; — prima che ti conoscessi, ho avuto rapporti intimi con Ghiana. Non che io le volessi bene.... ma ella veniva da me, ed io ero così solo.

Sarina abbassò gli occhi, come per pudore; ma non protestò.

— Sono uomo.... tu stessa lo hai detto.

Adesso, anzi da un certo periodo di tempo, da appena ho sentito che dovevo amarti, fra me e Ghiana tutto è finito, e finito per non più ricominciare. Io spero che tu non mi terrai rancore, Sarina.

Per risposta ella gli tese la mano, come aveva fatto la sera della prima dichiarazione di lui: ma egli non la prese.

— Ascolta, non è tutto: Ghiana deve avere un figlio: e dice che è mio. Essa non pretende nulla da me; anzi m’impone il silenzio: io però sento egualmente la mia responsabilità. Io dovrò aiutare questa creatura: ancora non so come, ma so che sarà mio dovere di aiutarla, come era mio dovere, adesso, di non nasconderti nulla.

Ella aveva ritirato lentamente la mano, ma d’un tratto gliela porse ancora. Ed egli la prese, con sollievo e con gioia. Gli pareva d’aver superato una prova molto più difficile di quella che realmente aveva superato: e ne era quasi grato a Ghiana.

Se Sarina gli perdonava quel suo errore, così vivo, così presente, era segno che lo amava davvero: solo una donna che ama perdona così.



Fu la prima lei, qualche giorno dopo, a parlare di nozze.

Che aspettavano? Egli le aveva fatto vedere i titoli di rendita che possedeva, ed erano sufficienti a rassicurarla per l’avvenire. D’altronde ella sperava di toglierlo da quella sua vita sterile: lui stesso faceva progetti vaghi che cambiavano ogni giorno; ma non riusciva a nascondere la sua inquietudine per l’avvenire, se questo doveva svolgersi in un altro ambiente, nel tumulto della città. E non aveva fretta di concludere il matrimonio.

— Spero non avrai moglie, — gli disse Sarina con uno scherzo che velava un oscuro timore.

Allora egli scrisse per far venire le carte. E lei le sue.



Arrivarono le carte, e tutti e due andarono assieme al paesetto per portarle al parroco e al Sindaco.

Sarina rideva e saltellava come una rondine: ma l’uomo era triste: sembrava uno sposo pentito.

Mentre tornavano lungo la spiaggia disse:

— Sara, devo dirti una cosa. Ghiana ha trovato modo di farmi sapere che ha avuto un bambino. Il vecchio, del quale aveva tanta paura, è morto: il marito è richiamato in servizio militare.

— Vuoi andare a trovarla?

— Non prendere le cose tanto alla leggera, — egli disse camminando pesantemente come se affondasse nella rena. — Fra me e lei tutto è finito, e non occorre che se ne parli più. Ma il bambino mi dà pensiero: anche per te.

— Per me? Se non avremo figli lo adotteremo.

Parlava sul serio? A volte, sì, ella era sventata come una fanciulla: tutto le sembrava facile, tutto rimediabile. — Mi fa quasi rabbia questa tua assenza di gelosia, — disse Cristiano prendendole il braccio: ma per appoggiarvisi lui: — si direbbe che non mi ami.

— Chi veramente ama e si sente riamato, non può sentir gelosia. Eppoi, no, non parlo alla leggera, Cristiano. Io accetto tutti i tuoi obblighi e le tue responsabilità: voglio che tu, se la tua coscienza lo vuole, aiuti quel bambino, non solo, ma ti aiuterò ad aiutarlo, se tu me lo richiedi.

Egli non parlò per un pezzo: camminava appoggiandosi a lei; e pareva lo facesse apposta, per farle sentire col peso della sua persona il peso delle sue cose interiori.

Quando furono sul ciglio della strada, ov’egli s’era nascosto la sera del loro ritorno dal paese, si fermò, si guardò attorno, respirò.

— Sediamoci qui, — disse; — senti, l’erba è calda, sembra un velluto. Ho da parlarti, — riprese, quando lei gli fu seduta accanto. E poichè lei sorrideva, lievemente ironica per questo suo accenno a nuove confidenze, si fece scuro in viso. — Un tempo, cioè fino a pochi mesi fa, anzi fino a poche ore fa, mi pareva di non poter più camminare con nessuno, neppure con te, anzi con te meno che con gli altri. Non per orgoglio o per fierezza, ma per disperazione. Anche adesso, sono certo che appena ti avrò detto tutto come spero e voglio dirtelo, tu ti alzerai e te ne andrai: ti vedo già come una figura di sogno che deve fra poco dileguarsi.

Ella impallidì, ma non parlò.

— Sono certo.... Eppure no, in fondo spero il contrario, ed è perciò che ti parlo; tu non mi lascerai, no; perchè non sei un sogno, no, sei una donna vera, piena d’amore e di pietà, sei la mia Sarina, anima mia, anima mia....

Proteso su lei le stringeva e le baciava le mani con disperazione, chiudendo gli occhi per non vederla; ma la sentiva tremare, vinta da un senso di paura misteriosa, e non osò proseguire.

— Non fare così, — ella mormorò baciandogli i capelli. — Mi fai paura, mi ricordi quasi l’altro. Perchè devo lasciarti? Non ho lasciato lui che non amavo e devo e posso lasciar te che amo?

Egli si sollevò; la speranza lo sorreggeva di nuovo.

— Io sono peggio dell’altro, Sara. Egli, almeno, era mite; non faceva del male, o se faceva soffrire non era volontariamente. Io invece ho dato tanto dolore, ho fatto infinitamente soffrire sapendo di farlo.

— Ti ho già raccontato qualche cosa della mia vita, — proseguì dopo un attimo di silenzio guardando il viso di lei che già si copriva di un velo di tristezza se non ancora di diffidenza: — ma non è tutto. Ti ho già raccontato che feci un matrimonio d’interesse. Lei era la proprietaria del palazzo dove noi si abitava: era più vecchia di me di dieci anni. Ma aspetta, voglio raccontarti tutto. Noi, io e la mamma, eravamo suoi lontani parenti e lei ci aveva beneficato: la mamma, rimasta vedova giovanissima con me bambino, senza mezzi, senza possibilità di procurarsi, in quei tempi, un lavoro sufficiente a farci vivere, in un momento di disperazione era ricorsa a questa parente o meglio al padre di lei che pure godeva fama di avaro e di usuraio. E quest’uomo ci aveva accolto nel suo palazzo, che era poi una di quelle immense case d’affitto gonfie di cornicioni, che fanno melanconia a guardarle. I proprietari, padre e figlia, abitavano il primo piano, prima scala, con loggie d’angolo riparate da tende e stuoie: noi salivamo i cento sessanta gradini della terza scala per arrivare all’appartamento di due camere e cucina che guardava sul cortile e sui tetti. La mamma tutte le sere mi faceva recitare una preghiera per il nostro benefattore e per la sua famiglia. E fin lì ci arrivavo: pronunziavo ad alta voce i versetti della preghiera e le parole dell’offerta; ma dentro di me, ed anche con la bocca e col viso, se si era al buio, facevo le più orribili smorfie: e sentivo di peccare, ma non resistevo al peccato: e sentivo di essere un ingrato ma ne provavo quasi gusto. E invece di commovermi al pensiero che l’uomo designato dalla voce pubblica come un avaro e un usuraio era invece un silenzioso benefattore, mi permettevo di credere che tutti quelli che facevano elemosine e aiutavano i poveri fossero segretamente avari e usurai.,

«La mamma a volte pareva indovinasse i miei sentimenti e per punirmi mi costringeva di tanto in tanto a scrivere una letterina di ringraziamento al nostro benefattore. Era quasi sempre la stessa, con poche e fredde parole di riconoscenza: ma a me costava uno sforzo supremo come se con quella facessi una dichiarazione di miseria, d’impotenza, di viltà. Allora mi prendevo il gusto di tormentare la mamma.

— Se quello muore, — le dicevo, — la figlia ci caccia via: dicono che è più avara del padre.

— Tu crescerai, intanto, e non avremo più bisogno di loro: pensa a studiare e, se Dio vuole, potremo forse un giorno anche noi essere utili a loro.

— Sì, sì, ma se intanto quello muore.... Non so ancora perchè desideravo che il nostro benefattore morisse presto, che la figlia ci mandasse via: forse era un presentimento, la visione istintiva di quello che altrimenti doveva succedere.

Il benefattore non pensava a morire. Lo incontravo quasi tutti i giorni, grasso, rosso, ansante di benessere: lo salutavo e passavo di corsa pauroso che egli mi fermasse: ma in fondo sentivo ch’egli non pensava a fermarmi e il più spesso neppure mi vedeva.

Intanto studiavo: il mio scopo, più che di guadagnarmi buoni punti, era di farmi esentare dalle tasse: e ci riuscivo. Del resto lo studio mi era facile: capivo tutto. La mamma lavorava: spesso andava a cucire a giornata: allora stavo solo in casa e facevo tutto da me, la pulizia, la cucina; lavavo e stiravo, fischiando e cantando come un merlo. Erano giorni felici, perchè da lontano sentivo di amare la mamma con tenerezza infinita e mi pareva di aiutarla lavorando per lei, mentre se lei era in casa soffrivo nel vederla lavorare per tutti e due.

Quello che notavo era che essa non andava mai a lavorare dai nostri ricchi parenti, che pure dovevano aver cucitrici e sarte tutti i giorni in casa. Era lei che non voleva o loro che non la chiamavano? Non glielo domandavo, ma ero contento che così fosse. Intanto gli anni passavano: passavano rapidi forse per la loro stessa monotonia, un giorno come l’altro, un anno come un giorno. Ecco ho diciotto anni, e mi sembra di averne ancora dodici: ho venticinque anni e sono laureato in legge e mi sembra di essere ancora nelle scuole elementari: vinco un concorso, ho un impiego, uno stipendio, e viviamo ancora, io e la mamma nell’appartamentino del quale non paghiamo l’affitto. Ma il mio pensiero costante è di pagarlo finalmente questo affitto: ho deciso di andare io stesso dal benefattore, ringraziarlo e chiedergli di pagare: perchè ti parrà strano, Sarina, ma durante tutti quegli anni io avevo sempre cercato di sfuggire, come un debitore qual ero, l’incontro col padrone di casa, ed egli, a sua volta, non s’era curato di fermarmi.

Ed ecco il giorno che rientrando a casa decido di salire la prima scala, trovo il portone socchiuso: il proprietario era morto!

Fu la mamma, allora, che andò a pagare l’affitto e fare le condoglianze alla nuova padrona di casa: e mi disse che questa ignorava completamente l’opera benefica del padre. E credo che così fosse perchè più tardi nelle nostre spietate questioni non mi rinfacciò mai il benefizio.

Che accadesse tra lei e la mamma io non so bene: so che la mamma continuò a farle visite: e ogni volta tornava eccitata, felice, come fosse stata ad un appuntamento amoroso. E parlava di lei con venerazione, con orgoglio, senza nascondermi le sue mire ambiziose.

— Ma perchè non s’è sposata prima? Adesso è vecchia, — dicevo io: — non la voglio.

— Tu devi conoscerla: è così sola, fra tutti i suoi servitori e i suoi sfruttatori che fa pena a pensarci.

Ed io, piano piano, mi lasciavo prendere nella rete che mi tendeva la mamma: piano piano mi lasciai condurre da lei, quasi per mano, come da bambino mi conduceva nei giardini dove c’era il sole e la gioia del gioco: piano piano mi trovai legato, sbalzato dall’ultimo al primo piano della casa dove ero entrato per elemosina e della quale diventavo padrone.

Solo una madre può fare questi miracoli: solo l’amore materno, che ha una continua paura dei più gravi mali per il figlio, può creare a questo figlio i più gravi mali del mondo. E allora io, quando cominciai ad essere infelice, senza una vera ragione, o forse più per orgoglio che per altro, andavo da mia madre a tormentarla, e le dicevo che la causa di tutto era lei, che avrebbe dovuto far di me un operaio com’era mio padre e tenermi al mio posto invece di buttarmi in una vita che non era la mia e far di me uno spostato, uno che ricerca sempre il suo centro di gravità e non lo trova più se non abbandonandosi sulla terra morto. E arrivavo a questo, Sara, arrivavo a invidiare mia madre ch’era rimasta lassù nel nostro piccolo nido, dove io piombavo ogni tanto con una mania di distruzione, come fanno certi uccellacci appena usciti di minorità. Poi tornavo in casa di mia moglie più arrabbiato di prima: arrabbiato per aver fatto soffrire mia madre, e per la mia impotenza a rompere tutto e tornare alla vita di prima. Il guaio è che non vedevo scampo neppure in questo: anche ad aver la forza di farlo, sentivo che non avrei ritrovato che maggiore inquietudine.

Tutto mi saziava e nello stesso tempo mi irritava, della mia vita presente; e questa mia vita mi sembrava ancora più vuota di quella che conduceva mia moglie, con le sue sarte, le sue modiste, le sue amiche, le sue opere di beneficenza ridicole e grottesche. Invidiavo mia madre, sì, che non aveva cambiato vita, che mi guardava sempre allo stesso modo come quando ero bambino e dormivo ancora con lei tutti e due puri come la rosa col boccio. Anch’io l’amavo sempre, la mia mamma, che era giovine ancora: a giorni sembrava più giovine di mia moglie. Dopo che viveva sola e non faticava più per me, rifioriva di una bellezza dolce, melanconica, d’una bellezza di autunno, che aveva vergogna a mostrarsi. I suoi capelli rassomigliavano ai tuoi, Sarina, dorati come da un riflesso esterno; i denti erano intatti, la bocca e gli occhi puri, ancora nuovi. E del resto, di che aveva sofferto, lei, per invecchiare? La sua vita era ferma; il male e il vero dolore non l’avevano intaccata: poichè anche lei non era stata innamorata di mio padre e la morte di lui l’aveva forse lasciata indifferente. Era vissuta solo per me, e credo che un calcolo istintivo, un sogno che forse ella coltivava fin da prima che io nascessi, l’avesse condotta a domandare aiuto al parente ricco. Ella aveva coltivato questo sogno come aveva coltivato la mia infanzia, la mia giovinezza; eccolo adesso divenuto realtà: che volevo di più? Eppure lei capiva che io soffrivo, e non riusciva a spiegarsene il perchè complicato, o meglio non voleva spiegarselo per non turbare la sua coscienza.

— È il troppo benestare che ti fa così, — mi dice un giorno che la tormento con le mie lamentele: — quando eravamo poveri e dovevi studiare e mi lasciavi in pace perchè sapevi che dovevo lavorare per te, eri migliore. Sì, certo, era meglio se sposavi una donna povera.

— Io non dovevo sposarmi per niente, io dovevo aspettare, a sposarmi, di incontrare una donna che mi piacesse davvero, che mi amasse.

— Tua moglie ti ama: sei tu che non la ami: sei tu che non ami nessuno.

— È vero, è vero.

Era vero: all’infuori di lei, della mamma, non amavo nessuno. Il perchè non lo sapevo, non cercavo di saperlo: pure divorato da un bisogno struggente di amore, non riuscivo ad amare, e l’amore dei pochi che mi volevano bene non trovava risposta in me. Era egoismo? Non credo perchè allora mi sarei appagato del mio benessere materiale; la verità è che mi sentivo solo, in una terribile solitudine interiore, e invano cercavo di uscirne: un mistero inesplicabile me lo impediva.

Mia madre mi guardava con tristezza e con paura quando io le parlavo di questo e cercavo di spiegare più a me che a lei l’origine del mio male.

— Se noi restavamo nei quartieri popolari, in mezzo alle gente simile a noi, come le api nell’alveare o le formiche nella tana, forse divenivo un altro. Invece siamo venuti a star qui, in un palazzo di gente benestante che non ha avuto contatto con noi: ci siamo esiliati, siamo vissuti come di nascosto, sempre soli, diffidenti e umiliati; e così si è formata l’abitudine, in me, di tutto questo.

Ella mi guardava con tristezza e con paura. In realtà anche lei era una solitaria; non veniva mai a casa mia, forse anche lei per orgoglio; aveva paura dei servi: ma voleva bene a mia moglie, e mia moglie le voleva bene e saliva spesso da lei per lamentarsi, a sua volta, di me e delle mie stranezze: e le portava provviste e regali.

Io arrivai a tal punto di odio che imposi alla mamma di non accettare questi regali, e divenni geloso del suo affetto per mia moglie e, pur sapendolo un affetto sincero, glielo rinfacciai come un calcolo interessato.

La mamma non mi rispondeva più: non volle più nulla da noi: ma un giorno non la trovai in casa: era di nuovo andata a lavorar fuori a giornata. Le rabbie che mi son preso! Eppoi un giorno trovo dalla mamma un giovane, quasi un ragazzo, ch’ella aveva conosciuto appunto in una casa dove andava a lavorare: era un operaio ma sembrava un figlio di buona famiglia, ben vestito, col viso bianco e liscio e gli occhi azzurri innocenti. Era timido, e arrossì quando la mamma me lo presentò. Che cosa veniva a fare da lei questo idiota? Io lo intesi subito e divenni mille volte più inquieto e infelice di prima. Non osavo scacciarlo, ma mi beffavo di lui: e quando egli se ne andava facevo scene violente alla mamma, minacciandola di chiuderla in una casa di salute se non cambiava vita. Io ero sinistramente geloso del suo giovane amico e della loro nascosta felicità; sentivo che si amavano, che si possedevano, che avevano un bene a me negato ed era questo il segreto della mia gelosia, del mio sdegno.

Così anche la mamma divenne una nemica per me: o peggio ancora mi accorsi ch’ella aveva paura di me.

Un giorno scomparve di casa; era partita col suo giovane amico, e per mesi non ne seppi più nulla, finchè mi scrisse ch’erano fuggiti per paura: emigrati in America s’erano sposati e lavoravano e guadagnavano molto: adesso sono quasi ricchi.

Tutto questo rese più aspre le relazioni con mia moglie: non che avvenissero scene, fra noi, anche perchè io avevo terrore dei servi, sopratutto dopo la fuga della mamma, fuga della quale si conosceva il motivo; anzi non ci si parlava, quasi: ma fra noi due cresceva qualche cosa di duro, di misterioso; come un albero basso, scuro, che ci copriva di ombra e di freddo e intorno al cui tronco svoltavamo di continuo per non vederci e nello stesso tempo per inseguirci, con un silenzio più tragico di ogni parola. Perchè, in fondo, avevamo paura uno dell’altro: lei era una donna che sotto una apparenza mite e passiva, nascondeva una volontà, un’ostinazione e un orgoglio profondi. Non si separava da me perchè troppe critiche aveva destato col suo matrimonio disuguale; ed anche perchè, veramente, mi amava. Con tutti i miei difetti, o appunto per essi, mi amava: d’un amore sensuale che conosceva solo i sacrifizi momentanei, che nascondeva un fondo di rancore e di odio, senza carità, senza pietà, ma sempre amore. Oh, che il tuo amore non sia così, Sarina!

La donna spalancò gli occhi come destandosi da un sogno e balzò protestando.

— Cristiano!

Ma già nel solo accento di quella voce che s’era come arrugginita egli credette di sentire un principio di ostilità. Forse Sarina aveva già inteso tutto: ed egli per un momento pensò di deviare il suo racconto, di falsarne ancora una volta la fine: tanto più che ella tentò di difendere l’altra per difendere sè stessa. — Sei poi certo, Cristiano, ch’ella fosse così? È un eterno malinteso che regna fra due che si amano: qualche cosa li spinge ad unirsi, qualche cosa li spinge a pungersi per separarli. E tu? E tu non hai l’apparenza di non voler e di non poter dare il tuo cuore vivo? Anche lei forse era così: solo l’apparenza. Tu stesso forse l’odiavi e l’amavi: altrimenti avresti trovato la forza di separarti da lei.

— E vero, sì! L’odiavo perchè l’amavo e il mio dolore era appunto questo odio: per me lei era la fortuna stessa, quella che avevo sognato adolescente nei giorni delle privazioni: era la bellezza, la ricchezza, l’intelligenza — perchè era anche intelligente: — era la primavera eterna che avevo desiderato nei giorni di freddo, quando l’amore di mia madre non bastava a scaldarmi; era sopratutto l’amore: e il vedermela sfuggire come l’acqua fra le dita accresceva la mia rabbia. A volte arrivavo a maledirla, a desiderarle la morte. Poi mi abbandonavo stanco, e mi pareva di aver distrutto e rotto ogni cosa intorno a me: ma dal profondo del cuore mi risaliva la passione, e io andavo in cerca di lei, la riprendevo, ricominciavo ad amarla, ad odiarla, a tormentarmi e tormentarla.

Egli si fermò: pareva avesse detto tutto. — Ebbene, — mormorò Sarina, — adesso perchè tormentarti ancora? Tutto è finito, e non c’è ragione che il passato si rinnovi nell’avvenire. Tu non mi amerai così, né io ti amerò così. Eppure....

— Eppure?

— Sono quasi gelosa del tuo amore passato. Tu lo hai ancora vivo nel cuore, Cristiano!

— Sara, — egli disse allora, ritraendosi e nascondendo il viso sull’erba, — passa sopra di me, ma non parlare così.

La voce di lei risonò chiara, chiamandolo: pareva quella di una madre che richiama il bambino allontanatosi da lei.

— Cristiano?

— Cristiano! — egli ripetè sollevandosi sui gomiti, col viso fra le mani. — Ricordo quando chiamavi tuo marito. Lo chiamavi così, come dal profondo di un abisso.

La donna non replicò, punta anche lei nei suoi ricordi. Ed egli ricominciò a raccontare, ma a sbalzi, prendendo dalla sua memoria le cose che più lo tormentavano.

— Il tempo passava ma non guariva anzi accresceva il male. Non credere che io non abbia tentato di rimediarvi, ma era una cosa più forte di me, era il mio destino. Avevo forse troppo amato le cose vane della vita, e la vita mi castigava. Non credere che io non avessi coscienza del mio stato e non cercassi di sollevarmi; ma ricadevo più a fondo. Studiavo e lavoravo: lavoravo e guadagnavo molto, ma il lavoro nel quale cercavo di affogare il mio male, lo aumentava. Mi sforzavo a mescolarmi alla vita degli altri uomini, ad essere come loro, a tentar di fare quello che essi dicono deve fare un uomo vero, per il bene e la grandezza comune; ma vedevo troppo lo scheletro di tutte le cose, e anche nelle più apparentemente belle e compatte vedevo il disordine e la fragilità. Eppure tentavo di disingannarmi, e di credere, e anche non credendoci invidiavo la gioia altrui, l’amore altrui: anzi vedevo l’amore in ogni cosa, come il nocciolo in ogni frutto: dentro ogni ambizione, dentro ogni vizio: e il mio male era quello, di sentire anch’io questo nocciolo dentro di me ma col seme morto. E poichè ogni mio tentativo di amare altre persone, altre cose, riusciva vano, ne incolpavo lei: e quello che più mi esacerbava era il sapere, in fondo alla mia coscienza, che la mia accusa era ingiusta. La verità era un’altra, adesso lo so, e del resto lo sapevo anche allora: la verità è che cerchiamo l’amore fuori di noi, mentre è solo dentro di noi, è dall’amore vogliamo solo la gioia mentre esso dà più dolore che gioia. Avessimo avuto dei figli; — proseguì dopo un momento di ansia — forse non li avrei amati, ma mi avrebbero impedito di ripiegarmi così continuamente su di me e divorarmi da me stesso. Ma tutte queste sono considerazioni inutili che rimbalzano sempre dentro la mia pena e non servono che a tenerla più desta.

La donna ascoltava: aspettava e aveva paura della fine del racconto; e d’un tratto prese a parlare come tentando di cancellare i ricordi penosi di lui, coi suoi non meno penosi.

— Ebbene, tutto è passato. Perchè tormentarti ancora così? Anch’io ho sofferto, nel matrimonio, come credevo che nessuno avesse sofferto. Tu hai ragione; cerchiamo l’amore e la gioia fuori di noi, mentre non sono che dentro di noi. Anch’io soffrirò per il distacco continuo da mio marito. Egli mi costringeva a vivere nella solitudine, mentre io non avevo che desiderio del mondo; della vita in comune con gli altri miei simili. Ho sempre avuto anch’io la nostalgia d’un luogo ove mi pare di aver vissuto e goduto e dove vorrei tornare, così, come l’acqua che tende al mare. Ed egli sentiva in me questo bisogno, e ne soffriva. E il sentirsi solo, nella sua misteriosa solitudine, accresceva certo il suo male. Anch’io ho dei rimorsi: chi può sapere? Se l’avessi amato meglio forse non si sarebbe ammalato. Ma adesso, infine, tutto è passato, tutto è lontano. Essi sono morti e non soffrono più: perchè dobbiamo tormentarci ancora con questo gioco d’ombre? Sollevati, Cristiano, guarda quanta luce è intorno a noi.

Ella gli accarezzava i capelli, tentava di sollevargli il viso: ma egli sembrava inchiodato al suo ricordo; e la sua testa ripiombava giù, dura, pesante.

Parve anche irritarsi per le carezze di lei: si ritrasse di nuovo, disse con la voce rude dei cattivi momenti:

— Devo parlarti ancora: non mi toccare, non guardarmi neppure. Bisogna che le nostre anime s’intendano solo per mezzo della nostra voce.

E la voce di lei mormorò, intimidita e ansiosa, ma già diffidente:

— Parla.

— Ascolta; non ti spaventare. Io sono stato pazzo: così, almeno, affermava mia moglie, che mi fece prendere, mi fece chiudere in una casa di salute. Lei affermava che avevo tentato di ucciderla. Io non lo so.... Io non lo so, Sarina! Ho di tutto quel tempo un ricordo confuso, come di una malattia con delirio. Sono stato otto anni, nella casa di pena: finchè lei è morta.



La donna taceva.

Egli non la guardò, non si mosse; ma dopo qualche momento di silenzio pauroso disse con voce umile:

— Dimmi subito quello che pensi. Dimmelo; non aver paura di me.

Rispose il pianto sommesso di lei: ma come interpretarlo: di orrore o di pietà?

Ed egli si riabbandonò sulla terra, con l’impressione di aversi scavato da sè una buca profonda e di non poterne uscire mai più.



Eppure non si pentiva di aver parlato: gli pareva di essersi tolto una maschera, anche davanti a sè stesso, e di potersi finalmente stendere nudo nel suo dolore.

Ed ecco che anche lei lo richiamava, con la stessa pietà, con lo stesso amore disperato col quale un tempo chiamava l’altro.

— Cristiano?

Egli sollevò gli occhi, incontrò quelli di lei; ma le anime non s’incontrarono più: uno spazio misterioso le separava.

— Alzati, — ella ripetè, con tanta pena ch’egli subito si sollevò e prese anzi una posizione dignitosa, quasi rigida.

E dapprima guardò la donna con una strana scintilla nell’angolo degli occhi, come di lagrime congelate: sguardo cattivo, crudele, di chi cessa di piangere e gode del dolore che ha destato col suo: ma poi d’un tratto gli occhi gli si velarono di nuovo; e parve ricordarsi di una cosa completamente dimenticata.

— Perdonami, — disse; — io ti faccio soffrire.



— Del resto, — aggiunse, con una calma troppo grave per essere spontanea, — io credo di esser guarito. Tu mi conosci; non hai avuto mai alcun sospetto. Io credo di essere cosciente, anche troppo cosciente. È vero che tu, un giorno, dicevi: i pazzi sono più vicini di noi alla verità.... Sara, ricordi tutte le cose che dicevi? Ogni tua parola mi pungeva. E tu non sospettavi di nulla: vuol dire che io ti apparivo sano.

— Sara, — continuò, poichè la vedeva ascoltarlo con un’angoscia così viva che la malata sembrava lei — so quello che pensi. Tu pensi che forse dovrai ricominciare con me l’orribile vita passata: e sono io che devo avere pietà di te, se è vero che mi ami. Perdonami di non aver parlato prima: sempre in tempo, però. Sei libera di lasciarmi.

Ella lo guardava, con gli occhi gravi, tristi, ma che non piangevano più: d’un tratto gli tese le mani, ed egli le prese, le baciò, lentamente: ricordava però il modo con cui ella si era gettata sul marito morto prima che venisse chiuso per sempre nella sua guaina di metallo.



— E adesso che cosa faremo? — domandò poi sottovoce, più a sè stesso che a lei. — che cosa faremo, Sarina?

Sarina rispose sullo stesso tono:

— Quello che tu vorrai.

Quello che tu vorrai! Egli si sentì battere, quasi squillare il cuore. Quello che tu vorrai! Dunque ella non lo respingeva, anzi lo voleva ancora. Anzi si sottometteva, a lui. Quello che tu vorrai. Era con accento sommesso ch’ella rispondeva: forse accento di paura.... Ed egli si passò la mano sugli occhi, per togliersi l’ombra di quel dubbio.

Sarina lo guardava e capiva tutto: sentì quel dubbio, vide le ombre che passavano e ripassavano sull’anima di lui: una tristezza mortale la piegò fino a terra; desiderò di morire; ma la terra stessa, il mare, il soffio dell’aria le dissero parole di conforto, di speranza: si sollevò e si mise a ridere:

— Siamo pazzi tutti e due a continuare così — disse alzandosi. — Il passato è passato: andiamo, su, Cristiano! Tutto è stato un sogno.

Egli le scosse il lembo della veste per farne cadere la rena, glielo tenne fra le mani, parve volesse attirarla di nuovo giù. Non avrebbe voluto più muoversi, come uno che arrivato ad una cima ha pena a ridiscendere.

Si alzò pesantemente, le riprese la mano. La mano tentò di sfuggirli, ma come per un istinto suo particolare, tosto dominato dalla volontà della donna che costrinse le sue dita ad intrecciarsi a quelle di lui.

A lui però non sfuggiva nulla. Arrivati al cancello tentò una prova: cercò di attirare la donna in casa: ma fu lei a resistere, adesso, a trascinarlo oltre.



Nel pomeriggio, egli ritornò al paese: voleva comprarle un regalo; il primo regalo da fidanzato. Ma per quanto girasse non trovò nulla degno di lei: l’unica piccola bottega da orefice era chiusa per il richiamo del padrone al servizio militare, e nelle altre vetrine non si vedevano che catenelle di metallo e oggetti già vecchi prima di essere venduti.

Allora pensò che bisognava andare in città; e questo pensiero non lo inquietò; anzi da esso nacque il progetto confuso di ritornare definitivamente nel mondo, nella comunità degli uomini, con lei, come lei desiderava.

E si rallegrò, anzi, accorgendosi che qualche cosa di più profondo dell’amore per la donna rinasceva da questo amore: un desiderio di umanità, la fede nei suoi simili.

Allora camminò lungo la proda della strada, nel tramonto tiepido, sognando di nuovo come da adolescente la sua vita avvenire. Arrivato al punto dove era stato con Sarina, si fermò guardando l’orizzonte: lievi cupole di nuvole si profilavano sul cielo glauco, e parevano appunto il profilo di una città.

La fantasmagoria gli sembrò di buon augurio. Sì, bisognava tornare fra gli uomini. Ed egli stette lì a guardare quasi con superstizione quella città ignota che lo invitava. Ecco, fra gli edifici fantastici vede la loro casa, in una via alberata: e il rumore delle onde contro il lido solitario gli sembra quello della città: è verso sera, un crepuscolo di maggio: lui e Sarina se ne vanno lungo le vie animate, soli tra la folla, eppure uniti alla folla, onde fra le onde d’una stessa marea. Il crepuscolo arrossa lo sfondo delle strade, tinge di verde e d’azzurro gli archi dei ponti e dei portici, fa rilucere come ritagliati nell’ebano i cornicioni dei palazzi. Lunghe collane di lumi s’accendono nell’oscurità rosea e un chiarore perlato invade le strade: pare di camminare sospesi fra il giorno e la notte, trasportati dalla fiumana della gente che scorre lenta sui marciapiedi costeggiando le vetrine luminose dove tante cose belle e inutili si offrono senza lasciarsi toccare. Sarina si fermava a guardarle, desiderandole tutte.

— Ed io lavorerò, anima mia, — egli pensava come un adolescente, — lavorerò tanto da poterti esaudire in ogni tuo desiderio.



Da lontano vide che le finestre della casetta bianca erano chiuse.

Chiuse come nei tristi tempi passati: e tutta la casa, sebbene illuminata dal tramonto, aveva un aspetto di abbandono che gli ricordò i giorni della sua solitudine.

Egli ne fece il giro, vide la porta della cucina aperta e tornò a rallegrarsi.

Ma subito ebbe l’impressione come se qualcuno lo aspettasse in agguato e gli si gettasse contro assordandolo con urli tremendi: era il cane. La bestia si rizzava dentro la sua cuccia, con gli occhi sanguigni, e gli abbaiava contro come nei primi tempi quando ancora non lo conosceva.

Egli stette a guardarlo, sorpreso, poi vinto da un vago terrore: gli sembrava che anche il cane sapesse.



La serva arrivò, un po’ ansante e pesante, di ritorno dal boschetto ov’era stata a veder passare dei soldati. — Dov’è la signora? — domandò Cristiano stordito dagli urli del cane.

— La signora non c’è. È andata di nuovo al paese. Doveva comprare qualche cosa.

— Se c’ero anch’io nel paese, e non l’ho incontrata! Ma che ha oggi questo cane?

— Non so: è tutto il giorno che abbaia così.

Egli se ne andava: la donna lo seguì; pareva volesse dirgli qualche cosa, ma non parlò finchè non furono dall’altro lato della casa, quasi per non farsi sentire dal cane.

— Credo che la signora sia andata a comprare un regalo per lei.

Egli trasalì di gioia: osservando però meglio la figura della serva, illuminata dal tramonto, con l’ombra lunghissima sull’erba del prato, gli sembrò diversa del solito, con un so che di ambiguo, di triste e ironico.

— Te lo ha detto lei? — domandò.

— No, mi disse che andava a comprare un regalo: io penso sia per lei perchè so che oggi lei e la signora hanno fissato la data del loro matrimonio.

— Te lo ha detto lei?

— Sì, questo me lo ha detto lei.

— Sì, è vero. Ti dispiace, forse?

La serva lo guardò sorpresa dal tono timido con cui egli parlava.

— Perchè deve dispiacermi? — Perchè saprai pure che presto si andrà via di qui.

Allora essa ammiccò, con una espressione confidenziale, triste e beffarda, che gli fece una sinistra impressione.

— È quello che desidero! Andar via, anche subito. Da troppo tempo siamo in questo purgatorio.

— Oh, oh!

— Sì, — ella disse quasi brutalmente, — quell’uomo mi ha lasciato. Aveva promesso di sposarmi: invece non si fa più vedere, non si fa più trovare. Eppure gli ho anche prestato dei denari, maledetto sia.

Parlando erano giunti al sentiero, e guardavano entrambi verso la strada: nessuno appariva.

Cristiano confortò la serva:

— Coraggio! Andremo via. Andremo in città, come piace alla tua signora; e fra tanti uomini non avrai che a scegliere per dimenticare questo becchino.

Ella scuoteva la testa; e grosse lagrime le cadevano dagli occhi, ma neppure le lagrime, rigandole il viso, riuscivano a cancellarne l’espressione d’odio.



Egli rimase fuori ad aspettare il ritorno di Sarina. Si avanzò per un tratto di strada, tornò nel prato. Il sole tramontava, le cose si assopivano, ogni filo d’erba ritirava la sua ombra come chiudendo la porta di casa.

Sarina non tornava.

Egli allora dubitò che non fosse neppure uscita....

Guardò le finestre chiuse, e per un confuso senso di orgoglio si allontanò verso casa.

Era già quasi sera.

Quel crepuscolo che si addensava lento e stranamente scialbo dopo il tramonto luminoso, aveva un sapore di cenere.

Egli sentì freddo, rientrando nella sua casa. Il gatto sonnecchiava sul focolare, come nei giorni d’inverno; gli oggetti ancora qua e là chiari di qualche riflesso parvero come un tempo guardarlo e seguirlo con la loro immota attenzione in ogni suo movimento.

Ed egli sentiva che qualche cosa di misterioso accadeva; che il regalo di Sarina doveva pesargli per tutto il resto della vita.

Sedette sul lettuccio, ma già deciso a uscire di nuovo.

— Se non è tornata ancora andrò a cercarla in paese.

E tentava d’inquietarsi solo per quel ritardo, ma in fondo sentiva che voleva illudersi, ch’ella era in luogo sicuro.

Forse era meglio non cercarla; vedendosi trascurata, lei stessa sarebbe venuta. Ma allora perchè si erano fidanzati, se si doveva giocare come fanno gli amanti?

No, no. Cristiano; anche questa è un’illusione: neppure il gioco degli amanti è più possibile fra voi due: in fondo, bene in fondo, tu senti la verità: Sarina non ti vuole più, perchè tu sei quello che sei.

— Perchè ho parlato? — gemette, buttandosi a capo fitto sul lettuccio.

E gli parve di sentire la voce acerba eppure rassegnata di Ghiana:

— Quello che tu hai fatto a me ella farà a te.

Anche Ghiana, adesso! Che gl’importava di Ghiana? Per togliersi a quest’altra visione si sollevò; ma aveva paura di muoversi, di andare incontro al suo destino.

Aveva paura di accendere il lume: paura di tutto, come un bambino lasciato solo al buio. Era già notte; ma d’un tratto il cielo si schiarì come all’alba: la luce tornava, i vetri del finestrino parevano di madreperla: sorgeva la luna.

E tutti gli oggetti nella cameretta presero un aspetto evanescente, come si fossero spogliati della loro apparenza materiale e mostrassero solo la loro anima. Il lettuccio sopratutto, che alla luce del giorno aveva un colore equivoco di biancheria mal lavata, adesso appariva candido, tutto innocente e buono nonostante il peso da tanti anni sopportato, nonostante il dolore, la rabbia, la voluttà e il peccato che per tanti anni gli si erano sbattuti sopra da una sponda all’altra come le onde fra i lidi del mare. E il guanciale ammaccato dall’impronta della testa dell’uomo aveva un aspetto dolente di compagno che ha preso parte alle lotte del compagno dividendone le pene e le umiliazioni.

Poi a quelle forme misteriose, a quei fantasmi immobili se ne aggiunse uno che si agitava, piccolo, con gli occhi luccicanti; era il gatto che scherzava coi riflessi della luna. Saltava da un punto all’altro della stanza, silenzioso e agile come un uccello; e dopo essersi assicurato più volte che non c’era nulla di consistente nell’ombra del ramo che attraversava il quadrato d’argento della luce proiettata dal finestrino, balzò sul lettuccio accanto al padrone.

E il padrone se lo prese sulle ginocchia e cominciò ad accarezzarlo con tenerezza accorata: aveva l’impressione che lui e quel suo compagno più solitario di lui, fossero gli ultimi esseri viventi sulla terra. Tutto il resto era sommerso in un mare di cenere, e solo la luna con la sua luce fredda e chiara come acqua regnava su tanta desolazione.

Ed ecco, a misura che le sue carezze si facevano più intense, vide qualche scintilla che dapprima gli sembrò scaturisse dalla punta delle sue dita e corresse e si spegnesse tra il pelo morbido del gatto: era invece questo pelo a scintillare; e pareva che la bestia, tutta fremente di tenerezza, volesse esprimere con la luce, poichè non lo poteva con la parola, la sua riconoscenza per l’amore che il padrone gli dimostrava.



Eppure d’improvviso egli lo buttò con violenza per terra, tendendosi ad ascoltare.

Un passo.

Il mondo morto riprese a vivere, tutto risorse e tutto brillò più di prima, al solo risonare di quel passo.

Egli stette immobile, pauroso che il suo solo respiro potesse rompere l’incanto.

E nei pochi momenti che la donna mise ad arrivare alla porta e ad entrare, egli si accusò di mille torti verso di lei: gli sembrò di averla battuta, di averla calunniata, di essere stato con lei più malvagio che con l’altra. Solo perchè avesse dubitato di lei.

Essa invece veniva a rassicurarlo, a portargli il regalo.

Si avanzò, più silenziosa e agile del gatto, si mise a sedere accanto a lui e aprì la mano che teneva chiusa: e anche la sua mano scintillò. Gli aveva portato un vero regalo di donna, di fidanzata: una medaglietta d’oro con un’immagine sacra.

E gliela mise al collo. Egli rabbrividì al contatto delle dita di lei, gli sembrò fossero gli stessi raggi della luna a toccarlo.

— Cosa fai qui rannicchiato, senza lume? — ella domandò.

— Ti aspettavo.

— Potevi venire tu.

— Sono già venuto ma eri fuori.

— Potevi tornare.

— Avevo paura.

Seguì un attimo di silenzio davvero pauroso: perchè lei non rispondeva pronta? Pareva non capisse; ma egli sentiva la verità dentro il suo cuore: ella capiva benissimo.

— Paura di che?

La voce non era mutata: ed egli tornò a scacciare la verità dal suo cuore.

— Mah! Che tu mi accogliessi male.

— Perchè dovevo accoglierti male?

— Cristiano? Cristiano? — lo chiamò due volte, con dolore e con rimprovero, mentr’egli si piegava su sè stesso, quasi rannicchiandosi per tentare di sfuggirle. E gli prese una mano, se la mise sul ginocchio, cominciò a lisciarla con ambe le sue, come per ridonarle un po’ di calore e di vita: poi gli strinse il polso, sentì la vena battere, salì ancora più su con le sue dita tiepide, toccò il braccio, dove i nervi parevano morti; e subito, egli riebbe tutta la forza di credere, di amare, d’illudersi.

Ella lo amava, era lì; egli poteva prenderla, non lasciarla andare mai più via: ed era forse questo che lei voleva; era forse venuta solo per questo....

Ma lui non voleva.

— Sara, — le disse, appoggiando la testa sulle spalle di lei, — tu sei buona ed io non dubito di te. Ma tutto è così oscuro dentro di me che il solo pensiero che tu possa abbandonarmi mi dà un senso di morte: per questo non posso, non voglio dubitare di te. Certo, io sono diverso dagli altri uomini: sono fuori dalle loro leggi: ma chi ha ragione? Io o loro? Un altro, al mio posto, adesso, coglierebbe subito la sua felicità: ti prenderebbe, non ti lascerebbe andare più via.... Io non voglio, vedi: voglio che quanto ti ho detto questa mattina non getti ombra tra noi, e il nostro destino, se ha da compiersi, si compia come se nulla fosse stato detto. Se ti sembra che io sia ancora pazzo....

Non proseguì perchè lei s’era rimessa a piangere come la mattina, dopo la confessione di lui, ma invece di lasciar cadere le sue lagrime se le spargeva sul viso con le mani tremanti; poi con queste mani bagnate delle sue lagrime accarezzò il viso di lui, cercandone i lineamenti uno per uno, come per lasciarvi un’impronta, o imprimersi sulle dita la impronta loro.

Egli sentì tanta pietà in quest’atto, un amore paragonabile solo a quello che la madre, pure spasimante di dolore, sente per la sua creatura che nasce: e scivolò dal lettuccio, le si inginocchiò davanti, pensò che cosa poteva darle che fosse più grande di quanto già le aveva dato.

— Non piangere, non piangere, — le disse: — se tu piangi, significa che hai paura, che mi credi quello che non sono.... Dimmi tu quello che devo fare per convincerti: fa di me quello che vuoi: eccomi ai tuoi piedi come la polvere che calpesti. Guidami tu; prendimi, se mi vuoi prendere, lasciami se vuoi lasciarmi: fa come che tu sii la mia sorte stessa. Io adesso ho paura che qualunque cosa faccia o dica ti rechi sospetto: devi consigliarmi tu, devi considerarmi come il tuo servo....

— Taci, — ella disse, più addolorata che contenta delle parole di lui. — Non bisognerebbe mai parlare quando ci si ama davvero. Alzati.

Ma egli non si alzò.

— Tu non credi alle mie parole, Sara....

— Ti credo, ti credo; non tormentarti oltre, anche tu! Credo a tutto quello che tu dici, perchè tu mi ami, e quello che noi diciamo nei momenti d’amore è tutto verità. La menzogna viene dopo, ma che importa? Finchè siamo assieme e ci amiamo tutto è verità. Non darti pena per me: siamo pari; se tu mi hai fatto soffrire, anch’io ti ho fatto soffrire. Tutto sta a procurare di non soffrire oltre, di rompere ogni legame col passato e cominciare da domani una nuova vita.

Egli ebbe paura anche di queste parole; gli sembrò che avessero un senso nascosto, minaccioso per lui; ma non lo disse. Voleva mostrarsi saggio, prudente, mentre l’angoscia gli cresceva per questa stessa finzione.

— Bisogna che vada, — ella disse alzandosi. — Sono uscita di nascosto della serva, che è così maligna; non accompagnarmi.

— Al paese hai veduto il dottore?

— L’ho incontrato, sì: perchè?

— Gli hai parlato di me?

— Cristiano!... — ella esclamò fra sdegnata e angosciata. Capiva il pensiero di lui.

— Perdonami, — egli mormorò; — ma è che davvero ho paura di essere ancora pazzo, di restarlo sempre. Vedi, ho paura che tu abbi paura di me, e mi comporto così.... così.... come un idiota, per farti credere che sono un uomo normale. Un uomo normale farebbe ben altrimenti; darebbe ragione al suo istinto, si abbandonerebbe al suo piacere. Io sono fuori dell’umanità; sì, è meglio che tu te ne vada, Sarina, che tu mi abbandoni....

— Dio, Dio, — ella cominciò a gemere; ma poi si vinse anche lei e tornò a sedersi accanto a lui.

— Io non ti lascerò mai più. Cristiano; ecco, sono qui, sono già tua: sono io, adesso, che ti supplico: fa di me quello che vuoi! Non ho paura di nulla, neppure della morte. — Anche Ghiana parlava così.... — egli disse, trasognato. — E anche lei sapeva tutto. Ma di un’altra cosa ho paura: che il figlio sia anch’esso anormale.

— Dio, Dio, — ella gemette ancora fra sè, stringendo i denti per non gridare; eppure non poteva andarsene; un fascino misterioso la teneva presso l’uomo, e sentiva ch’egli, come lei stessa un giorno aveva intuito, era, più che gli uomini sani, vicino alla verità.

— Vattene, — egli ripetè, respingendola lentamente. — E meglio che te ne vai, sì. Indovino tutto di te; tu hai stabilito di partire di nascosto, dopo avere consultato il dottore che ti ha consigliato così e forse ti aiuterà nella fuga; ed hai voluto salutarmi, per pietà, come hai salutato la salma di tuo marito. Sei pietosa, sì: sei pietosa e crudele, come la vita stessa. E adesso pensi: egli è più vicino di me alla verità, e forse è meglio ch’io rimanga con lui: egli saprà darmi ancora e sempre la vera nutrizione della vita: il dolore; ma se egli non mi prende col piacere, ma se questa notte non mi lega a lui col laccio della carne, io domani all’alba lo lascerò. L’alba riporta l’illusione della gioia nel cuore dei viventi. E tu sei viva, Sara, sei di qua, nel mondo delle illusioni, mentre io sono già, da tanti e tanti anni, fuori di esso, di là dalla vita mortale.

Ella tremava tutta, e cercava di attirarlo a sè, ma egli la respingeva sempre, finchè ella non intese che davvero era freddo e insensibile come un morto.

Allora si alzò di nuovo.

— Cristiano, — disse, — tu vuoi provarmi, lo so: ebbene, io tornerò domani, e poi sempre finchè non ti avrò convinto. Sei tu, il sogno: io sono la realtà; domani tornerò e vedrai che hai torto. Buona notte.

Egli l’accompagnò fino alla porta: la vide andarsene nel chiarore placido della luna e non dubitò della promessa di lei.

E si addormentò quasi felice, sognando di lei.

Sognava però di aver sognato: no, essa non era venuta, non verrebbe mai più. Oh, s’ella fosse venuta davvero, offrendosi così, come si offre il frutto dall’albero, egli sarebbe stato pazzo davvero a respingerla. E l’aspettava ancora, pur sapendo che non sarebbe più tornata.

Ma quel senso di attesa, di speranza, anche di gioia, era il senso stesso della vita: che cosa si aspetta, che cosa si spera? Nulla, eppure si aspetta e si spera e si gode.

Poi si svegliò di soprassalto, con l’impressione precisa della realtà: la medaglietta, segno tangibile della venuta di lei, gli si era scaldata sul petto, viveva con lui. Fu per alzarsi e andare da lei: ma la solita paura ch’ella lo credesse pazzo lo fermò.

Fuori la notte era meravigliosa di luna e di quiete: egli aveva l’impressione che la terra si fosse fermata, e con la sua immobilità tutte le cose e tutti gli uomini dovessero finalmente aver pace.

Eppure non gli riusciva di riaddormentarsi: gli sembrò di sentire il cane a lamentarsi e tutte le fantasticherie del tempo passato gli tornavano in mente.

Che accade nella casetta bianca? Anche Sarina non dorme e l’ombra del passato la perseguita; ma lei è abbastanza forte e coraggiosa per non lasciarsi vincere dai fantasmi dei morti, e neppure da quelli dei vivi: le sue agili gambe sono fatte per fuggire, per camminare lungo le vie del mondo.

Ed egli ritrovava il suo antico sogghigno. Cammina pure, Sarina, fuggi fin che vuoi: ci ritroveremo lo stesso, in fondo alla strada....



Si riaddormentò ch’era quasi l’alba, stanco e sofferente: ed ecco di nuovo i sogni, con tutto il loro mistero di dolore e di gioia: la madre che fugge col dottore, Sarina che s’affaccia alla loggia di marmo del palazzo del benefattore: e lui è rimasto solo nell’appartamentino al quinto piano, ed è, in fondo, felice di questa solitudine.

Tanto che nello svegliarsi provò un senso di malessere, un brivido come per il passaggio improvviso da una atmosfera calda a una fredda.

Sollevò la testa pesante: era solo, sì, e tutto intorno era quieto e luminoso, ma di una luminosità strana, insolita, come se i sogni continuassero; invece che dal finestrino il sole penetrava nella cameretta dopo avere attraversato la prima stanza, e pareva che l’orizzonte si fosse spostato.

Egli balzò dal letto stordito, con tanta ombra dentro quanto fuori era luce: gli sembrava di avere dormito cento anni, come nelle leggende, e che tutte le cose, tutte le vicende del mondo si fossero cambiate in quel tempo. Poi vide che la sua porta era rimasta aperta e il sole vi penetrava pienamente: ombre di rondini svolazzanti basse attraversavano lo spazio soleggiato davanti alla casetta e il gatto vi si slanciava contro.

È già dunque tardi, verso mezzogiorno; l’ora in cui il sole rende più felici le cose. Quanto tempo hai davvero dormito. Cristiano! E perchè hai lasciato la porta aperta? Nella certezza che ella tornasse? Ella non era tornata, forse per orgoglio: bisognava andare a cercarla: ma egli non si affrettava, ancora stordito dal sonno, con una oscura preoccupazione che lo spingeva ad andare da un angolo all’altro come in cerca di qualche cosa, quale non ricordava.

Finalmente aprì l’armadio e ricordò che non mangiava dal giorno avanti; eppure sentiva nausea del cibo. Tornò a chiudere e andò per lavarsi, ma trovò la brocca vuota. In questi ultimi tempi era la serva di Sarina a portargli l’acqua: dunque neppure lei era venuta.

E d’improvviso si sentì piegare le ginocchia, all’urto del dubbio che era in fondo al suo cuore e che adesso balzava e gli si presentava di fuori, nella brocca vuota, non più dubbio ma certezza.

Si ostinò a non andare, ad aspettare ancora: nella realtà ancora più che nel sogno, quel senso di attesa e di speranza era la forza stessa che faceva battere il suo cuore: ma non si lavò, non si curò di nulla, pure vagando qua e là per la casa e il giardino: vedeva la sua ombra selvaggia, coi capelli arruffati, corrergli tra i piedi, e non aveva paura di farsi trovare così da Sarina; non aveva paura, sapeva luì il perchè.... Poi cominciò a inquietarsi; pensò che Sarina e la serva, infelice anche lei, si fossero uccise: e ancora sogghignava nell’accorgersi che pensava a una fine così tragica del suo dramma per consolarsi della fine vera; tuttavia un vago terrore lo spinse ad andare. Forse nulla era vero delle sue fantasticherie; Sarina è là nella casetta bianca e lo aspetta: pochi passi ancora e tutto è come prima.

Tutto è come prima, intorno a lui: il prato è ancora coperto di margherite e di ranuncoli, tutto il paesaggio è fiorito; solo il comignolo della casa bianca è privo del suo fiore di fumo.

Le finestre sono chiuse; eppure egli rallenta il passo come per nascondere la sua ansia ad una persona che lo spia dietro quelle persiane.

Arriva alla porta: la porta è chiusa ed egli non pensa neppure di picchiare: va lungo il muro della casetta, e quel muro è caldo, vivo, ma di un calore esterno che non lo conforta: anche i muri dei cimiteri sono caldi così, al sole di aprile. Il prato dietro la casa, sotto gli alberi, è dorato di ranuncoli; anche da quella parte la brughiera è tutta in fiore, fino all’orizzonte dove il cielo e la terra si confondono in una vaporosità azzurra sparsa di nuvolette colorate che sembrano anch’esse cespugli di rose; tutto è luce e gioia: ma l’uomo, arrivato davanti alla piccola tettoia, vede la porta chiusa, la cuccia del cane vuota, e una fredda caligine attorno.



Poi, un giorno, passato il primo impeto di dolore e di sdegno, andò in cerca del suo bambino.


fine.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.