< Il treno volante
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IV VI

V

La carovana

Tre ore dopo quella narrazione il Germania giungeva a poche centinaia di metri dalla spiaggia africana.

Il vento l’aveva spinto un po’ a nord di Bagamoyo, non però ad una così grande distanza da non poter scorgere quella interessante città, una delle più commerciali delle coste orientali del continente nero.

Il treno aereo, riscaldato dal sole, il quale continuava a dilatare il gas rinchiuso nei diciassette palloni, era salito fino a seicento metri, permettendo così ai suoi passeggeri di abbracciare con lo sguardo un immenso tratto di territorio.

In quel luogo la costa appariva priva di abitazioni. Si vedevano invece immense pianure verdeggianti, grandi boscaglie e verso l’ovest si scorgeva il Wami, un fiume di lunghezza rispettabile che ha le sue sorgenti nell’Usagara e che sbocca quasi di fronte all’isola di Zanzibar per due bracci molto profondi.

Bagamoyo appariva confusamente, con le sue innumerevoli casette bianche disposte attorno alla baia ed i suoi grandissimi palmizi, che si prolungavano sulla spiaggia. Alcune navi erano in porto, e parevano così piccole per la distanza, da crederle barchette a vela.

— Ecco l’Ussengua che si estende innanzi a noi — disse El-Kabir. — Una bella e fertile provincia, che altre volte apparteneva al Sultano e che ora è sotto il protettorato tedesco.

— Pericolosa da attraversare? — chiese il greco.

— No: io l’ho percorsa non poche volte nella mia gioventù e non ho mai avuto da lagnarmi dei suoi abitanti. È più innanzi che troveremo il pericolo: nel paese dei Ruga-Ruga.

— Chi sono questi Ruga-Ruga?

— Dei briganti audacissimi e ferocissimi che spogliano le carovane che passano sui loro territorî. Sono protetti da Nurambo e questo basta.

— E chi sarebbe questo Nurambo?

— Una volta era un povero portatore al servizio delle carovane ed ora è uno dei più potenti monarchi dell’Africa, anzi si fa chiamare il Napoleone africano.

— Corbezzoli!

— Un grande conquistatore, mio caro. Egli ha saputo radunare sotto il suo scettro parecchi milioni di negri.

— Che sia amico di Altarik?

— Lo si dice.

— Ecco un nemico possente.

— Che ci darà pochi fastidi, considerato che non possiede un pallone tipo Zeppelin — disse il tedesco. — Noi possiamo sfidare impunemente la sua potenza.

— Saremo ben costretti a discendere qualche volta — disse Matteo.

— Anzi, tutte le sere per provvederci di acqua e di legna per i miei motori e anche per noi — rispose Ottone. — Scenderemo in luoghi deserti, lontani dai villaggi e dalle vie battute dalle carovane.

— E poi qualche volta ci daremo anche il lusso di procurarci della carne fresca. Mi hanno detto che l’Usagara è ricco di selvaggina.

— Vi sono animali d’ogni specie — disse El-Kabir.

— Anche dei leoni?

— E anche degli elefanti.

— Ne prenderemo qualcuno.

— Heggia un tempo era un famoso cacciatore d’avorio.

— Lo esperimenteremo.

Intanto il Germania aveva raggiunta la costa ed ora correva sopra pianure, boscaglie e campi coltivati, con una velocità da trenta a trentacinque miglia all’ora, essendo il vento piuttosto forte a quell’altezza di seicento metri.

Di quando in quando in mezzo ai campi si vedevano dei negri intenti a raccogliere la manioca od il miglio. Scorgendo quell’immenso mostro fendere lo spazio, abbandonavano precipitosamente i loro attrezzi per fuggire disperatamente, urlando a squarciagola.

Altri invece si buttavano a terra e nascondevano il viso nei solchi dei campi, gettandosi addosso quante piante e foglie potevano per nascondersi.

Il più bello era quando il treno aereo giungeva improvvisamente sopra qualche villaggio. Appena avvistata l’ombra gigantesca proiettata sul suolo, uno stupore indescrivibile s’impadroniva degli abitanti. Interrompevano le loro conversazioni, guardavano in aria e scorgendo il pallone si disperdevano come un branco di passeri spaventati dalla comparsa improvvisa d’un falco.

Urla, pianti e strida di donne e di fanciulli si alzavano dappertutto, come se quel temuto mostro fosse per piombare sul villaggio e divorarlo in un boccone assieme agli abitanti.

Qualche volta si trovava fra quei negri anche qualche ardimentoso, il quale afferrava l’arco lanciando qualche freccia per il treno aereo, inoffensiva d’altronde, non potendo giungere a tanta altezza.

I due europei e l’arabo si divertivano immensamente a quelle scene comiche e quando vedevano che lo spavento giungeva al colmo, come per ricompensare quei poveri diavoli, lasciavano cadere qualche manata di biscotti o qualche bottiglia di rhum o qualche collana di perle di vetro.

— Ne faranno dei feticci — disse l’arabo.

— Non certamente delle divinità — osservò il tedesco.

— No; ma talismani preziosi destinati a preservarli dai pericoli o a salvaguardare i loro campi dalla siccità.

— Che prendano noi per divinità?

— Indubbiamente, caro Matteo. Ci crederanno figli della Luna o del Sole.

— Una idea, El-Kabir.

— Di’ su.

— Se nel centro dell’Africa ci spacciassimo per divinità celesti?

— Sarebbe possibile.

— E se ci facessimo adorare? Potremmo fondare un impero pari a quello di Nurambo.

— Non mi fiderei. Preferisco restare il negoziante El-Kabir.

— Ed io un semplice professore — disse il tedesco.

— Eppure l’idea non mi parrebbe cattiva — disse il greco. — Studierò il progetto.

— Sì, studialo pure — disse l’arabo, ridendo. — Sono però convinto che quando avremo raccolto il tesoro dell’inglese, lascerai da parte il progetto e tornerai in Europa a godertelo.

Mentre chiacchieravano e ridevano, il Germania continuava la sua corsa, mantenendo una direzione costante, sebbene le due eliche fossero state fermate non essendovi da lottare contro vento.

La gran corrente dell’aliseo soffiava invariabilmente dall’est all’ovest, anche sopra il continente, quindi non era necessaria alcuna manovra a bordo del treno aereo.

Il territorio appariva sempre di una feracità prodigiosa, e piuttosto scarso di abitanti. I villaggi erano rari e rarissime le capanne isolate.

Invece dovunque si vedevano boschi maestosi, d’un verde cupo e formati da piante svariate.

Qui si vedevano comparire degli enormi mazzi di bambù, stretti alla base, mentre verso la cima si allargavano in pennacchi elegantemente ripiegati, coi fusti lucenti ed affatto cilindrici, a nodi posti ad eguale distanza e coperti di foglie di un verde tenero e sempre oscillanti; più innanzi invece s’alzavano macchioni di felci arborescenti, di datteri selvatici, di fichi sicomori dalle foglie biancastre nella parte inferiore e seminate al disopra da macchie brune; poi gruppi di leguminose con le leggere foglioline merlettate, di acacie giraffe, di palme bellissime, di fusti, contorti di palminee.

Di quando in quando immense cupole vegetali s’alzavano solitarie. Nessuna pianta potrebbe crescere all’ombra di questi giganti delle foreste tropicali ed equatoriali che con i loro innumerevoli tronchi assorbono, come altrettante trombe aspiranti, i succhi vegetali della terra primitiva. Sono i banani, colossi che possono ricoverare sotto la loro ombra una tribù intiera.

In mezzo a quelle piante, il tedesco e l’arabo, che si erano muniti di cannocchiali, scorgevano bande di gazzelle e di antilopi, selvaggina eccellente, che fornisce degli arrosti molto apprezzati anche dagli europei, oppure qualche truppa di giraffe dal collo smisurato e dalle gambe straordinarie e qualche coppia di zebre, specie, di asini bizzarramente rigati in bianco ed in nero con qualche riflesso giallastro.

— Vorrei trovarmi in mezzo a quelle foreste — diceva il tedesco, appassionato cacciatore e valente bersagliere. — Quei grossi animali mi tentano.

— Chi c’impedisce di andarli a cacciare? — chiese l’arabo. — M’avete detto che il vostro pallone può abbassarsi.

— Sì, sacrificando del gas.

— È troppo prezioso per perderlo?

— Ne ho parecchio in riserva, rinchiuso nei cilindri; però, come dite voi, è troppo prezioso per delle persone che devono andare molto lontano e poi tornare alla costa.

— Come farete allora a discendere?

— Si aspetta che scomparisca il sole — disse Matteo.

— Sì, perchè raffreddandosi un po’ l’aria, il gas si condensa ed allora il pallone si abbassa. Potrei, se volessi gettare un’àncora, arrestare il treno e costringerlo ad abbassarsi, forzando le eliche.

— E non lo farete?

— Non oso prendere terra di giorno. I negri potrebbero assalirci e guastarci il pallone.

— Siete prudente; è già una bella cosa la prudenza in questi paesi — disse l’arabo. — Questa sera scenderemo?

— Dobbiamo rinnovare la nostra provvista d’acqua per le macchine e anche per noi.

— Cacceremo al chiaro della luna — disse l’arabo. — Qui siamo in una regione ancora tranquilla. Quando giungeremo nell’Ugogo sarà altra cosa e le precauzioni non saranno mai troppe.

A mezzogiorno gli aeronauti facevano colazione quasi al di sopra del Wami, avendo incontrato per la terza volta questo fiume tortuoso.

Stavano sorseggiando una eccellente tazza di caffè preparata da Heggia, quando udirono l’altro negro, Sokol, dire:

— Vedo una carovana attraversare il fiume.

I due europei e l’arabo si affacciarono al parapetto.

Cinquecento metri innanzi una truppa numerosa d’uomini, formata di arabi distinguibili per i loro burnus variopinti e per i loro ampi mantelli bianchi orlati di rosso, e di una cinquantina di pagazi, ossia portatori negri arruolati a Zanzibar o sulla costa, carichi di mercanzie, stava guadando il fiume sopra un ponte sospeso formato di bambù intrecciati e sostenuti da solide liane attaccate ai tronchi di alcuni sicomori.

Vedendo il treno aereo, gli arabi si erano arrestati brandendo i loro lunghi fucili, mentre i negri, più paurosi e più superstiziosi, si erano precipitati nel fiume abbandonando i loro carichi sul ponte.

— Stanno per prenderci a colpi di fucile — disse il greco.

— Le loro palle non giungeranno fino a noi — disse l’arabo. — Hanno dei fucili pessimi.

— Che sia qualche carovana di Altarik? — chiese il tedesco, il quale per precauzione aveva posto in moto le eliche per spingere il treno volante verso la foresta.

— È probabilissimo — rispose l’arabo. — Altarik manda numerose carovane a Taborah e anche più oltre.

In quel momento, proprio quando il pallone si trovava sopra gli arabi che si tenevano raggruppati sul ponte, un oggetto cadde dalla piattaforma, piombando velocemente nel fiume.

El-Kabir si era voltato bruscamente chiedendo:

— Cos’è caduto?

— Mi è sfuggita la bottiglia di ginepro — disse Sokol, il quale stava retrocedendo precipitosamente.

— No, la bottiglia del ginepro è qui — disse Heggia. — L’ho messa io sulla cassa.

— Allora era una piena di rhum — disse Sokol turbatissimo. — Perdonatemi, padrone.

— Potevi far partire una scarica da parte degli arabi. Un’altra volta sii più prudente.

— Sì, padrone.

Il Germania intanto era passato oltre senza che gli arabi avessero osato far fuoco. Tutta la loro attenzione era stata attratta da quella bottiglia, anzi parecchi si erano slanciati in acqua per prenderla.

Nè il greco, nè Ottone avevan dato alcun peso a quel fatto semplicissimo.

— Berranno quella bottiglia alla nostra salute — aveva detto semplicemente Matteo. — Ne abbiamo ancora una bella scorta.

Poco dopo il Germania lasciava il fiume passando sopra immensi boschi e paludi pullulanti di uccelli.

Alcune aquile dalla testa bianca e con le penne del corpo grigie, vedendo passare il treno volante s’innalzarono e vennero a volteggiare attorno alla piattaforma, manifestando delle idee molto bellicose.

Un colpo di rivoltella sparato molto opportunamente dal greco, le decise a ritornare a terra ed a nascondersi in mezzo agli alberi.

Verso sera il Germania, che aveva rallentata la corsa, essendo il vento diminuito, giungeva sui confini dell’Useoma, designati da una catena di collinette e da affluenti del Wami.

Vedendo che il luogo era deserto, e che il sole stava già per tramontare, il tedesco fece la proposta di fermarsi.

— Giacchè vedo un fiume, ne approfitteremo per rinnovare la nostra provvista d’acqua.

— Siamo ancora molto alti — disse il greco.

— A duecentocinquanta metri.

— Il gas non ha ancora cominciato a condensarsi.

— Proveremo ad abbassarci forzando le eliche. Desidero fare una battuta fra quei boschi prima che la luce scompaia del tutto. Getta un’àncora, Matteo.

— Avremo corda sufficiente?

— Quella dell’àncora misura trecento metri.

— Gettiamola — disse l’arabo.

I due negri staccarono l’àncora che stava appesa sul dinanzi della piattaforma e la calarono finchè la videro toccare il suolo.

Il Germania correva in quel momento sopra una pianura verdeggiante cosparsa di gruppi di sicomori e di bauchinie.

— Attenti all’urto! — disse il tedesco.

L’àncora balzava al suolo strappando erbe e cespugli, senza far presa. Incontrato finalmente un gruppo di bauchinie, le due punte s’infissero profondamente fra quei rami contorti.

Il treno arrestato di colpo trabalzò fortemente girando su se stesso, poi rimase immobile. Provava solamente un leggero ondeggiamento in causa della spinta del vento.

Tosto le eliche, che erano mobili e che si potevano voltare, cominciarono a funzionare orizzontalmente esercitando una forte pressione sul treno volante. Quella manovra ottenne un successo insperato.

Il pallone s’abbassò gradatamente intanto che i due negri ed il greco ritiravano la fune dell’àncora per aiutare la discesa.

In capo a dieci minuti il Germania si trovava a quaranta metri dal suolo, e la scala di corda, gettata fuori dal parapetto, toccava la prateria.

— Basta — disse il tedesco, arrestando i due motori. Possiamo scendere.

— Chi lasceremo a guardia del pallone? — chiese il greco. — Sokol?

— Preferisco Heggia — rispose l’arabo. — Ho maggior fiducia in lui.

— Andiamo a caccia?

— Sdegneresti un bel pezzo d’antilope fumante? — chiese Ottone.

— Sarebbe molto gradito.

— Andremo a guadagnarcelo.

— E la provvista di acqua?

— Sarà la prima, Matteo.

— Tu rimarrai qui — disse l’arabo ad Heggia. — Se qualcuno comparisce e minaccia il pallone, ci farai segno sparando tre colpi di fucile ad intervalli di dieci secondi l’uno dall’altro.

— Sì, padrone — rispose il negro.

— E tu, Sokol, prendi un barilotto e seguici — disse Ottone.

Si armarono di fucili e di coltellacci, quindi scesero la lunga scala di corda giungendo felicemente a terra.

Il sole non era ancora interamente scomparso dietro la foresta, però non doveva tardare a tramontare. Quindi non potevano contare su più di mezz’ora di luce.

La prateria che avevano dinanzi era leggermente ondulata ed interrotta da gruppetti di datteri selvaggi e di bauchinie.

Bellissimi fiori spuntavano fra le erbe molto alte, papaveri grandissimi color del fuoco, amarilli e piedi di zebra, così chiamati a causa della loro bianchezza e della forma della loro corolla.

Questi fiori sono bianchissimi e hanno un profumo acutissimo.

I due europei, l’arabo ed il negro deliberarono di recarsi innanzi tutto al fiume, il quale scorreva a cinquecento metri dal pallone, radendo una folta boscaglia formata da banani immensi, da sicomori e da felci arborescenti.

Moltissimi uccelli si levavano fra le erbe, fuggendo dinanzi ai cacciatori.

Si vedevano bei campioni di meropi dalle ali di smeraldo orlate di zaffiro, delle cornacchie dalla gola bianca, dei pappagalli grigi con la testa verde, delle ibis porporate e dei piccioni verdastri più piccoli dei nostri e molto più numerosi.

I cacciatori non si degnarono di sparare nemmeno un colpo contro quel mondo alato. Volevano della selvaggina da pelo per prepararsi un arrosto pantagruelico.

Giunti sulla riva del fiume fecero riempire il barile, quindi rimandarono il negro, incaricandolo di fare raccolta di legna secca e di accendere il fuoco per la cena che si promettevano di guadagnare.

— Dove andiamo? — chiese il greco.

— Se volete un consiglio, andiamo ad appiattarci in mezzo agli alberi che costeggiano il fiume — disse l’arabo. — Dopo il tramonto gli animali della foresta vi accorrono per dissetarsi.

— Verranno anche delle antilopi? — disse il tedesco, che si era fitto in capo di mangiarne arrostite.

— E anche delle gazzelle, la cui carne è più delicata.

— E dei leoni? — chiese il greco con una smorfia.

— Non sarei stupito se ne vedessimo qualcuno.

— Sarebbe un bel principio — disse il tedesco. — Per mio conto non me lo lascerò sfuggire.

— Non scherziamo con quegli animali! — disse l’arabo. — Io ne ho uccisi parecchi e so quanto sono pericolosi.

«Anzi un giorno ho preso un colpo d’unghia che mi ha strappato mezza spalla.

— Ci racconterai questa storia, El-Kabir? — disse il greco.

— Sì, mentre attendiamo la selvaggina — aggiunse Ottone.

— Prima cerchiamo un nascondiglio sicuro.

— Cerchiamolo — concluse il grecò.

Costeggiarono per due o trecento passi il fiume il quale, in quel luogo, descriveva una curva molto accentuata e s’inoltrarono nella foresta, arrestandosi dinanzi ad un banano immenso formato da una moltitudine di tronchi rassomiglianti alle colonne di una grande cattedrale.

Le grandissime foglie di quella pianta, che sono lunghe cinque metri e larghe uno e mezzo, proiettavano sul suolo un’ombra fitta e i tronchi numerosi formavano una specie di fortilizio nel caso che qualche leone o qualche leopardo, avvertendo la presenza degli uomini, tentasse di assalirli.

L’arabo, che era prudentissimo e che era stato un valente cacciatore, prima percorse tutto lo spazio coperto dall’ombra del banano, poi condusse i suoi amici presso il tronco principale, le cui radici, sollevandosi sul terriccio, formavano parecchi sedili naturali.

— Fermiamoci qui — disse. — Da questa parte sorveglieremo la foresta e le rive del fiume.

— Che silenzio! — esclamò il tedesco.

— E che frescura deliziosa —- disse il greco.

— Questa quiete non durerà molto — disse El-Kabir. — Tra poco la foresta echeggerà tutta di ululati e di fragori.

— Per ora tutto è tranquillo — osservò Ottone.

— La luna non è ancora sorta e le tenebre lottano ancora con la luce del tramonto.

— Avremo da aspettare molto?

— Qualche ora.

— Il tempo necessario per udire la tua avventura — disse il greco.

— Ti preme conoscerla? — chiese l’arabo.

— Può esserci utile.

— Sì, imparerai come io mi sia fatto stritolare scioccamente una spalla.

— Con i leoni non c’è da scherzare, l’hai detto tu!

— È vero; però, qualche volta, l’ardore giovanile e la brama dell’avventura vincono la prudenza e... delle sciocchezze se ne commettono.

— Basta, narraci la storia.

— Accendo la pipa e comincio.

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