< Il treno volante
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X. Il tradimento di Sokol
IX XI

X

Il tradimento di Sokol

Il sole era tramontato e la luna piena era sorta lentamente tersa e luminosa in un cielo purissimo, sgombro di nubi.

Una calma infinita regnava sotto i grandi boschi che il treno volante quasi sfiorava, essendosi molto abbassato in causa della condensazione dell’idrogeno. Talvolta i rami dei miombi e dei sicomori sfioravano con un leggero fruscio l’estremità della piattaforma.

Gli aeronauti avrebbero potuto facilmente alzarsi, avendo ancora molte centinaia di chilogrammi di zavorra e molti cilindri ripieni di gas, ma si tenevano a bassa quota, volendo tentare la caccia dal dirigibile.

— Gli animali non devono mancare in queste foreste — aveva detto. — Ci prenderemo il piacere di tirar loro senza bisogno di scendere a terra.

Mentre i due negri sonnecchiavano sui loro materassi, l’arabo ed i due europei s’erano seduti sul parapetto della piattaforma, tenendo in mano i fucili.

Per ingannare il tempo avevano accese le loro pipe e sturata una bottiglia di vino del Reno, sorseggiando di quando in quando qualche bicchiere. Anche l’arabo, a dispetto del Profeta, beveva magnificando la squisitezza del liquore prelibato.

Le foreste si succedevano alle foreste, interrotte solamente da qualche laghetto o da qualche piccolo corso d’acqua; animali invece non ne comparivano.

Forse era ancora troppo presto e non avevano lasciate le loro tane per la caccia notturna.

— Ci toccherà di vegliare invano? — chiese il greco. — Avrei preferito dormire.

— Sii paziente — disse l’arabo. — Un cacciatore non deve avere mai fretta.

— Ne avrò ancora per qualche ora, poi me ne andrò a dormire.

— Vedo un fiume molto largo delinearsi dinanzi a noi — disse in quel momento Ottone.

— Ed io un grosso villaggio verso il sud — disse l’arabo.

— Quale sarà? — chiese Matteo.

— Usenga.

— Ed il fiume?

— Il Kisigo.

— Allora siamo già nell’Ugogo — disse il tedesco.

— Sì, siamo sul territorio dei Ruga-Ruga, i feroci banditi del Niungu. Siamo prudenti, amici; quei predoni possono sorprenderci.

— Passeremo l’Ugogo senza scendere a terra — rispose il tedesco. — Guarda! Guarda!

— Che cosa vedi? domandò Matteo.

— Degli animali enormi che s’avanzano verso il fiume.

— Sono elefanti! — esclamò l’arabo.

Sei o sette masse gigantesche, con delle orecchie enormi e delle lunghe proboscidi, erano uscite dalla foresta e si dirigevano verso il fiume, tenendosi l’una dietro l’altra.

Era un branco di elefanti guidati al fiume da un maschio di statura gigantesca.

Essendo il vento molto debole, il Germania non doveva raggiungerli prima di un quarto d’ora.

— Heggia — disse l’arabo, — preparati a gettare l’àncora.

— Ci fermeremo presso il fiume? — chiese il negro.

— Sì — rispose Ottone. — Cerca di non far rumore per non allarmare quei colossi.

— Scenderemo? — chiese Matteo.

— Possibilmente daremo loro la caccia tenendoci sulla piattaforma — rispose il tedesco.

Essendo le macchine unte, mise in movimento le eliche e orizzontò il timone in modo da passare sopra gli elefanti.

Intanto il greco aveva preparato le armi, caricandole con palle coniche indurite, essendo la pelle di quei colossi grossa quanto e forse più di quella degl'ippopotami.

Quando il Germania giunse presso il fiume, Heggia lasciò cadere l’àncora, incastrandola fra i rami d’un baobab.

Gli elefanti erano scesi nell’acqua e stavano giocando fra di loro.

Si urtavano cercando di rovesciarsi, succhiavano l’acqua con le proboscidi, gettandosela addosso l’un l’altro e si alzavano sulle zampe posteriori lasciandosi cadere di colpo, in modo da sollevare delle grandi ondate spumeggianti.

Non s’erano ancora accorti della presenza dei cacciatori aerei, sicchè giocavano con piena sicurezza, senza mostrare alcuna diffidenza.

Forse avevano anche scorto il treno; ma probabilmente lo avevano scambiato per qualche nube oscurissima.

— A quale distanza si trovano da noi? — chiese Ottone a Sokol che aveva la vista migliore di tutti. — Che si possa colpirli?

Il negro, che un tempo era stato cacciatore d’elefanti, scosse la testa.

— Non farete altro che spaventarli — disse poi.

— Che cosa ci consigli di fare?

— Volete provare una caccia emozionante?

— Certamente, ci tengo.

— Anch’io — disse il greco.

— Scendiamo e venite con me, ma non più di uno alla volta.

— E perchè uno solo? — chiese il greco.

— Non vi sarebbe posto per due — rispose il negro.

— Allora io rimarrò quassù e farò fuoco quando i giganti passeranno sotto la piattaforma — disse Matteo.

— Li faremo fuggire da questa parte — rispose Sokol. — Voi dovete fare una cosa.

— Dimmela.

— Quando udrete il primo sparo, mandate alcuni razzi sulla riva opposta, onde impedire agli elefanti di guadare il fiume e di fuggire.

— Lo faremo — disse Matteo.

— Venite, padrone.

Gettarono la scala, si armarono dei fucili e scesero fra gli alberi che vi erano foltissimi.

Gli elefanti continuavano a bagnarsi, ignari del pericolo che li minacciava.

Trovandosi a circa cinquanta passi dal baobab, non avevano ancora potuto avvertire la presenza dei cacciatori.

— Andremo ad aspettarli presso la riva? — chiese Ottone al negro.

— Seguitemi, padrone — disse questo. — Vi condurrò in un luogo ove potrete far fuoco senza correre alcun pericolo.

— Mi hanno detto che quando gli elefanti vengono feriti si difendono ferocemente.

— Sono terribili ed i cacciatori rischiano di venire stritolati dalle loro proboscidi o schiacciati dai loro larghissimi piedi. Vi consiglio di essere molto prudente.

— Non mi esporrò troppo — rispose il tedesco.

Il negro condusse il cacciatore attraverso la foresta, facendogli fare un giro alquanto lungo, poi si arrestò in mezzo ad un banano immenso, formato da una cinquantina di tronchi.

— Voi rimarrete nascosto qui — disse Sokol indicandogli il centro del banano.

— E dove sono gli elefanti?

— A duecento metri.

— E perchè vuoi che io mi fermi qui?

— Io ve li spingo contro.

— Avrei preferito cacciarli presso la riva.

— Fra questi tronchi non correte pericolo alcuno.

— Sarà lunga la tua assenza?

— Fra un quarto d’ora gli elefanti passeranno a tiro.

— Bada di non farti schiacciare.

— Non temete per me — rispose il negro.

Si allontanò correndo; però invece di dirigersi verso il fiume dove si trovavano gli elefanti, si diresse verso il nord.

Dieci minuti dopo si fermava dinanzi ad una palizzata nascosta da un immenso baobab.

— Non m’ero ingannato — disse. — Ora il tedesco è mio.

Superò rapidamente la cinta e si trovò dinanzi ad un gruppo di capanne, che gli alberi fittissimi avevano nascosto agli aeronauti.

— È ben questa la stazione di Altarik — disse con un sorriso di soddisfazione.

Si cacciò sotto uno di quei capannoni che era pieno di balle di mercanzia e di casse d’ogni dimensione e mandò un fischio.

Un momento dopo due negri, guidati da un arabo armato di fucile, comparvero.

Vedendo Sokol, l’arabo puntò l’arma verso di lui, dicendogli:

— Cosa vuoi tu? E chi sei?

— Un uomo di Altarik — rispose Sokol. — Io guido la spedizione di El-Kabir.

L’arabo fece un gesto di stupore.

— El-Kabir è già qui? — esclamò.

— A pochi passi da noi.

— È impossibile!

— Siamo giunti con un pallone.

— Non so cosa sia.

— Lo vedrai dopo.

— E cosa vuoi?

— Darti in mano il capo della spedizione.

— Chi è?

— Un tedesco. Non ti ha dato alcun ordine Altarik?

— Sì, mi ha incaricato di far sorvegliare le vie che conducono nell'Uganda e nell’Usango e di far arrestare in qualunque luogo la carovana d’El-Kabir. Abbiamo dalla nostra anche i Ruga-Ruga, ai quali Altarik ha promesso molta mercanzia se riusciranno ad arrestare l’arabo ed il suo seguito.

— Il capo della spedizione è a poche centinaia di passi da noi.

— Lo prenderemo e ci divideremo il premio promesso da Altarik. E tu come ti trovi con loro?

— Sono stato comperato da Altarik per organizzare il tradimento ed impedire ad El-Kabir di giungere nel Kassongo.

— E hai potuto unirti alla spedizione?

— Ero un servo d’El-Kabir.

— Comprendo — disse l’arabo. — Io vorrei catturare anche i compagni del tedesco.

— Lo tenteremo, quantunque io dubiti molto della riuscita dell’impresa. D’altronde può bastare la cattura del tedesco. I suoi compagni lo cercheranno, perderanno molto tempo, ed intanto Altarik potrà giungere nel Kassongo. Sai dove si trova ora egli?

— È passato di qua tre settimane or sono, ed ora deve trovarsi a non molta distanza dal lago Tanganika.

— È già molto innanzi — disse Sokol.

— Procede a marce forzate, e tutti i suoi uomini montano cavalli o asini.

— Basta, andiamo a catturare il tedesco o si impazienterà e risalirà sul pallone — disse Sokol. — Altarik ha promesso mille rupie per ogni uomo preso, ed io non voglio perderle.

— Fammi vedere prima qualche segno o qualche lettera onde io sia certo che tu sei realmente una spia di Altarik. Io non ti ho mai veduto e tu puoi essere qualche capo di predoni.

Sokol si sciolse un nodo della cintura sostenente i suoi calzoncini bianchi e mostrò un anello di rame con una piccola piastra d’argento che portava incise alcune cifre.

— Il sigillo d’Altarik — disse l’arabo. — Ora ti credo. Con questo tu potevi chiedere aiuto in tutte le stazioni di Altarik.

— Lo so — rispose Sokol. — Me lo ha dato appositamente.

L’arabo battè tre volte le mani. Dai capannoni si videro uscire parecchie forme umane.

— Venite tutti e armati — disse l’arabo. — Si va alla guerra.

Due minuti dopo Sokol e l’arabo si mettevano in cammino seguiti da dodici negri armati fino ai denti...

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