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XV
Una caccia pericolosa
Ottone ed i suoi compagni avevano appena preso possesso della capanna, quando videro giungere un drappello di negre cariche di panieri, di vasi di terra e di zucche, seguite da due negri, i quali spingevano innanzi due montoni molto grassi ed una capra.
Eremo doni dello sceicco e dei notabili del villaggio. I due montoni erano da macellarsi, la capra doveva somministrare latte fresco agli ospiti ed i cesti contenevano bulbi di manioca, già depurati dalla sostanza velenosa, pannocchie di mais da abbrustolirsi, patate dolci, radici mangerecce, banani e del tabacco; mentre i vasi contenevano burro fresco e le zucche birra eccellente.
— Vi è qui da nutrire una trentina di persone — disse Matteo, il quale aveva esaminati i panieri ed assaggiato il contenuto delle zucche. — Questi arabi non lesinano.
— La loro generosità è stata d’altronde ben pagata — disse El-Kabir. — Senza il nostro intervento i guerrieri di Nurambo sarebbero diventati padroni della città.
— Che abbiano la speranza che noi ci fermiamo molto? — chiese Ottone. — Noi non abbiamo tempo da perdere, avendo fretta di attraversare il Tanganika.
— Glielo faremo capire — disse El-Kabir. — Lo sceicco non tarderà a venirci a trovare. Aspetterà che abbiamo fatto colazione.
— E l’appetito non manca — disse Matteo.
Mentre essi discorrevano, i negri avevano sgozzato uno dei montoni, l’avevano fatto a pezzi ed un quarto era stato già collocato sul fuoco acceso, dinanzi alla capanna.
In attesa che si cucinasse, i tre aeronauti diedero l’assaggio alla birra ed al contenuto dei panieri, facendo soprattutto man bassa sui banani, veramente squisiti.
Non dimenticarono però Heggia, il quale ebbe la sua parte di frutta e di birra.
Avevano appena divorato l’arrosto, quando lo sceicco si fece annunciare. Era accompagnato da due vecchi dignitari con barbe bianche, forse due ministri o due consiglieri e da un negro, il quale portava un vassoio con delle chicchere di metallo, caffè, tabacco e pipe.
— Salute agli uomini bianchi ed a El-Kabir — disse, sedendosi su una stuoia variopinta, che aveva fatto spiegare a terra.
— Salute a te — risposero i tre aeronauti.
Lo sceicco fece servire il caffè, distribuì le pipe e quando tutti si misero a fumare, disse:
— Vengo a portare i ringraziamenti della popolazione, la quale deve a voi soli la salvezza di Mongo e vengo a chiedervi cosa desiderate per ricompensa.
— Una sola cosa — disse Ottone. — Non abbiamo bisogno d’altro.
— Come sarebbe a dire? — chiese l’arabo.
— Noi non chiediamo che di avere una informazione che ci è necessaria.
— Sono a vostra disposizione — disse l’arabo.
— Tu conoscerai Altarik.
— Tutti conoscono quel crudele mercante di schiavi.
— È passato per di qui?
— Sì, il mese scorso.
— Quanti giorni fa?
— Una ventina.
— Era seguito da una carovana numerosa?
— Aveva cento negri armati di fucili a retrocarica e molti asini e cavalli. Non si fermò che due sole ore per provvedersi di viveri, poi ripartì verso l’ovest. Mi parve che avesse molta fretta.
— Dove credi che sia ora?
— Avrà già attraversato anche il Tanganika.
— Ha qualche stazione sul lago?
— Ne ha due: una a Kirando e l’altra più al sud verso Mokaria.
— Non ha detto dove si recava?
— Nel Kassongo, a fare acquisti di denti d’elefante — rispose lo sceicco.
— Sai dirmi se è vero che nel Kassongo si trova un uomo bianco? — chiese Matteo.
— Un europeo!... — esclamò lo sceicco, guardandolo fisso.
— Ma sì, vi deve essere — rispose poi.
— Chi te lo ha detto? — chiese El-Kabir.
— L’anno scorso si è fermato qui alcuni giorni un uomo dalla pelle bianca, coi capelli e la barba bionda, che si diceva inglese.
«Era accompagnato da dieci negri armati e da venti portatori.
«Mi aveva detto che voleva esplorare le coste occidentali del lago e possibilmente spingersi nel Kassongo.
«Alcuni mesi più tardi, da una carovana che veniva dal lago, mi fu narrato che la scorta di quell’uomo era stata trucidata.
— Anche l’inglese?
— Mi pare che non abbiano parlato dell’uomo bianco.
— Ecco quanto volevamo sapere — disse Ottone. — Non chiedevamo di più.
— Volete partire? — chiese l’arabo, vedendoli alzarsi.
— Questa sera — rispose Ottone.
— Gli uomini bianchi sono valenti e sanno adoperare a meraviglia le loro armi — disse l’arabo.
— E cosa vuoi conchiudere?
— Io desidererei un piacere da voi — disse lo sceicco, esitando.
— Sarei pronto a pagarlo con avorio in abbondanza e con animali.
— Spiegati — disse Ottone.
— Da diversi mesi due leoni ferocissimi si sono stabiliti nel bosco che si stende al sud della città e decimano il bestiame dei nostri pastori. Nessuno dei miei uomini osa assalire più quelle belve, dopo che hanno sbranato sette cacciatori.
— E vorresti che noi ti liberassimo da quegli incomodi vicini?
— Sì — rispose l’arabo.
— Noi lo faremo — disse Ottone. — È vero, Matteo?
— Una partita di caccia non mi rincresce — rispose il greco.
— Verrò anch’io — disse El-Kabir.
— Ed io vi guiderò — aggiunse lo sceicco. — Quantunque io sia vecchio, so adoperare il fucile abbastanza bene ed il coraggio non mi manca. Voi fisserete quanti denti d’elefanti dovrò darvi e quanto bestiame.
— Noi non desideriamo nulla — disse Ottone. — Dovete aver sofferto danni già gravi durante l’assalto per privarvi di una parte delle vostre ricchezze. D’altronde noi non sapremmo cosa farne dei denti e del bestiame, non potendo caricare soverchiamente il pallone.
— Come potremo allora sdebitarci verso di voi?
— Non ne parliamo più — disse Matteo. — A noi basta la vostra riconoscenza.
«Dimmi invece quando andremo a scovare i due leoni.
— Questa sera, al levarsi della luna — rispose lo sceicco.
— Durante il giorno i leoni rimangono nascosti in una foresta spinosa che non possiamo forzare.
— A questa sera — dissero i due europei.
Lo sceicco, per dimostrare la sua riconoscenza, rimase l’intera giornata nella capanna, facendo servire rinfreschi e birra in quantità e obbligando gli ospiti ad accettare parecchi vasi di burro fresco, una considerevole quantità di frutta e anche due piccole capre, che furono portate sul treno aereo.
Calato il sole, i cacciatori fecero i loro preparativi per scovare i due formidabili carnivori.
Esaminarono le armi, cambiando le cartucce, mandarono a prendere nel pallone dei coltelli da caccia; poi, verso le otto di sera, lasciarono la città preceduti dallo sceicco, il quale si trascinava dietro una capra che doveva servire d’esca.
Il bosco che serviva di rifugio ai due leoni, si estendeva al sud della città, a circa quattro chilometri dalle ultime case.
Era vastissimo e formato da baobab immensi, da sicomori e da piante spinose, le quali rendevano l’accesso tutt’altro che facile.
Parecchi cacciatori, decisi a por fine alle imprese sanguinarie delle belve, avevano osato inoltrarsi in quelle cupe ombre. Nessuno era più tornato indietro ed i leoni avevano continuato a dare la caccia al bestiame ed ai pastori, sicuri ormai dell’impunità.
Quando i due europei ed i loro compagni giunsero sull’orlo della foresta, la luna stava per sorgere.
Sotto gli alberi l’oscurità era così profonda da non potersi quasi discernere un tronco dall’altro.
— Conosci il luogo dove i leoni sogliono nascondersi? — domandò Ottone allo sceicco.
— Sì — rispose questi. — Si tengono per lo più imboscati presso una fonte dove accorre ad abbeverarsi tutta la selvaggina della foresta.
— Dove si trova?
— A tre o quattrocento passi da qui, presso una macchia di camerope.
— Che ci siano già i leoni? — chiese Matteo.
— Non si odono i loro ruggiti che sul tardi, verso la mezzanotte.
— Andiamo — disse Ottone levandosi dalla spalla il fucile.
— E siccome non siamo certi se i leoni si siano già imboscati, apriamo bene gli occhi.
— Io e lo sceicco guardiamo a destra — disse Matteo.
— Ed io ed El-Kabir guarderemo a sinistra — disse Ottone.
Stettero prima un momento in ascolto, poi, rassicurati dal silenzio che regnava nella foresta, si misero in cammino, cercando di non far rumore per non allarmare le due fiere.
Percorsi quattrocento passi giunsero presso un piccolo stagno che serviva di scolo alle acque della foresta e sulle cui rive si vedevano numerose impronte di giraffe, di zebre e perfino di elefanti.
Tutto intorno si estendevano delle bellissime camerope a ventaglio, bellissime palme che hanno il fusto cilindrico piuttosto sottile, coperto di grosse squame regolari e coronate alla sommità da un superbo ciuffo composto di trenta o quaranta foglie.
— È questo il luogo battuto dai leoni? — domandò Ottone.
— Sì — rispose l’arabo.
— Ci imbeccheremo qui? — chiese Matteo.
— Non sarebbe prudente — rispose lo sceicco. — Vedo là un baobab che può servirci di rifugio. Ci nasconderemo fra i suoi rami e aspetteremo che i leoni ci passino a tiro.
— E la capra?
— La legheremo al tronco d’una di queste palme.
Esaminarono dapprima i dintorni per tema che vi si nascondesse qualche iena la quale potesse divorare la capra prima che giungessero i leoni; poi si arrampicarono sulle grosse radici del baobab e, aiutandosi reciprocamente, si misero a cavalcioni dei rami nascondendosi tra il folto fogliame.
Per ingannare il tempo accesero le loro pipe e attesero con ansia che qualche rumore rompesse il profondo silenzio della foresta.
Passò mezz’ora. La capra, certamente conscia del pericolo che correva, non aveva cessato di belare lamentosamente e di dare forti strattoni alla corda per spezzarla e fuggirsene verso la città.
D’un tratto un urlo rauco venne dalla parte dello stagno.
— Chi urla? — chiese Ottone, imbracciando il fucile.
— Un leopardo — rispose lo sceicco.
— Lo lasceremo andare? ... cadde una seconda bomba, lanciando in aria parecchi negri...
(Cap. XIV).
— Non ci conviene far fuoco ora. I leoni sospetterebbero la presenza di cacciatori e forse non si spingerebbero fin qui.
Il leopardo era uscito dalle macchie e si era fermato sulle rive dello stagno per dissetarsi. Si udiva il suo ansare e lo sciabordare dell’acqua smossa.
Ottone scese dal ramo e potè scorger l’animale battuto in pieno dalla’luna.
Era un bell’animale, un po’ più piccolo d’una tigre del Bengala, con la pelle chiazzata di macchie nere.
Ad un tratto, Ottone lo vide voltarsi bruscamente, poi slanciarsi, con un gran salto, sul ramo di un albero nascondendosi in mezzo al fogliame.
— Che si sia accorto della nostra presenza? — chiese.
— Suppongo invece che abbia sentito l’avvicinarsi di qualche capo di selvaggina. Oh, vedete? Ecco un bel boccone pel leopardo.
Da un gruppo di piante spinose era uscito, con infinite precauzioni, un animale che rassomigliava ad un giovane cavallo nelle forme, con la testa di bue, armata di due grosse corna molto ricurve e col collo adorno d’una criniera fitta e irta come quella degli asini.
— Che razza di bestia è quella? — domandò Ottone, il quale poteva scorgerla benissimo perchè battuta in pieno dalla luna.
— Qualche cavallo selvaggio?
— È uno gnu — rispose El-Kabir, — un ruminante che ha del bue, dell’antilope, del cavallo e dell’asino.
— Buono da mangiarsi?
— La carne è eccellente.
— Giacchè mi è a tiro lo abbatto.
— No, signore — disse lo sceicco. — Spaventereste i leoni.
— Lo lasceremo al leopardo?
— È necessario.
— Vediamo questo colpo.
Lo gnu pareva che avesse fiutata la presenza del pericoloso il avversario. Si era arrestato a venti passi dallo stagno con la testa bassa, presentando le sue robuste corna piatte e molto curve.
— Che si sia accorto della presenza del leopardo? — chiese Ottone.
— Certamente — rispose lo sceicco.
— Che si lasci cogliere?
— Questi animali, assaliti di fronte, si difendono vigorosamente e tengono testa anche ai cacciatori.
— Allora il leopardo avrà il suo conto.
— No, signore, piomberà sul dorso dello gnu e lo ucciderà con due zampate.
Lo gnu rimase qualche istante in ascolto, fiutando l’aria a diverse altezze, poi si rimise in cammino, dirigendosi verso lo stagno. Si avanzava adagio adagio, scrutando sospettosamente i cespugli vicini e fiutando sempre l’aria.
— Attenti — disse lo sceicco. — Il leopardo si prepara all’attacco.
Lo gnu era giunto a pochi passi dall’albero che serviva di nascondiglio alla fiera. Avvertito forse dall’acuto odore di selvatico che emanano tutti i felini, s’era nuovamente arrestato, abbassando la testa e puntando le corna.
In quel momento il leopardo con un balzo piombò sul dorso del povero animale.
Si udì un urlo breve, strozzato, poi un muggito soffocato.
Lo gnu era caduto sulle ginocchia. Le zampe della fiera gli avevano squarciato il collo ed i fianchi.
Si dibattè per alcuni istanti, per rimettersi in piedi; poi vacillò finche si abbattè su un fianco, agitando pazzamente le gambe.
Il leopardo frattanto, attaccata la bocca allo squarcio del collo, succhiava avidamente il sangue caldo che sprizzava in gran copia, mugolando e scodinzolando.
— Sarebbe un bel momento per mandargli una palla nel cranio — disse Ottone, il quale non sapeva quasi più frenarsi.
— Non vi arrischiate! — rispose El-Kabir.
Il leopardo continuò a succhiare il sangue finche lo gnu cessò d’agitarsi, poi lo addentò per una zampa e lo trascinò attraverso la foresta come si fosse trattato d’un montone o d’un’antilope.
Durante quella lotta la capra che serviva d’esca era ammutolita, sfuggendo così ad una morte certa. Appena però vide allontanarsi la belva, riprese subito i suoi belati, più alti di prima.
— Povera bestia! — disse Ottone. — Devi aver passato un brutto momento!
— È stata una fortuna per essa che sia venuto lo gnu! Altrimenti la nostra capra non sarebbe viva a quest’ora.
— C’è un altro animale che si avanza verso lo stagno e non sappiamo se ce la risparmierà — disse in quel momento Matteo.
— Che sia uno dei due leoni? — domandò Ottone.
— Aspettiamo che esca dall’ombra per assicurarcene.
— Mi sembra che sia di forme colossali — disse Ottone. — Qualche elefante forse?
Frattanto l’animale usciva dall’ombra proiettata dagli alberi comparendo nello spiazzo illuminato dalla luna.
— Una giraffa! — esclamò Ottone.
Si trattava veramente di uno di quei bizzarri animali, i più strani della creazione, tutti collo e gambe.
Era d’altezza straordinaria, misurando con la testa non meno di cinque metri di altezza e tre e mezzo circa con la groppa.
S’avanzava con precauzione, curvando l’immenso collo e sferzandosi i fianchi con la coda. Certo sapeva che intorno a quello stagno solevano acquattarsi le bestie feroci; e perciò diffidava.
— Che bel colpo di fucile! — esclamò Ottone.
In quel momento a trenta o quaranta passi dallo stagno risonò, come un colpo di tuono, un ruggito così alto e spaventoso da far balzare i quattro cacciatori.
— Il leone! — esclamarono a un tempo.
La povera giraffa, udendo la voce del re delle foreste, si era cacciata prontamente in mezzo ad una folta macchia; era nondimeno così alta che la sua testa sporgeva dalle fronde.
— Stiamo attenti — disse El-Kabir. — Il leone ha fiutato la giraffa.
— Che venga ad assalirla? — chiese Matteo.
— Sì, se glie ne lasceremo il tempo.
— Dove dobbiamo tirare? — chiese Ottone.
— Alla testa.
— Non mancherò al bersaglio, quantunque i miei nervi siano straordinariamente eccitati. Pare impossibile, eppure quel ruggito mi ha scombussolato.
— Accade sempre così, le prime volte — disse El-Kabir.
Al ruggito era succeduto un profondo silenzio. La giraffa, sempre nascosta, allungava il collo da tutte le parti, sbarrando i suoi grandi dolcissimi occhi.
Poco dopo i cacciatori udirono lo scroscio delle foglie calpestate e il flagellare dei rami sbattuti.
Il leone si avanzava, aprendosi il passo attraverso le macchie.
Conscio della propria forza e del proprio coraggio, sdegnava di prendere qualsiasi precauzione.
— Eccolo! — esclamò ad un tratto El-Kabir.
Un ruggito terribile rintronò nella foresta, destando l’eco e facendo vibrare perfino le foglie degli alberi.
Il leone aveva fatto la sua entrata nella radura che circondava lo stagno.