< Il tulipano nero < Parte prima
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
XII - L'esecuzione.
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XII


L’esecuzione.


Cornelio non aveva che trecento passi a fare fuori della prigione per arrivare a piè del palco. In fondo alla scala il cane lo guardò passare tranquillamente; Cornelio credè pure rimarcare negli occhi del mastino una certa espressione di dolcezza che confinasse con la compassione. Forse il cane conosceva i condannati, e mordeva solo quelli che escissero liberi.

Si capisce bene che quanto più il tragitto era corto dalla porta della prigione a piè del palco, tanto più era ingombro di curiosi. Erano li stessi, che iniquamente inebriati dal sangue che avevano già bevuto tre giorni innanzi, attendevano una nuova vittima.

Però appena che Cornelio comparve un urlo immenso prolungossi per la via, s’intese su tutta la superficie della piazza e si distese in tutte le direzioni delle strade che sboccavano al palco e che erano ingombre di accorrenti, cosicchè il palco rassomigliava a un’isola, che fossero venuti a battere onde di quattro o cinque fiumane.

In mezzo alle minacce, agli ululati e agli schiamazzi, senza dubbio per non intenderli, Cornelio erasi tutto riconcentrato in se stesso.

A che pensava il giusto che andava a morire? Non a’ suoi nemici, non a’ suoi giudici, non a’ suoi carnefici. Pensata a’ bei tulipani, che vedrebbe dall’alto dei cieli sia a Ceylan, sia a Bengala, sia altrove, allorchè assiso con tutti gl’innocenti alla destra di Dio egli potrebbe riguardare con compassione questa terra dove erano stati scannati Giovanni e Cornelio de Witt per aver troppo pensato alla politica, e dove si andava a scannare Cornelio Van Baerle per aver troppo pensato ai tulipani.

— Un colpo di spada, diceva il filosofo, e comincerà la mia bella visione.

Solamente restava a sapersi se come al de Chalais, come al de Thou e ad altri iniquamente uccisi, il boia non serbasse più di un colpo, quanto dire più di un martirio al povero tulipaniere.

Non per questo Van Baerle montò meno risolutamente li scalini del suo patibolo. Vi montò orgoglioso, che che ne fosse, di essere l’amico dell’illustre Giovanni e il figlioccio del nobile Cornelio, che i furfanti accalcati per vederlo avevano spezzato e arrostito tre giorni innanzi.

S’inginocchiò, fece la sua preghiera e rimarcò non senza provare una viva gioia, che posando la sua testa sul ceppo, e tenendo gli occhi aperti vedrebbe fino all’ultima momento, la finestra ferrata del Buitenhof.

Era venuta finalmente l’ora di venire a quell’atto: Cornelia posò il suo mento sul ceppo umido e freddo; ma in quel momento a suo malgrado gli si chiusero gli occhi per sostenere più risolutamente l’orribile fendente che era per cadergli sul collo e per rapirgli la vita.

Un lampo balenò sul tavolato del palco: il boia, sguainava la spada.

Van Baerle disse addio al gran tulipano nero, certo di svegliarsi dando il buon giorno a Domeneddio in un mondo altramente illuminato, altramente colorito.

Tre volte sentì il vento freddo della spada passare sul suo collo rabbrividito; ma oh! sorpresa! non sentì, nè dolore nè scossa; non vide nessun cambiamento di sorta.

Poi ad un tratto, senzachè egli sapesse da chi, Van Baerle si sentì rialzare da mani assai delicate, e bentosto ritrovossi ritto su’ suoi piedi un pochetto barcollanti.

Riaprì gli occhi. Qualcuno leggeva qualche cosa presso di lui sopra una cartapecora con un gran suggello di ceralacca.

E il medesimo sole giallastro, come conviensi a un sole olandese, splendeva in cielo e la medesima finestra ferrata lo guardava dall’alto del Buitenhof, e i medesimi marrani non più urlanti ma sbigottiti, riguardavanlo dal basso della piazza.

A forza di aprire gli occhi, di riguardare, di ascoltare, Van Baerle cominciò a comprendere questo:

Che monsignor Guglielmo principe di Orange, temendo senza dubbio che le diciassette libbre di sangue, che Van Baerle oncia più oncia meno aveva nel corpo, non facesse traboccare la bilancia della giustizia celeste, aveva avuto misericordia del suo carattere, compassione della sua innocenza.

In conseguenza di che sua Altezza aveagli fatto grazia della vita. Ecco perchè la spada, che erasi alzata con reflesso sinistro, aveva volteggiato tre volte attorno la sua testa, come l’uccello di malaugurio attorno a quella di Turno; ma non l’aveva percosso e perciò ne aveva lasciate intatte le vertebre.

Ecco perchè non aveva sentito nè dolore nè scossa. Ecco ancora perchè il sole continuava a ridere nell’azzurro slavato, è vero, ma sopportabilissimo delle volte celesti.

Cornelio che aveva sperato Dio e il panorama tulipanico dell’universo, rimase un poco sconcertato, ma si consolò della sua non trista avventura con le risorse intellettuali di quella parte del corpo, che i Greci chiamavano trachelos, e che noi Francesi modestamente nominiamo collo.

E poi Cornelio sperò che la grazia fosse completa, e che si liberasse e si rendesse alle sue caselle di Dordrecht.

Ma Cornelio prese un qui pro quo; come diceva verso il medesimo tempo la signora di Sevignè, eravi un post-scriptum alla lettera, e la parte più importante della lettera era nel post-scriptum col quale Guglielmo Statolder d’Olanda condannava Cornelio Van Baerle a una perpetua prigionia.

Egli era poco colpevole per la morte, ma troppo colpevole per la libertà.

Cornelio ascoltò dunque il post-scriptum, poi dopo la prima contrarietà sollevata dalla decezione, che recava il post-scriptum:

— Eh? pensò egli, non è tutto perduto; che nella risoluzione perpetua avvi del buono: vi ha Rosa, sonvi ancora i miei tre talli del tulipano nero.

Ma Cornelio dimenticava che le Sette Province possono avere sette prigioni, una per provincia; e che il pane del prigioniero è d’altronde meno caro all’Aya che in una capitale.

Sua Altezza Guglielmo, che non aveva, a quelle che pareva, i mezzi di alimentare Van Baerle all’Aya lo recluse in prigione a vita nella fortezza di Loevestein ben presso a Dordrecht, ma ahimè! ben troppo lontano; benchè Loevestein, dicono i geografi, sia situato alla punta dell’isola, la quale in faccia a Gorcum formano il Wahal e la Mosa.

Van Baerle sapeva molto ben la storia del suo paese per non ignorare che il celebre Grozio era stato recluso in quel castello dopo la morte di Barneveldt, e che li Stati nella loro generosità verso il celebre pubblicista, giureconsulto, istorico, poeta, teologo, avegli accordato la somma di ventiquattro soldi di Olanda al giorno pel suo mantenimento.

— Io che sono ben lontano da valere quanto Grozio, diceva a se stesso Van Baerle, mi si daranno dodici soldi al più, e vivrò malamente, ma pure vivrò.

Poi a un tratto colpito da una ricordanza terribile:

— Ah! sclamò Cornelio, quel paese è umido e nebbioso! quel terreno è cattivo pe’ tulipani! E di più Rosa non sarà a Loevestein, mormorò lasciandosi cadere sul petto la testa, che poco era mancato che non gli cadesse più basso.

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