< Il tulipano nero < Parte seconda
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Alexandre Dumas - Il tulipano nero (1850)
Traduzione dal francese di Giovanni Chiarini (1851)
XIII - Come Van Baerle, prima di lasciare Loevesten, metta in pari i suoi conti con Grifo.
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XIII


Come Van Baerle, prima di lasciare Loevestein, metta in pari i suoi conti con Grifo.


Ambedue soprastettero un istante, Grifo sulla offensiva, Van Baerle sulla difensiva.

Poi, siccome la situazione poteva prolungarsi all’indefinito, Cornelio volendosi informare delle cause di questa recrudescenza di collera presso il suo antagonista, domandollo:

— Ebbene! che cosa volete?

— Che cosa io voglio, te lo vado a dire. Voglio che tu mi renda la mia figlia Rosa.

— La vostra figlia! esclamò Cornelio.

— Sì, Rosa! La mia Rosa che mi hai involata con la tua arte diabolica. Vediamo; vuoi tu dirmi ov’ella sia?

— Rosa non è a Loevestein? esclamò Cornelio.

— Fai il nesci. Me la vuoi tu rendere, ancora una volta?

— Eh! disse Cornelio, l’è un’insidia che tu mi tendi.

— Per l’ultima volta, mi vuoi tu dire ove trovasi mia figlia?

— Oh! indovinalo, farabutto, se non lo sai.

— O guarda, o guarda! pronunziò Grifo pallido e con le labbra tremanti per la furia, che salivagli al cervello. Ah! non mi vuoi tu dir niente; ebbene! t’aprirò io i denti.

E fece un passo verso Cornelio, a cui mostrando l’arme che luccicavagli in mano:

— Vedi, disse, questo coltello? ho ucciso con questo più di cinquanta galli neri. Ammazzerò pure come quelli il diavolo loro principale: aspetta, aspetta!

— Dunque, furfante, mi vuoi tu ammazzare davvero?

— Ti voglio spaccare il cuore, per vedervi il luogo dove tu nascondi mia figlia.

E dicendo queste parole con lo smarrimento febrile, Grifo si precipitò su Cornelio, che ebbe appena tempo di ripararsi dietro la sua tavola per ischivare il primo colpo.

Grifo brandiva il suo coltello proferendo orribili imprecazioni.

Cornelio previde che, se egli era fuori di tiro del braccio, non l’era però fuori della portata dell’arme; perchè lanciata da lontano poteva traversare lo spazio e venire a conficcarsi nella sua pancia. Non perdè dunque tempo, e col bastone, che non aveva abbandonato, assestogli un colpo vigoroso sul pugno che teneva il coltello.

Il coltello cadde a terra, e Cornelio vi pose sopra il piede.

Poi, siccome Grifo pareva volesse attaccarsi a una lotta accanita, la quale il dolore del colpo di bastone e la vergogna di essere stato per la seconda volta disarmato avrebbe resa implacabile, Cornelio abbracciò un gran partito.

Scaricò una tempesta di colpi sul carceriere col più eroico sangue freddo, azzeccandoli in modo che ogni bussa cadeva appieno.

Grifo non tardò molto a chiedere misericordia; ma prima di chiederla aveva strillato e molto. Le sue grida erano state intese ed avevano messo in allarme tutti gl’impiegati della casa. Due soprastanti un ispettore e tre o quattro secondini comparvero dunque ad un tratto, e sorpresero Cornelio in fragante col bastone in mano e il coltello sotto il piede.

Alla vista di tutti quei testimoni del misfatto or ora commesso, le circostanze attenuanti, come si dice oggigiorno, non erano conosciute, Cornelio sentissi senza scampo perduto.

Difatti tutte le apparenze gli stavano contro.

In un attimo Cornelio fu disarmato e Grifo circondato, rialzato, sostenuto potè contare le ammaccature, che gonfiavano le sue spalle e le sue schiene come altrettante giogaie addentellanti le creste di una montagna.

Fu steso il processo verbale delle violenze esercitate dal prigioniero sopra il suo guardiano; e questo processo insufflato da Grifo non potevasi accusare di tiepidezza. Non trattavasi niente meno che di un tentativo di assassinio premeditato da lungo tempo e attentato sul carceriere: dunque premeditazione e ribellione aperta.

Mentrechè istruivasi il processo contro Cornelio, i ragguagli dati da Grifo rendendo il suo confronto inutile, i due soprastanti l’avevano fatto scendere nel suo quartiere tutto macolato e gemebondo.

Intanto le guardie, che eransi impadronite di Cornelio, occupavano cristianamente ad istruirlo degli usi e costumi di Loevestein, che del resto egli conosceva bene quanto loro, essendogli stata fatta lettura del regolamento quando entrò in quella prigione, e certi articoli specialmente essendogli rimasti perfettamente a memoria.

Gli raccontarono inoltre, come l’applicazione di quel regolamento fosse stata fatta sul conto di un prigioniero nominato Mattias, che nel 1668, cioè cinque anni prima aveva commesso un atto di ribellione ben altrimenti più lieve di quello che erasi permesso Cornelio.

Egli aveva trovato la sua minestra bollente e aveala schiaffata sul muso del capoguardia, che al seguito di questa abluzione aveva avuto il disappunto asciugandosi il viso di venirgli dietro una buona parte di pelle.

Mattias dentro le dodici ore era stato estratto dalla sua stanza, poi condotto al guardiolo, dove era stato iscritto come assente di Loevestein; poi menato alla spianata, la cui visuale è bellissima, estendendosi a dodici leghe di distanza; poi quivi avendogli legate le mani e bendati gli occhi, si recitarono tre preghiere; e poi fu invitato a inginocchiarsi, e le guardie di Loevestein in numero di dodici a un segnale fatto da un sergente gli applicarono ognuno abilissimamente una palla nello stomaco.

Per quelle pillole Mattias essere morto nell’atto.

Cornelio ascoltò con la più grande attenzione questo racconto non molto piacevole; e dopo averlo ascoltato, disse:

— Ah! ah! dentro le dodici ore, dite voi?

— Già, la dodicesima ora, a quel che credo, non era finita di suonare, disse il narratore.

— Grazie, disse Cornelio.

La guardia non aveva finito la graziosa sua risata, che serviva di puntuazione al suo racconto, che un passo sonoro risuonò per la scala: un tintinnio di sproni come di marcia militare.

Le guardie scansaronsi per lasciar passare un officiale, che entrò nella stanza di Cornelio al momento in cui il cancelliere di Loevestein stendeva il verbale.

È questo il N.° 11. domandò.

— Sì, capitano, rispose il sottofficiale.

— Allora è questa la camera di Cornelio Van Baerle? Egli domandò dirigendosi questa volta allo stesso prigioniero.

— Sì, signore.

— Seguitemi.

— Oh! oh! disse Cornelio il di cui cuore si risollevava, oppresso dalle prime angoscie della morte, come ci si spiccia alla fortezza di Loevestein! E il mariolo che mi aveva parlato di dodici ore!

— Ohè! la va come ve l’ho contata? fece il novelliere all’orecchio del paziente.

— Una bugia.

— Come?

— Mi avete promesso dodici ore.

— Ah! sì. Ma vi si manda un aiutante di campo di Sua Altezza, e anche uno de’ suoi più intimi, il signor Van Deken. Canchero! Non si fece un simile onore al povero Mattias.

— Andiamo, andiamo, disse Cornelio gonfiando i suoi polmoni con la più gran quantità d’aria possibile; andiamo e mostriamo loro che un popolano, battezzato di Cornelio de Vitt, può, senza fare smorfie, contenere altrettante palle di moschetto, quante quel Mattias di buona memoria.

E passò fieramente dinanzi all’attuario, che interrotto nelle sue funzioni si azzardò di dire all’officiale.

— Ma, capitano Van Deken, il processo verbale non è ancora terminato.

— Non vale neppure la pena di finirlo, rispose l’officiale.

— Buono, replicò il processante chiudendo filosoficamente le sue carte e la sua penna in un portafoglio usato e tutt’unto.

— È stato scritto, pensò il povero Cornelio, che io in questo mondo non abbia da dare il mio nome nè a un bambino, nè a un fiore, nè a un libro, tre necessità, di cui Iddio una almeno, come ci si assicura, impone a ciascun’uomo per organizzato alla meglio che e’ sia, e che egli si degna che gioisca sulla terra della proprietà di un’anima e dell’usufrutto di un corpo.

E seguì l’officiale col cuore risoluto e con la testa alta.

Cornelio contava i gradini che conducevano alla spianata, rimproverandosi di non aver dimandato alla guardia quanti ve ne fossero; che colui nella sua officiosa compiacenza non avrebbe certo mancato di dirglielo.

Ciò che oltremodo spiaceva al paziente in questo tragitto da lui riguardato come l’ultimo suo viaggetto, si era di veder Grifo e non Rosa. Infatti qual soddisfazione doveva brillare sul viso del padre, e qual dolore sul viso della figlia.

Grifo come avrebbe applaudito a quel supplizio, vendetta feroce di un atto eminentemente giusto cui Cornelio aveva la coscienza d’aver compito come un dovere!

Ma, Rosa, la povera ragazza, s’ei non vedevate, se andava a morire senza darle l’ultimo bacio o almeno l’ultimo addio; s’egli andava a morire in fine senza avere alcuna nuova del gran tulipano nero, e risvegliarsi lassuso senza sapere da qual parte bisognasse volgere gli occhi per ritrovarla!

In verità per non disfarsi in lacrime in simile momento il povero tulipaniere, aveva intorno al cuore più aes triplex (triplice bronzo) di Orazio, da lui attribuiti al navigatore che il primo visitò l’infami sugli acroceranui.

Ebbe un bel riguardare a dritta, ebbe un bel riguardare a sinistra; arrivò sulla spianata senza avere scorto Rosa, e senza avere scorto Grifo.

Eravi quasi una compensazione.

Cornelio giunto sulla spianata cercò col guardo i suoi esecutori, e vide di fatti una dozzina di soldati assembrati a chiacchera; ma senza moschetto, senza essere a rango; condotta che parve a Cornelio indegna della gravità che presiede d’ordinario a consimili avvenimenti.

Ad un tratto Grifo zoppicante, barcollante, appoggiato ad una gruccia, apparve fuori del suo guardiolo. Egli aveva acceso per lanciare un ultimo sguardo d’ira tutto il fuoco de’ suoi occhi grigi di gatto; e nel tempo stesso si mise a vomitare contro Cornelio una tale tempesta di abominande imprecazioni, che Cornelio dirigendosi all’officiale:

— Signore, disse, non credo sia ben fatto lasciarmi così insultare da cotest’uomo, e soprattutto in un momento simile.

— Datemi retta, rispose l’officiale ridendo, è ben naturale che questo bravuomo vi rampogni: pare che non lo abbiate conciato molto bene.

— Ma, signore, fu per sola difesa.

— Ohè! disse l’officiale dando alle sue spalle un movimento superlativamente filosofico; ohè! lasciategli almeno il fiotto libero: non ve ne vien nulla.

Un sudor freddo venne sulla fronte di Cornelio a questa risposta, che riguardava come una ironia che puzzasse di bestiale, per parte specialmente di un officiale che gli si diceva stare al fianco della persona del principe.

Il disgraziato comprese che non aveva più risorsa nessuna, non più amici, e rassegnossi.

— E sia, mormorò abbassando la testa; se ne fecero delle più acerbe a Cristo; e la mia innocenza non è alle mille miglia paragonabile alla sua. Cristo sarebbesi fatto battere dal suo carceriere, e non l’avrebbe battuto.

Poi rivolgendosi all’officiale, che pareva attendesse gentilmente, che egli avesse finito le sue riflessioni:

— Via, signore, domandò, dove debbo andare?

L’officiale accennogli una carrozza tirata da quattro cavalli, che ricordavagli molto la carrozza che in una simile circostanza aveva già colpito i suoi occhi al Buitenhof.

— Montate là dentro, gli disse.

— Ah! mormorò Cornelio, parrebbe che non mi fosse riserbato l’onore della spianata!

Pronunziò queste parole abbastanza forte da essere comprese dallo storico che non avealo lasciato.

Senza dubbio ei credette che fosse suo dovere di dare nuovi schiarimenti a Cornelio, perchè accostassi alla portiera e intanto che l’officiale col piede sul montatoio dava alcuni ordini, ei diceva sommessamente:

— Si è dato che qualche condannato sia stato tradotto nella propria città e, perchè fosse l’esempio più strepitoso, vi abbia subito il suo supplizio davanti la porta della propria casa. È forse, questo.

Cornelio fece un segno di ringraziamento; e poi a quello di rincontro:

— Ebbene, disse, alla buon’ora! ecco qui un giovanotto che non manca mai di interporre una consolazione, quando gli si presenti il destro. Amico mio, ve ne sono davvero obbligato. Addio.

La vettura si mosse.

— Ah! scellerato! ah! brigante! urlò Grifo mostrando le pugna alla sua vittima che scappavagli di mano. E dire che se ne va senza rendermi mia figlia!

— Se mi si conduce a Dordrecht, disse Cornelio, vedrò passando da casa mia almeno le mie casellette se siano ben tenute.


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