< Il ventre di Napoli
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Cap. V. Il lotto
IV VI


V.


IL LOTTO.


Ebbene, a questo popolo eccezionalmente meridionale, nel cui sangue s’incrociano e si fondono tante gentili, poetiche, ardenti eredità etrusche, arabe, saracene, normanne, spagnuole, per cui questo ricco sangue napoletano si arroventa nell’odio, brucia nell’amore e si consuma nel sogno: a questa gente in cui l’immaginazione è la potenza dell’anima più alta, più alacre, inesauribile, una grande fantasticheria deve essere concessa.

È gente umile, bonaria, che sarebbe felice per poco e invece non ha nulla per essere felice; che sopporta con dolcezza, con pazienza la miseria, la fame quotidiana, l’indifferenza di coloro che dovrebbero amarla, l’abbandono di coloro che dovrebbero sollevarla.

Felice per l’esistenza all’aria aperta, eredità orientale, non ha aria; innamorata del sole, non ha sole; appassionata di colori gai, vive nella tetraggine; per la memoria della bella civiltà anteriore, greca, essa ama i bianchi portici che si disegnano sull’azzurro, e invece le tane dove abita questa gente non sembrano fatte per gli umani; e dei frutti della terra, essa ha i peggiori, quelli che in campagna si danno ai porci; e vi sono vivande che non assaggia mai.

Ebbene, provvidenzialmente, per un lato, il popolo napoletano rifà ogni settimana il suo grande sogno di felicità, vive per sei giorni in una speranza crescente, invadente, che si allarga, si allarga, esce dai confini della vita reale: per sei giorni il popolo napoletano sogna il suo grande sogno, dove sono tutte le cose di cui è privato, una casa pulita, dell’aria salubre e fresca, un bel raggio di sole caldo per terra, un letto bianco e alto, un comò lucido, i maccheroni e la carne ogni giorno, e il litro di vino e la culla pel bimbo e la biancheria per la moglie e il cappello nuovo per il marito.

Tutte queste cose che la vita reale non gli può dare, che non gli darà mai, esso le ha, nella sua immaginazione, dalla domenica al sabato seguente; e ne parla e ne è sicuro, e i progetti si sviluppano, diventano quasi quasi una realtà, e per essi marito e moglie litigano si abbracciano.

Alle quattro del pomeriggio, nel sabato, la delusione è profonda, la desolazione non ha limiti: ma alla domenica mattina la fantasia rimbalza, rinfrancata, il sogno settimanale ricomincia. Il lotto, il lotto è il largo sogno che consola la fantasia napoletana; è l’idea fissa di quei cervelli infuocati; è la grande visione felice che appaga la gente oppressa; è la vasta allucinazione che si prende le anime.



Ed è contagiosa questa malattia dello spirito: un contagio sottile e infallibile, inevitabile, la cui forza di diffusione non si può calcolare. Dal portinaio ciabattino che sta seduto al suo banchetto innanzi al portoncino, il contagio del lotto si comunica alla povera cucitrice che viene a portargli le scarpe vecchie da risuolare; da costei passa al suo innamorato, un garzone di cantina; costui lo porta all’oste che lo dà a tutti i suoi avventori, i quali lo seminano nelle case, nelle officine, nelle altre osterie, fino nelle chiese, anzi specialmente nelle chiese.

La serva del quinto piano, a destra, giuoca, sperando di non far più la serva; ma tutte le serve, di tutti i piani, giuocano, tanto la cameriera del primo che ha venti franchi il mese, quanto la vajassa del sesto, che ne prende cinque, con la dolce speranza di uscir dal servizio, così duro; e si comunicano i loro numeri, fanno combriccola sui pianerottoli, se li dicono dalle finestre, se li telegrafano a segni. La venditrice di frutta, che sta sotto il sole e sotto la pioggia, giuoca, e dal suo angolo di strada in giù, la moglie del sarto che cuce sulla porta, la moglie dello stagnino affogata dal fetore del piombo, la lavandaia che sta tutto il giorno con le mani nella saponata, la venditrice di castagne che si brucia la faccia e le mani al vapore e al calore del fornello, la venditrice di noci che ha le mani nere sino ai polsi per l’acido gallico, tutte queste donne credono nel lotto, giuocano fedelmente, ardentemente al lotto.

Nella stanza stretta, dove otto o dieci ragazze lavorano da sarte, e il bimbo della sarta dorme nella culla e in un angolo frigge il lardo nel tegame sul focolare, una dà i numeri, una seconda ne ha degli altri, la maesta sa i veri, tutte costoro giuocano.

Le pettinatrici del popolo, le cosidette capere, dal grembiule arrotolato attorno alla cintura, dalla testa scapigliata, dalle mani unte, che pettinano per un soldo al giorno, portano in giro i numeri alle loro clienti ne ricevono in cambio degli altri, sono il gran portavoce dei numeri. In tutte le officine dove gli operai napoletani sono riuniti a un lavoro lunghissimo così male retribuito, il lotto mette radici profonde; in tutte le scuole popolari giuocano le maestre e giuocano le alunne grandicelle, in comitiva, riunendo i soldi della colazione. Dove sono riunite, a vivere male, le disgraziate donne di cui Napoli ha così grande copia, il lotto è una delle più grandi speranze: speranza di redenzione.



Ma non credete che il male rimanga nelle classi popolari. No, no, esso ascende, assale le classi medie, s’intromette in tutte le borghesie, in tutti i commerci, arriva sino all’aristocrazia. Dove ci è un vero bisogno tenuto segreto, dove ci è uno spostamento che nulla vale a riequilibrare, dove ci è una rovina finanziaria celata ma imminente, dove ci è un desiderio che ha tutte le condizioni dell’impossibilità, dove la durezza della vita più si fa sentire e dove solo il danaro può esser rimedio, ivi il giuoco del lotto prende possesso, domina.

Segretamente, giuocano tutte le ragazze da marito che non hanno un soldo di dote; giuocano tutti i numerosi impiegati al municipio, alle banche, all’intendenza, al dazio consumo; tutti i pensionati che non possono vivere con la pensione e che non avendo nulla da fare, fanno la cabala, studiano la scienza negromantica del lotto, giuocano disperatamente e hanno sempre il libretto in pegno; tutti i commessi di negozio, che guadagnano quaranta lire il mese, sanno i numeri certi e li giuocano ogni settimana. Grande reddito al lotto lo danno i magistrati: pagati miserevolmente, essi che rappresentano la più grande equità morale, esposti a tentazioni che respingono con una inflessibilità degna di maggior premio, provvisti di molti figli, rovinati dai traslocamenti, la loro debolezza, la loro speranza consiste nel lotto.

I piccoli commercianti che si dibattono continuamente con le cambiali e fanno una lotta quotidiana col fallimento, finiscono per aggrapparsi a questa tavola molto incerta del lotto; i grandi giuocatori di borsa, che vivono sopra il taglio di un rasoio e son capaci di ballarci sopra un waltzer, a furia di febbre del giuoco, assaggiano volentieri la speranza del lotto. Tutti questi sintomi del male saliente alle classi dirigenti mi constano, per aver visto, udito, compreso e intuito.

Le signore dell’aristocrazia giuocano, un po’ per burletta, un po’ con la speranza di un nuovo braccialetto, un po’ per l’oppressione di una nota di sarta che il marito non salderà mai. Anche quelli che dovrebbero esserne salvi, perchè abituati al male, perchè ci stanno sempre in mezzo, gli impiegati dei banchi-lotto, i postini, non possono resistere alla tentazione. Onde, alle quattro del sabato, tutti quelli che sono più ammalati, non possono resistere e si recano all’Impresa, in una stretta strada fra la via Pignatelli e la via di Santa Chiara.

Ma tutte le serve, le venditrici, le operaie e gli operai, le ragazze e gl’impiegati non possono muoversi di dove sono. E allora un monello parte, va al più vicino posto del lotto e prende i numeri: tutti aspettano. Le persone più franche si fanno sulla porta e alle finestre: le vergognose restano dentro, tendendo l’orecchio. Il ragazzo torna correndo, affannato, si pianta alla bocca del vicolo e grida i numeri con voce stentorea:

Vintiquattro!

Sissantanove!

Quarantaroie!

Otto!

Sittantacinche!

Silenzio universale: tutti impallidiscono.



Ma come tutti i sogni troppo pronunziati, il lotto conduce alla inazione ed all’ozio; come tutte le visioni, esso porta alla falsità e alla menzogna; come tutte le allucinazioni, esso conduce alla crudeltà e alla ferocia; come tutti i rimedi fittizi che nascono dalla miseria, esso produce miseria, degradazione, delitto.

Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l’acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l’acquavite di Napoli.

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